Un mercante libanese di Anversa in città per piazzare la pietra a un rom (che ha con sé soldi falsi). Durante la trattativa scoppia una rissa tra le guardie del corpo
In un pomeriggio di fine aprile, un uomo entra in un paio di banche del centro di Milano e chiede una cassetta di sicurezza. È un libanese, tipo elegante, mercante di pietre preziose. È partito da Anversa, e in Italia non si muove da solo. Lo accompagna un socio inglese. Fanno base al Four Seasons, hotel extralusso in via Gesù, tra Monte Napoleone e via della Spiga. Li segue una guardia del corpo assoldata attraverso un contractor di Londra, un’agenzia di sicurezza che offre servizi in tutto il mondo, zone di guerra comprese. Il libanese ha bisogno di anonimato e protezione: deve vendere un diamante da 4 milioni di euro. In nero.
L’uomo che vuole comprare quella pietra è nato in provincia di Lecco, si chiama Mile Nikolic, ha 49 anni e un soprannome: negli ambienti della malavita lo conoscono come «il dottore». Etnia rom, di fatto è un uomo d’affari, fa parte di un’élite di truffatori in cravatta e abito grigio, che si muovono tra Italia ed Europa solo per colpi di alto livello. «Il dottore» ha lanciato la sua esca contattando alcuni mercanti in Belgio; diceva di essere alla ricerca di diamanti, per investimento. Ha fatto capire di poter pagare in contanti: una sorta di parola chiave per attrarre venditori disposti ad affari borderline . «Il dottore» e il libanese si sono già visti una volta, e si ritrovano davanti al Four Season intorno all’ora di pranzo del 24 aprile. Anche Nikolic ha il suo accompagnatore, una guardia giurata in divisa, con la macchina del suo istituto di vigilanza, che in quel momento sta facendo un servizio «personale» (illegale). Al «dottore» la guardia serve come messa in scena, per acquisire credibilità. Al momento di chiudere l’affare, qualcosa però non funziona.
Ore 13.05, in via Gesù si sentono urla, la macchina della vigilanza che scappa e sbatte, la guardia del libanese che ha provato a buttarsi dentro l’auto per recuperare qualcosa. In pochi secondi le Volanti della polizia che fanno servizio in centro circondano la zona e bloccano tutti (la guardia giurata, riuscita a fuggire, verrà fermata poco dopo in piazza Oberdan). Il libanese sostiene: «Mi hanno rubato un anello con diamante». Quanto valeva? «Circa 130 mila euro». Nikolic viene arrestato per rapina. In realtà, la versione più convincente è la sua. Perché «il dottore» aveva organizzato una truffa: i poliziotti gli trovano addosso 50 mila euro (veri) e scoprono nel suo trolley 89 mazzette di banconote da 500 euro, per un valore di quasi 4 milioni e mezzo (denaro fac-simile). Nikolic è un truffatore di alto livello, e se per il suo inganno ha portato quella somma, non è certo per comprare un «anellino». Lui stesso ammetterà che al centro della contrattazione c’era un diamante (o più diamanti) dal valore stratosferico. La pietra, però, è scomparsa.
E qui comincia l’inchiesta del pm Luigi Luzi e dell’Ufficio prevenzione generale della polizia, guidato da Maria José Falcicchia. Le vittime dicono di essere state rapinate di un diamante di basso valore, e un paio di giorni dopo lasciano Milano. Nikolic (che poi è stato scarcerato, come la guardia giurata, in attesa del rinvio a giudizio) sostiene di aver organizzato solo una truffa, e dunque il diamante non lo ha preso. Un’ipotesi, al momento astratta, è che durante la concitazione la security del libanese sia riuscita a recuperarlo e metterlo al sicuro. Di certo era un diamante «sporco», che il mercante di Anversa voleva vendere senza certificati e senza lasciar tracce dell’affare. Il magistrato e la polizia fanno perquisire con minuzia maniacale la cella di Nikolic. Poi lo portano in ospedale, per una lastra del busto, nell’ipotesi che abbia usato lo stomaco come nascondiglio «estremo». Esito della lastra: negativo. L’unica certezza, al momento, è che il «dottore» non ha ingoiato il diamante da 4 milioni.
Fonte: corriere.it
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11 lug 2015
26 nov 2013
Faida di ‘ndrangheta: boss dato in pasto ai maiali
Il killer al telefono: «Che gioia sentirlo strillare»
L’omicidio di Francesco Raccosta svelato da un’intercettazione
OPPIDO MAMERTINA(Reggio Calabria)
Un vanto. Buttare nella porcilaia il nemico ancora vivo, per essere mangiato dai maiali, è stato per Simone Pepe un modo per farsi «apprezzare» dai vertici della sua cosca. Il killer della cosca Borarrigo. Non pensava, però, di essere intercettato dai carabinieri e così quella sua spavalderia è diventata una confessione. L’uomo dato in pasto ai maiali si chiamava Francesco Raccosta. Sarebbe stato lui a uccidere il boss Domenico Bonarrigo che insieme ai Mazzagatti e Polimeni, da anni sono in guerra con i Ferraro-Raccosta in una faida paesana che ha origini nel 1950. Una guerra con decine di morti ammazzati che non ha risparmiato donne e neanche bambini.
LE VITTIME INNOCENTI
Maria Angela Ansalone aveva nove anni quando in compagnia del nonno Giuseppe Maria Bicchieri si trovava su una Croma scambiata dai killer per nemici: furono trucidati a colpi di mitraglietta. Nei primi mesi del 2012 la faida ha ripreso a mietere vittime. Dopo l’omicidio del boss Bonarrigo i killer della «famiglia» iniziarono a dare la caccia ai nemici. Cinque omicidi in due mesi. Tra questi i carabinieri diedero per certo anche quelli di Francesco Raccosta e Carmine Putrino. I due erano scomparsi misteriosamente senza lasciare tracce. Solo grazie alla spavalderia del killer è stato possibile avere qualche notizia sulla morte di almeno uno dei due, Raccosta: «È stata una soddisfazione sentirlo strillare. Mamma mia come strillava. Io non ho visto un cazzo… loro dicono che rimane qualcosa… io alla fine non ho visto niente… per me non è rimasto niente…. Ho detto no, come mangia sto maiale!». Questo il commento al telefono di Simone Pepe, che ha descritto con gli amici i particolari di quell’omicidio, vantandosi dell’azione.
LE INDAGINI - L’inchiesta che ha potuto fare luce su omicidi, droga e riciclaggio è stata sviluppata dai carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria ed è stata chiamata Erinni. Venti le persone fermate, tra cui un minore. Oltre agli omicidi sono state ricostruite le attività immobiliari della cosca Bonarrigo che aveva messo radici nella Capitale. Ottantotto gli immobili sequestrati per un valore di circa 70 milioni di euro. In casa di un fermato sono stati scoperti 170 mila euro, nascosti in un intercapedine.
Fonte: corriere.it
L’omicidio di Francesco Raccosta svelato da un’intercettazione
OPPIDO MAMERTINA(Reggio Calabria)
Un vanto. Buttare nella porcilaia il nemico ancora vivo, per essere mangiato dai maiali, è stato per Simone Pepe un modo per farsi «apprezzare» dai vertici della sua cosca. Il killer della cosca Borarrigo. Non pensava, però, di essere intercettato dai carabinieri e così quella sua spavalderia è diventata una confessione. L’uomo dato in pasto ai maiali si chiamava Francesco Raccosta. Sarebbe stato lui a uccidere il boss Domenico Bonarrigo che insieme ai Mazzagatti e Polimeni, da anni sono in guerra con i Ferraro-Raccosta in una faida paesana che ha origini nel 1950. Una guerra con decine di morti ammazzati che non ha risparmiato donne e neanche bambini.
LE VITTIME INNOCENTI
Maria Angela Ansalone aveva nove anni quando in compagnia del nonno Giuseppe Maria Bicchieri si trovava su una Croma scambiata dai killer per nemici: furono trucidati a colpi di mitraglietta. Nei primi mesi del 2012 la faida ha ripreso a mietere vittime. Dopo l’omicidio del boss Bonarrigo i killer della «famiglia» iniziarono a dare la caccia ai nemici. Cinque omicidi in due mesi. Tra questi i carabinieri diedero per certo anche quelli di Francesco Raccosta e Carmine Putrino. I due erano scomparsi misteriosamente senza lasciare tracce. Solo grazie alla spavalderia del killer è stato possibile avere qualche notizia sulla morte di almeno uno dei due, Raccosta: «È stata una soddisfazione sentirlo strillare. Mamma mia come strillava. Io non ho visto un cazzo… loro dicono che rimane qualcosa… io alla fine non ho visto niente… per me non è rimasto niente…. Ho detto no, come mangia sto maiale!». Questo il commento al telefono di Simone Pepe, che ha descritto con gli amici i particolari di quell’omicidio, vantandosi dell’azione.
LE INDAGINI - L’inchiesta che ha potuto fare luce su omicidi, droga e riciclaggio è stata sviluppata dai carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria ed è stata chiamata Erinni. Venti le persone fermate, tra cui un minore. Oltre agli omicidi sono state ricostruite le attività immobiliari della cosca Bonarrigo che aveva messo radici nella Capitale. Ottantotto gli immobili sequestrati per un valore di circa 70 milioni di euro. In casa di un fermato sono stati scoperti 170 mila euro, nascosti in un intercapedine.
Fonte: corriere.it
10 set 2013
Figli usa e getta. Negli USA i figli adottivi si regalano online
Genitori Usa e getta: prima adottano e poi «regalano» il figlio online a coppie a caso
La storia della liberiana Quita, fatta venire negli Stati Uniti da una coppia del Wisconsin che dopo due anni se n'è liberata
MILANO - Il primo piano di una ragazza dalla pelle scura e il sorriso smagliante, paraorecchi lilla e occhi brillanti: è questa la foto che i Puchalla, una coppia americana del Wisconsin, ha pubblicato su Internet per trovare nuovi genitori alla loro figlia adottiva adolescente, di origine liberiana. Missione compiuta, in meno di due giorni. Un’inchiesta investigativa di Reuters ha messo in luce come gli americani usino il web per abbandonare i figli adottati in Paesi lontani, affidando per sempre i bambini a estranei conosciuti su Internet, e come alcuni di questi minori subiscano in seguito gravi abusi.
LA STORIA DI QUITA
I Puchalla avevano preso Quita, una ragazza con problemi di salute e comportamentali, da un orfanatrofio in Liberia, e l’avevano tenuta per due anni. Quando hanno deciso che non ce la facevano più, hanno messo un annuncio su Internet. La coppia ha accompagnato la ragazza dai suoi nuovi «genitori» in un campo di case mobili dell’Illinois, dove nel giro di qualche ora gli adulti si sono conosciuti e passati la prole, senza l’ombra di coinvolgimento di alcuna istituzione pubblica. «Sembravano meravigliosi», ha dichiarato Melissa Puchalla a proposito degli Easons, i nuovi "custodi" di Quita. Ciò che i Puchalla non avevano voluto approfondire, l’hanno fatto i giornalisti di Reuters. Gli Easons hanno due figli biologici, sottratti alla loro custodia dalle autorità in quanto «i genitori hanno gravi problemi psichiatrici e tendenze alla violenza». La coppia in passato è stata anche accusata di abusi sessuali da bambini a cui aveva fatto da babysitter. La storia di Quita, ora ventunenne, si è conclusa all’epoca con un ritorno a casa dei «genitori » che meno di tre settimane prima l’avevano lasciata a degli estranei: è tutto ciò che hanno saputo fare le autorità, allertate da Melissa Puchalla quando gli Easons sono spariti, lasciando un cumulo di spazzatura e due cani alla catena nella piazzuola della loro casa mobile. Agli Easons non è stato contestato alcun reato, e Nicole Easons ha in seguito preso con sé un bambino di dieci anni insieme ad un uomo poi accusato di reati legati alla pornografia.
UNA PRATICA SOTTERRANEA DIFFUSA
L’inchiesta ha mostrato come quello di Quita non sia un caso isolato. Parecchi genitori americani che si pentono di aver adottato bambini difficili cercano di sbarazzarsene attraverso contatti via Facebook o altre piattaforme online. E per chi li vuole, si tratta di un metodo molto più immediato ed economico rispetto ad un’adozione formale. «Nato nell’ottobre del 2000, questo bel bambino, Rick, è arrivato dall’India un anno fa ed è ubbidiente e desideroso di piacere», si legge su uno dei 5.029 annunci analizzati da Reuters, che coprivano un arco temporale di cinque anni. In un gruppo di Yahoo! – in seguito chiuso dall’azienda insieme ad altri gruppi simili segnalati dall’agenzia giornalistica – un bambino alla settimana veniva in media pubblicizzato per il «re-homing», ossia il ricollocamento in una nuova famiglia, un termine di solito usato da chi cerca nuovi padroni per i propri animali domestici. La maggior parte di loro – oltre il 70 percento - erano stati adottatti Oltremare, e avevano tra i 6 e i 14 anni.
ASSENZA DI LEGGI E AUTORITÀ
La pratica avviene in modo molto semplice, tramite una procura autenticata da un notaio, che trasferisce la custodia del bambino. Le autorità preposte alla tutela dei minori non sono implicate. Gli scambi avvengono su un terreno scoperto da legislazione adeguata, e in alcuni casi illegalmente. Un accordo tra gli Stati americani, l’ICPC (Interstate Compact on the Placement of Children) dovrebbe in parte proteggere i minori, richiedendo la notifica alle autorità dei bambini che trovano casa in uno Stato diverso. Ma la legge è poco applicata e le conseguenze per chi la viola sono generalmente lievi o assenti. Il «re-homing» non è di base affrontato dalle legislazioni statali, federali o internazionali, e nessuna autorità negli Stati Uniti è preposta a seguire gli sviluppi delle adozioni che avvengono oltremare. «Spesso i bambini sono trattati come bestiame, e le esigenze dei genitori vengono messe davanti al benessere degli orfani che hanno portato negli Stati Uniti», si legge nel dossier pubblicato da Reuters, che oltre ad aver identificato otto gruppi su Internet dedicati allo scambio di minori, ha integrato migliaia di pagine di documenti – spesso confidenziali – da casi giudiziari, rapporti di polizia e agenzie preposte alla tutela dei minori.
Fonte: corriere.it
La storia della liberiana Quita, fatta venire negli Stati Uniti da una coppia del Wisconsin che dopo due anni se n'è liberata
MILANO - Il primo piano di una ragazza dalla pelle scura e il sorriso smagliante, paraorecchi lilla e occhi brillanti: è questa la foto che i Puchalla, una coppia americana del Wisconsin, ha pubblicato su Internet per trovare nuovi genitori alla loro figlia adottiva adolescente, di origine liberiana. Missione compiuta, in meno di due giorni. Un’inchiesta investigativa di Reuters ha messo in luce come gli americani usino il web per abbandonare i figli adottati in Paesi lontani, affidando per sempre i bambini a estranei conosciuti su Internet, e come alcuni di questi minori subiscano in seguito gravi abusi.
LA STORIA DI QUITA
I Puchalla avevano preso Quita, una ragazza con problemi di salute e comportamentali, da un orfanatrofio in Liberia, e l’avevano tenuta per due anni. Quando hanno deciso che non ce la facevano più, hanno messo un annuncio su Internet. La coppia ha accompagnato la ragazza dai suoi nuovi «genitori» in un campo di case mobili dell’Illinois, dove nel giro di qualche ora gli adulti si sono conosciuti e passati la prole, senza l’ombra di coinvolgimento di alcuna istituzione pubblica. «Sembravano meravigliosi», ha dichiarato Melissa Puchalla a proposito degli Easons, i nuovi "custodi" di Quita. Ciò che i Puchalla non avevano voluto approfondire, l’hanno fatto i giornalisti di Reuters. Gli Easons hanno due figli biologici, sottratti alla loro custodia dalle autorità in quanto «i genitori hanno gravi problemi psichiatrici e tendenze alla violenza». La coppia in passato è stata anche accusata di abusi sessuali da bambini a cui aveva fatto da babysitter. La storia di Quita, ora ventunenne, si è conclusa all’epoca con un ritorno a casa dei «genitori » che meno di tre settimane prima l’avevano lasciata a degli estranei: è tutto ciò che hanno saputo fare le autorità, allertate da Melissa Puchalla quando gli Easons sono spariti, lasciando un cumulo di spazzatura e due cani alla catena nella piazzuola della loro casa mobile. Agli Easons non è stato contestato alcun reato, e Nicole Easons ha in seguito preso con sé un bambino di dieci anni insieme ad un uomo poi accusato di reati legati alla pornografia.
UNA PRATICA SOTTERRANEA DIFFUSA
L’inchiesta ha mostrato come quello di Quita non sia un caso isolato. Parecchi genitori americani che si pentono di aver adottato bambini difficili cercano di sbarazzarsene attraverso contatti via Facebook o altre piattaforme online. E per chi li vuole, si tratta di un metodo molto più immediato ed economico rispetto ad un’adozione formale. «Nato nell’ottobre del 2000, questo bel bambino, Rick, è arrivato dall’India un anno fa ed è ubbidiente e desideroso di piacere», si legge su uno dei 5.029 annunci analizzati da Reuters, che coprivano un arco temporale di cinque anni. In un gruppo di Yahoo! – in seguito chiuso dall’azienda insieme ad altri gruppi simili segnalati dall’agenzia giornalistica – un bambino alla settimana veniva in media pubblicizzato per il «re-homing», ossia il ricollocamento in una nuova famiglia, un termine di solito usato da chi cerca nuovi padroni per i propri animali domestici. La maggior parte di loro – oltre il 70 percento - erano stati adottatti Oltremare, e avevano tra i 6 e i 14 anni.
ASSENZA DI LEGGI E AUTORITÀ
La pratica avviene in modo molto semplice, tramite una procura autenticata da un notaio, che trasferisce la custodia del bambino. Le autorità preposte alla tutela dei minori non sono implicate. Gli scambi avvengono su un terreno scoperto da legislazione adeguata, e in alcuni casi illegalmente. Un accordo tra gli Stati americani, l’ICPC (Interstate Compact on the Placement of Children) dovrebbe in parte proteggere i minori, richiedendo la notifica alle autorità dei bambini che trovano casa in uno Stato diverso. Ma la legge è poco applicata e le conseguenze per chi la viola sono generalmente lievi o assenti. Il «re-homing» non è di base affrontato dalle legislazioni statali, federali o internazionali, e nessuna autorità negli Stati Uniti è preposta a seguire gli sviluppi delle adozioni che avvengono oltremare. «Spesso i bambini sono trattati come bestiame, e le esigenze dei genitori vengono messe davanti al benessere degli orfani che hanno portato negli Stati Uniti», si legge nel dossier pubblicato da Reuters, che oltre ad aver identificato otto gruppi su Internet dedicati allo scambio di minori, ha integrato migliaia di pagine di documenti – spesso confidenziali – da casi giudiziari, rapporti di polizia e agenzie preposte alla tutela dei minori.
Fonte: corriere.it
15 gen 2013
Fascicoli dei processi manomessi per soldi. Napoli, 26 arresti negli uffici giudiziari
Coinvolti avvocati, alcuni cancellieri e un ispettore di polizia
Ne avrebbero beneficiato diversi boss
NAPOLI - Terremoto negli uffici giudiziari di Napoli. Avvocati e cancellieri occultavano o manipolavano fascicoli processuali in cambio di mazzette.
GIRO ILLEGALE
Ben ventisei ordinanze cautelari- tre in carcere, 22 ai domiciliari e una misura interdittiva - sono state eseguite su richiesta della Procura di Napoli contro un giro di illegalità scoperto negli uffici giudiziari partenopei. Sarebbero coinvolti quattro avvocati, alcuni cancellieri e un ispettore di polizia.
I NOMI
Sono in tutto 45 le persone indagate. Una serie di perquisizioni sono state effettuate dalla Guardia di Finanza negli studi degli avvocati coinvolti e in alcuni uffici giudiziari. L'inchiesta ha portato in carcere due dipendenti della Corte d'Appello, Mariano Raimondi e Giancarlo Vivolo, ed un faccendiere, Vincenzo Michele Olivo. I quattro avvocati agli arresti domiciliari sono Giancarlo Di Meglio, Fabio La Rotonda, Giorgio Pace e Stefano Zoff. Diversi sono i boss che avrebbero beneficiato della sparizione dei fascicoli o di singoli atti.
RIPRESE VIDEO
Agli atti ci sono intercettazioni e anche riprese video - delle telecamere installate negli uffici della corte d'Appello - che documenterebbero accordi e scambi di denaro tra cancellieri e avvocati coinvolti nell'organizzazione.
VIOLAZIONE SEGRETO ISTRUTTORIO
Nelle ordinanze si ipotizzano, a vario titolo, le accuse di associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, violazione del segreto istruttorio, occultamento di fascicoli processuali ed accesso abusivo ai sistemi informatici. I reati sarebbero stati commessi in particolare presso la Corte d'appello e il Tribunale di Sorveglianza.
LO SCHEMA
Secondo la Procura, dall'indagine emerge uno schema ricorrente. I funzionari o commessi degli uffici giudiziari, su sollecitazione di avvocati o faccendieri, avrebbero compiuto interventi illeciti su alcuni fascicoli, sottraendo parte degli atti o occultandoli completamente, in cambio di denaro o altre regalie, in modo da condizionare il normale iter giudiziario.
FAVORITI CAMORRISTI
L'organizzazione avrebbe favorito anche imputati o detenuti per reati di camorra. Gli indagati avrebbero fatto sparire fascicoli o singoli atti, in modo da ottenere continui rinvii e approdare o alla scadenza dei termini di custodia cautelare, o alla prescrizione dei reati contestati.
IL CONSULENTE
Dalle intercettazioni, sottolineano gli inquirenti, si evince l'esistenza di una vera e propria organizzazione, definita come «rete corruttiva». La misura interdittiva riguarda anche un consulente tecnico iscritto all'albo della procura e del tribunale: su incarico di un avvocato e dietro pagamento di mazzette avrebbe redatto perizie psichiatriche d'ufficio compiacenti a favore di un indagato gravato da numerosi procedimenti penali.
L'ISPETTORE DI POLIZIA
Ai domiciliari è finito invece un ispettore di polizia del commissariato Vicaria-Mercato, che - in base alle risultanze delle indagini - avrebbe avuto il compito di sostituire le relazioni negative redatte dal commissariato su richiesta del tribunale di sorveglianza con false relazioni positive, al fine di far ottenere ai condannati provvedimenti favorevoli.
LE TABELLE DELLE MAZZETTE
Funzionari e dipendenti pubblici corrotti avrebbero stabilito «tabelle» per determinare l'entità delle mazzette da ricevere, differenziate in base al tipo di manipolazione di fascicoli processuali. Venivano chiesti più soldi, naturalmente, quanto più spinoso o scottante era il fascicolo da inquinare. Visto il sistema collaudato, in alcuni casi sarebbero stati gli stessi dipendenti degli uffici giudiziari a sollecitare le attività illecite, proponendo ad avvocati e faccendieri delle ipotesi «interessanti» per i loro clienti e stabilendo il prezzo per ciascuno dei «favori» proposti.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.corriere.it
Ne avrebbero beneficiato diversi boss
NAPOLI - Terremoto negli uffici giudiziari di Napoli. Avvocati e cancellieri occultavano o manipolavano fascicoli processuali in cambio di mazzette.
GIRO ILLEGALE
Ben ventisei ordinanze cautelari- tre in carcere, 22 ai domiciliari e una misura interdittiva - sono state eseguite su richiesta della Procura di Napoli contro un giro di illegalità scoperto negli uffici giudiziari partenopei. Sarebbero coinvolti quattro avvocati, alcuni cancellieri e un ispettore di polizia.
I NOMI
Sono in tutto 45 le persone indagate. Una serie di perquisizioni sono state effettuate dalla Guardia di Finanza negli studi degli avvocati coinvolti e in alcuni uffici giudiziari. L'inchiesta ha portato in carcere due dipendenti della Corte d'Appello, Mariano Raimondi e Giancarlo Vivolo, ed un faccendiere, Vincenzo Michele Olivo. I quattro avvocati agli arresti domiciliari sono Giancarlo Di Meglio, Fabio La Rotonda, Giorgio Pace e Stefano Zoff. Diversi sono i boss che avrebbero beneficiato della sparizione dei fascicoli o di singoli atti.
RIPRESE VIDEO
Agli atti ci sono intercettazioni e anche riprese video - delle telecamere installate negli uffici della corte d'Appello - che documenterebbero accordi e scambi di denaro tra cancellieri e avvocati coinvolti nell'organizzazione.
VIOLAZIONE SEGRETO ISTRUTTORIO
Nelle ordinanze si ipotizzano, a vario titolo, le accuse di associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, violazione del segreto istruttorio, occultamento di fascicoli processuali ed accesso abusivo ai sistemi informatici. I reati sarebbero stati commessi in particolare presso la Corte d'appello e il Tribunale di Sorveglianza.
LO SCHEMA
Secondo la Procura, dall'indagine emerge uno schema ricorrente. I funzionari o commessi degli uffici giudiziari, su sollecitazione di avvocati o faccendieri, avrebbero compiuto interventi illeciti su alcuni fascicoli, sottraendo parte degli atti o occultandoli completamente, in cambio di denaro o altre regalie, in modo da condizionare il normale iter giudiziario.
FAVORITI CAMORRISTI
L'organizzazione avrebbe favorito anche imputati o detenuti per reati di camorra. Gli indagati avrebbero fatto sparire fascicoli o singoli atti, in modo da ottenere continui rinvii e approdare o alla scadenza dei termini di custodia cautelare, o alla prescrizione dei reati contestati.
IL CONSULENTE
Dalle intercettazioni, sottolineano gli inquirenti, si evince l'esistenza di una vera e propria organizzazione, definita come «rete corruttiva». La misura interdittiva riguarda anche un consulente tecnico iscritto all'albo della procura e del tribunale: su incarico di un avvocato e dietro pagamento di mazzette avrebbe redatto perizie psichiatriche d'ufficio compiacenti a favore di un indagato gravato da numerosi procedimenti penali.
L'ISPETTORE DI POLIZIA
Ai domiciliari è finito invece un ispettore di polizia del commissariato Vicaria-Mercato, che - in base alle risultanze delle indagini - avrebbe avuto il compito di sostituire le relazioni negative redatte dal commissariato su richiesta del tribunale di sorveglianza con false relazioni positive, al fine di far ottenere ai condannati provvedimenti favorevoli.
LE TABELLE DELLE MAZZETTE
Funzionari e dipendenti pubblici corrotti avrebbero stabilito «tabelle» per determinare l'entità delle mazzette da ricevere, differenziate in base al tipo di manipolazione di fascicoli processuali. Venivano chiesti più soldi, naturalmente, quanto più spinoso o scottante era il fascicolo da inquinare. Visto il sistema collaudato, in alcuni casi sarebbero stati gli stessi dipendenti degli uffici giudiziari a sollecitare le attività illecite, proponendo ad avvocati e faccendieri delle ipotesi «interessanti» per i loro clienti e stabilendo il prezzo per ciascuno dei «favori» proposti.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.corriere.it
11 dic 2012
Cocaina, Brescia «sniffa» 625 mila euro al giorno
Spesi 230 milioni l'anno, tanto quanto il bilancio dell'ente Provincia. Nel 2011 l'Asl ha curato 1.290 cocainomani
Ma quanta cocaina circola a Brescia? La domanda sorge spontanea mettendo in fila solo alcune delle operazioni antidroga compiute dalle forze dell'ordine nelle ultime due settimane: 110 grammi a Manerbio, 50 grammi a Cazzago, 2 chilogrammi a Fiesse. E si potrebbe continuare.
Con la polvere bianca scorre un fiume di denaro: 26mila euro che vengono «sniffati» ogni ora in qualche angolo della provincia. Fanno 625 mila euro al giorno, 230 milioni di euro all'anno. Stime prudenti.
I luoghi di produzione sono noti: Colombia, Perù, Bolivia. Da lì inizia il viaggio: verso Nord, gli Stati Uniti. E verso l'Europa. Magari in nave, via Brasile, diretta a Capo Verde o le Canarie, e poi lo stretto di Gibilterra, dove passano migliaia di barche e navi ogni settimana e i rischi sono limitati. Fino alle coste spagnole o dell'Italia e da lì verso le piazze del consumo: Milano, la «coca city» del Nord, ma anche Brescia, Verona e via dicendo. Talvolta anche in aereo, quando i quantitativi sono minori. Il business è enorme: al dettaglio un grammo di cocaina costa al massimo 100 euro, ma la concorrenza ha fatto sì che il prezzo sia oramai sempre più basso. Quanto guadagna chi la vende? I passaggi sono tanti. I grandi quantitativi vengono gestiti dalle organizzazioni criminali ma, in basso, il business è più capillare, diffuso. Un chilogrammo di cocaina può costare 30/32 mila euro se acquistato in Spagna mentre in Italia può salire fino a 47/48 mila euro.
Non tutti hanno però questi soldi. Ai piani bassi gli spacciatori ne comprano un etto: un investimento da 5.300 euro. Poi, prima di rivenderla, il taglio. Qualcuno ci aggiunge anfetamine o altri «principi attivi», altri ci mettono della mannite, un lassativo per bambini che costa (la confezione da 120 grammi) meno di 9 euro. Da un etto di cocaina se ne ricavano due venduti al dettaglio: 20 mila euro.
Cocaina pronta per essere buttata sul mercato. Il numero dei cocainomani saltuari è difficile da quantificare.
Maria Grazia Fasoli è la responsabile del Centro clinico cocainomani dell'Asl di Brescia, un servizio attivo da circa due anni e mezzo.
«Nel 2011 - spiega - le persone che nel territorio bresciano si sono rivolte al sistema dei servizi per le tossicodipendenze perché cocainomani sono state 1.290, il 37% del totale dei soggetti». Un dato in leggero calo rispetto al 2010 ma, prima di parlare di inversione di tendenza, la dottoressa invita alla prudenza. Innanzitutto i pazienti che si rivolgono ai servizi sono solo una piccola parte delle persone che fanno uso di droghe. E poi, «questa riduzione potrebbe avere diverse spiegazioni: per esempio l'aumento dei terapeuti privati che offrono interventi per questo tipo di problemi, la "normalizzazione" del consumo, la diffusione del ricorso a gruppi di auto aiuto».
Fonte: brescia.corriere.it
Ma quanta cocaina circola a Brescia? La domanda sorge spontanea mettendo in fila solo alcune delle operazioni antidroga compiute dalle forze dell'ordine nelle ultime due settimane: 110 grammi a Manerbio, 50 grammi a Cazzago, 2 chilogrammi a Fiesse. E si potrebbe continuare.
Con la polvere bianca scorre un fiume di denaro: 26mila euro che vengono «sniffati» ogni ora in qualche angolo della provincia. Fanno 625 mila euro al giorno, 230 milioni di euro all'anno. Stime prudenti.
I luoghi di produzione sono noti: Colombia, Perù, Bolivia. Da lì inizia il viaggio: verso Nord, gli Stati Uniti. E verso l'Europa. Magari in nave, via Brasile, diretta a Capo Verde o le Canarie, e poi lo stretto di Gibilterra, dove passano migliaia di barche e navi ogni settimana e i rischi sono limitati. Fino alle coste spagnole o dell'Italia e da lì verso le piazze del consumo: Milano, la «coca city» del Nord, ma anche Brescia, Verona e via dicendo. Talvolta anche in aereo, quando i quantitativi sono minori. Il business è enorme: al dettaglio un grammo di cocaina costa al massimo 100 euro, ma la concorrenza ha fatto sì che il prezzo sia oramai sempre più basso. Quanto guadagna chi la vende? I passaggi sono tanti. I grandi quantitativi vengono gestiti dalle organizzazioni criminali ma, in basso, il business è più capillare, diffuso. Un chilogrammo di cocaina può costare 30/32 mila euro se acquistato in Spagna mentre in Italia può salire fino a 47/48 mila euro.
Non tutti hanno però questi soldi. Ai piani bassi gli spacciatori ne comprano un etto: un investimento da 5.300 euro. Poi, prima di rivenderla, il taglio. Qualcuno ci aggiunge anfetamine o altri «principi attivi», altri ci mettono della mannite, un lassativo per bambini che costa (la confezione da 120 grammi) meno di 9 euro. Da un etto di cocaina se ne ricavano due venduti al dettaglio: 20 mila euro.
Cocaina pronta per essere buttata sul mercato. Il numero dei cocainomani saltuari è difficile da quantificare.
Maria Grazia Fasoli è la responsabile del Centro clinico cocainomani dell'Asl di Brescia, un servizio attivo da circa due anni e mezzo.
«Nel 2011 - spiega - le persone che nel territorio bresciano si sono rivolte al sistema dei servizi per le tossicodipendenze perché cocainomani sono state 1.290, il 37% del totale dei soggetti». Un dato in leggero calo rispetto al 2010 ma, prima di parlare di inversione di tendenza, la dottoressa invita alla prudenza. Innanzitutto i pazienti che si rivolgono ai servizi sono solo una piccola parte delle persone che fanno uso di droghe. E poi, «questa riduzione potrebbe avere diverse spiegazioni: per esempio l'aumento dei terapeuti privati che offrono interventi per questo tipo di problemi, la "normalizzazione" del consumo, la diffusione del ricorso a gruppi di auto aiuto».
Fonte: brescia.corriere.it
5 dic 2012
Abusivo sul posto disabili. Lo blocca e viene denunciato per violenza privata.
È accaduto ad un papà che doveva parcheggiare perché trasportava la figlia con handicap
Ha voluto che si facesse giustizia e per questo ha atteso i carabinieri. Ma alla fine si è ritrovato multato lui, che trasportava la figlia disabile in auto e aveva trovato il posto per i portatori di handicap occupato da un abusivo.
È accaduto ad un papà di 47 anni di Pedrengo, in provincia di Bergamo. Con la figlia, bimba affetta da disabilità, stava andando a trovare la madre. Al momento di parcheggiare ha notato che il posto auto delimitato dalle strisce gialle e indicato dal cartello come «riservato ai portatori di handicap», era occupato da un'auto che non esponeva nessun contrassegno.
A quel punto il papà ha chiamato il 112, per chiedere un intervento dei carabinieri. E con la sua auto si è messo immediatamente dietro la vettura parcheggiata abusivamente. Voleva bloccarne l'uscita, in attesa dell'Arma. Per questo, alla fine, è stato lui ad essere denunciato, per violenza privata: perché nessuno può impedire ad altri un libero spostamento. Contemporaneamente è scattata la multa all'automobilista che aveva occupato il parcheggio riservato ai disabili.
Fonte: corriere.it
Ha voluto che si facesse giustizia e per questo ha atteso i carabinieri. Ma alla fine si è ritrovato multato lui, che trasportava la figlia disabile in auto e aveva trovato il posto per i portatori di handicap occupato da un abusivo.
È accaduto ad un papà di 47 anni di Pedrengo, in provincia di Bergamo. Con la figlia, bimba affetta da disabilità, stava andando a trovare la madre. Al momento di parcheggiare ha notato che il posto auto delimitato dalle strisce gialle e indicato dal cartello come «riservato ai portatori di handicap», era occupato da un'auto che non esponeva nessun contrassegno.
A quel punto il papà ha chiamato il 112, per chiedere un intervento dei carabinieri. E con la sua auto si è messo immediatamente dietro la vettura parcheggiata abusivamente. Voleva bloccarne l'uscita, in attesa dell'Arma. Per questo, alla fine, è stato lui ad essere denunciato, per violenza privata: perché nessuno può impedire ad altri un libero spostamento. Contemporaneamente è scattata la multa all'automobilista che aveva occupato il parcheggio riservato ai disabili.
Fonte: corriere.it
14 nov 2012
Irlanda: le impediscono di abortire e muore
Savita Halappanavar di religione hindu deceduta in ospedale di setticemia. I medici: «Nessun aborto siamo Paese cattolico»
Un caso che sta sconvolgendo mezza Europa. Il caso di Savita Halappanavar, irlandese di origini indiane, è destinato a riaccendere l'annoso dibattito sulle leggi in materia di aborto nella cattolicissima Irlanda. La donna, una dentista hindu di 31 anni, è morta, dopo che i dottori le hanno negato un'interruzione di gravidanza alla 17esima settimana, spiegandole che «questo è un paese cattolico». Le autorità hanno aperto un'inchiesta, mentre il premier Enda Kenny ha dichiarato ai deputati di essere in attesa dei risultati di due indagini sulla morte di Savita, avvenuta presso l'ospedale universitario di Galway, Irlanda occidentale. In Irlanda l'aborto è illegale ad eccezione di quando serve a salvare la vita della madre. I familiari di Halappanavar, hanno raccontato che la donna ha chiesto più volte ai dottori di interrompere la gravidanza, perchè avvertiva un fortissimo mal di schiena e stava per abortire.
LA TESTIMONIANZA
I medici le hanno tuttavia risposto che non poteva abortire perchè l'Irlanda è un paese cattolico e il feto era ancora vivo, ha spiegato il marito Praveen all'Irish Times. «Il consulente spiegò "finché si sente un battito cardiaco del feto non possiamo fare niente"», ha aggiunto il marito, in un'intervista telefonica dalla regione di Karnataka, nel sud dell'India. Non sono nè irlandese, nè cattolica - disse allora Savita, secondo l'uomo - ma mi hanno detto che non possono fare niente. La donna è morta di setticemia il 28 ottobre scorso, una settimana dopo il ricovero. Il feto è stato asportato dal suo corpo il 23 ottobre, dopo che il cuoricino aveva smesso di battere. L'ospedale ha spiegato in un comunicato di avere richiesto un'indagine sulla morte di Savita, che non è ancora partita, dato che i dottori stanno attendendo di parlare con la famiglia Halappanavar, al momento in India per i funerali. La coppia di indiani vive a Galway, dove il marito 34enne lavora come ingegnere. Il premier Kenny ha affermato che il ministro della Sanità ha richiesto una relazione sulle circostanze in cui è morta la donna, mentre le indagini sono state lanciate dall'ospedale e dal dipartimento della Salute irlandese. La morte di Savita è avvenuta a poche settimane dall'apertura della prima clinica privata pro-aborto in Irlanda del Nord.
Fonte: corriere.it
Un caso che sta sconvolgendo mezza Europa. Il caso di Savita Halappanavar, irlandese di origini indiane, è destinato a riaccendere l'annoso dibattito sulle leggi in materia di aborto nella cattolicissima Irlanda. La donna, una dentista hindu di 31 anni, è morta, dopo che i dottori le hanno negato un'interruzione di gravidanza alla 17esima settimana, spiegandole che «questo è un paese cattolico». Le autorità hanno aperto un'inchiesta, mentre il premier Enda Kenny ha dichiarato ai deputati di essere in attesa dei risultati di due indagini sulla morte di Savita, avvenuta presso l'ospedale universitario di Galway, Irlanda occidentale. In Irlanda l'aborto è illegale ad eccezione di quando serve a salvare la vita della madre. I familiari di Halappanavar, hanno raccontato che la donna ha chiesto più volte ai dottori di interrompere la gravidanza, perchè avvertiva un fortissimo mal di schiena e stava per abortire.
LA TESTIMONIANZA
I medici le hanno tuttavia risposto che non poteva abortire perchè l'Irlanda è un paese cattolico e il feto era ancora vivo, ha spiegato il marito Praveen all'Irish Times. «Il consulente spiegò "finché si sente un battito cardiaco del feto non possiamo fare niente"», ha aggiunto il marito, in un'intervista telefonica dalla regione di Karnataka, nel sud dell'India. Non sono nè irlandese, nè cattolica - disse allora Savita, secondo l'uomo - ma mi hanno detto che non possono fare niente. La donna è morta di setticemia il 28 ottobre scorso, una settimana dopo il ricovero. Il feto è stato asportato dal suo corpo il 23 ottobre, dopo che il cuoricino aveva smesso di battere. L'ospedale ha spiegato in un comunicato di avere richiesto un'indagine sulla morte di Savita, che non è ancora partita, dato che i dottori stanno attendendo di parlare con la famiglia Halappanavar, al momento in India per i funerali. La coppia di indiani vive a Galway, dove il marito 34enne lavora come ingegnere. Il premier Kenny ha affermato che il ministro della Sanità ha richiesto una relazione sulle circostanze in cui è morta la donna, mentre le indagini sono state lanciate dall'ospedale e dal dipartimento della Salute irlandese. La morte di Savita è avvenuta a poche settimane dall'apertura della prima clinica privata pro-aborto in Irlanda del Nord.
Fonte: corriere.it
8 nov 2012
Ama, cocaina e furti di rame in servizio
Due video-choc girati nello stabilimento dei rifiuti di Rocca Cencia a Roma riprendono un addetto che sniffa in un deposito off-limits, mentre altri rubano metallo da rivendere
ROMA - L'addetto all'impianto dell'Ama è accucciato di spalle a ridosso di una colonna, in uno dei posti di Roma dimenticati da Dio e dagli uomini. Indossa la divisa, è in orario di lavoro.
Rocca Cencia, estrema periferia est, due passi nell'inferno. Poco più in là, oltre il portellone che dovrebbe essere sigillato e invece è irresponsabilmente spalancato, c'è un capannone da cui proviene a folate tanfo irrespirabile. É il deposito Fos, la frazione organica scartata dal processo per la produzione di combustibile. Tonnellate di rifiuti, i nostri avanzi di tutti i giorni, in putrefazione. Concentrazione batteriologica spaventosa.
Dipendente AMA sniffa cocaina
Il cocainomane porta le mani alla bocca. Sniffa, tira su col naso. Gesti usuali, meccanici. Due, tre volte. Poi si alza barcollando, va verso il magazzino. Entra alzando le braccia, ruota su se stesso. Balla e intona cori da stadio. La voce rimbomba, l'effetto è spettrale. Mentre dalla soglia, senza essere visto, qualcuno tiene il telefonino in funzione Rec e documenta tutto. «Chi non salta / giallorosso è / è...»
L'esagitato ora punta verso la montagna di monnezza, per un attimo sembra che voglia tuffarcisi dentro. Poi si ferma, si piega, raccoglie qualcosa... Lo stato d'alterazione è evidente, pericolosissimo: ma, buon per lui, in un baluginio di coscienza fa dietro front. Torna all'aperto, al riparo dai miasmi pestilenziali.
Pulp Ama. Degrado e sacche di emarginazione inimmaginabili. Nella municipalizzata al centro delle polemiche per le assunzioni familiari, le promozioni ai sindacalisti, gli appalti sospetti accade anche questo.
Eccolo, uno dei video dello scandalo ambientati nello stabilimento di Rocca Cencia denominato «Ama 2», che tratta i rifiuti indifferenziati. A girare il filmato è stato, qualche settimana fa, un operaio di una quarantina d'anni scandalizzato da ciò che vedeva: le scene di violenza, ma anche l'abbandono di un servizio che necessita di altissimi standard di sicurezza. A tutela innanzitutto dei lavoratori, prime vittime del lassismo; compresi, naturalmente, i dipendenti con problemi di tossicodipendenza.
Adesso, all'appuntamento semi-clandestino in un bar sulla Casilina, a un paio di chilometri da Rocca Cencia, avviene lo scambio. Arrivano in tre, il «regista» e due colleghi solidali. «Ecco i filmati, fanne buon uso», sibila l'Uomo del telefonino, allungando il pugno con dentro la chiavetta Usb.
«É giusto scoperchiare il marcio di questa azienda - spiega -. I vertici devono sapere tutto, la smettano di tenere la testa nella sabbia». Lo fai anche per te? Una vendetta? Risposta immediata, quasi uno scatto d'orgoglio: «Diciamo che questi video, se un giorno uno di noi fosse ammazzato sul posto di lavoro, costituirebbero perlomeno un indizio...». Ma lo dice senza rancore, quasi con ironia: «La verità è che io, quando entrai in Ama, ci credevo, volevo dare un senso alla fatica quotidiana... É una questione di dignità: così non si può andare avanti».
Nel secondo filmato c'è anche la voce, dell'Uomo con il telefonino. La scena si sposta nel deposito per la selezione dei metalli portati dai nastri: parti meccaniche, utensili, pentole, ferri arrugginiti. Il cellulare torna in funzione Rec : «Questo è perché loro usano la mola per fare il rame, lo staccano dai motori e se lo rivendono, durante l'orario di lavoro», spiega una voce fuori campo: lui.
All'inizio sono inquadrati un frullino e un motore poggiati per terra. Poi, lento zoom su due addetti Ama alle prese con le operazioni di taglio: le scintille rosse dell'attrito con i metalli illuminano il capannone... «É mezz'ora che fanno il rame, con quel frullino. E qua non controlla nessuno!», prosegue implacabile la voce, in un misto di incredulità, sdegno, amarezza.
Rocca Cencia, estrema periferia est, due passi nell'inferno.
Fonte: roma.corriere.it
ROMA - L'addetto all'impianto dell'Ama è accucciato di spalle a ridosso di una colonna, in uno dei posti di Roma dimenticati da Dio e dagli uomini. Indossa la divisa, è in orario di lavoro.
Rocca Cencia, estrema periferia est, due passi nell'inferno. Poco più in là, oltre il portellone che dovrebbe essere sigillato e invece è irresponsabilmente spalancato, c'è un capannone da cui proviene a folate tanfo irrespirabile. É il deposito Fos, la frazione organica scartata dal processo per la produzione di combustibile. Tonnellate di rifiuti, i nostri avanzi di tutti i giorni, in putrefazione. Concentrazione batteriologica spaventosa.
Dipendente AMA sniffa cocaina
Il cocainomane porta le mani alla bocca. Sniffa, tira su col naso. Gesti usuali, meccanici. Due, tre volte. Poi si alza barcollando, va verso il magazzino. Entra alzando le braccia, ruota su se stesso. Balla e intona cori da stadio. La voce rimbomba, l'effetto è spettrale. Mentre dalla soglia, senza essere visto, qualcuno tiene il telefonino in funzione Rec e documenta tutto. «Chi non salta / giallorosso è / è...»
L'esagitato ora punta verso la montagna di monnezza, per un attimo sembra che voglia tuffarcisi dentro. Poi si ferma, si piega, raccoglie qualcosa... Lo stato d'alterazione è evidente, pericolosissimo: ma, buon per lui, in un baluginio di coscienza fa dietro front. Torna all'aperto, al riparo dai miasmi pestilenziali.
Pulp Ama. Degrado e sacche di emarginazione inimmaginabili. Nella municipalizzata al centro delle polemiche per le assunzioni familiari, le promozioni ai sindacalisti, gli appalti sospetti accade anche questo.
Eccolo, uno dei video dello scandalo ambientati nello stabilimento di Rocca Cencia denominato «Ama 2», che tratta i rifiuti indifferenziati. A girare il filmato è stato, qualche settimana fa, un operaio di una quarantina d'anni scandalizzato da ciò che vedeva: le scene di violenza, ma anche l'abbandono di un servizio che necessita di altissimi standard di sicurezza. A tutela innanzitutto dei lavoratori, prime vittime del lassismo; compresi, naturalmente, i dipendenti con problemi di tossicodipendenza.
Adesso, all'appuntamento semi-clandestino in un bar sulla Casilina, a un paio di chilometri da Rocca Cencia, avviene lo scambio. Arrivano in tre, il «regista» e due colleghi solidali. «Ecco i filmati, fanne buon uso», sibila l'Uomo del telefonino, allungando il pugno con dentro la chiavetta Usb.
«É giusto scoperchiare il marcio di questa azienda - spiega -. I vertici devono sapere tutto, la smettano di tenere la testa nella sabbia». Lo fai anche per te? Una vendetta? Risposta immediata, quasi uno scatto d'orgoglio: «Diciamo che questi video, se un giorno uno di noi fosse ammazzato sul posto di lavoro, costituirebbero perlomeno un indizio...». Ma lo dice senza rancore, quasi con ironia: «La verità è che io, quando entrai in Ama, ci credevo, volevo dare un senso alla fatica quotidiana... É una questione di dignità: così non si può andare avanti».
Nel secondo filmato c'è anche la voce, dell'Uomo con il telefonino. La scena si sposta nel deposito per la selezione dei metalli portati dai nastri: parti meccaniche, utensili, pentole, ferri arrugginiti. Il cellulare torna in funzione Rec : «Questo è perché loro usano la mola per fare il rame, lo staccano dai motori e se lo rivendono, durante l'orario di lavoro», spiega una voce fuori campo: lui.
All'inizio sono inquadrati un frullino e un motore poggiati per terra. Poi, lento zoom su due addetti Ama alle prese con le operazioni di taglio: le scintille rosse dell'attrito con i metalli illuminano il capannone... «É mezz'ora che fanno il rame, con quel frullino. E qua non controlla nessuno!», prosegue implacabile la voce, in un misto di incredulità, sdegno, amarezza.
Rocca Cencia, estrema periferia est, due passi nell'inferno.
Fonte: roma.corriere.it
3 ott 2012
Veronica Cappellaro del Pdl (imbucata) alla festa della merda
A casa di Paolo Pazzaglia, davanti a palazzo Chigi
Veronica Cappellaro: che male c'è? Ero invitata
Il padrone di casa: me la sono trovata in salone
«Bleahhh... No no, scusate, sto per vomitare... io vado via», disse con gli occhi lucidi Emilio Sturla Furnò, press-agent.
L'attrice brasiliana Linda Battista, che gli era accanto, indietreggiò vacillando in cima ai suoi sandali argentati, tacco dodici d'ordinanza. Tossì, deglutì. Poi lanciò un urletto: «Quanta cacca! Che schifooo!».
Scopettini da water imbrattati di pongo marrone, assorbenti, nauseabondo tanfo da latrina (fialette carnevalesche erano state appositamente vuotate nell'ascensore): attico e superattico di Palazzo Ferrajoli, tutti in coda per salire al festone volutamente trash organizzato nei suoi magnifici saloni da Paolo Pazzaglia, imprenditore gaudente, ultimo play-boy in attività, ricco provocatore che, abitando di fronte a Palazzo Chigi, si diverte con queste serate danzanti contro la politica e vietate ai politici (ma una signora con capelli in perfetto biondo Roma Nord, vestitino simil-leopardo, si stava turando il naso e si apprestava ad entrare in ascensore per salire su: tra breve scopriremo chi è, e stenterete a crederci).
Venerdì sera, altro giro e altro party romano: però niente a che vedere con le atmosfere ispirate all'antica Grecia - ancelle senza reggiseno che versavano champagne e gli amichetti pariolini con le teste da maiale in cartapesta - con cui il consigliere regionale del Pdl Carlo De Romanis volle festeggiare la sua elezione. Qui scendiamo, se possibile, molto più in basso; qui tutti in coda con in mano l'invito strettamente personale su cui era scritto: «Siamo proprio nella merda». Musica di sottofondo, risate grasse, un tipo vestito da operaio Fiat si aggirava nella bolgia degli invitati (oltre trecento) chiedendo la carità. In fondo al corridoio, un altro signore, seduto su un water, leggeva un giornale. Entrarono Carmen Russo con il marito Enzo Paolo Turchi. Lei: «Oh, santo cielo...». Lui: «Vabbuò... dov'è il buffet?».
Daniela Martani, l'ex hostess dell'Alitalia divenuta celebre per aver protestato in piazza con il cappio al collo, cantava al pianoforte. La contessa Patrizia de Blanck (ex Isola dei famosi) sbottò: «Oh... io mi sento tutta sporca e appiccicosa!». Lo scrittore Luciano De Crescenzo fu fatto accomodare su un divano proprio mentre la signora bionda in abitino da night-club, che imperterrita s'era turata il naso pur di salire, compariva sulla porta.
Paparazzo: «Aho'! Ma... ma quella nun è la consigliera...».
Altro paparazzo: «Nun ce posso crede... È Veronica Cappellaro...».
Flash, ressa (all'improvviso spuntò anche, come testimonia Gabriella Sassone, bravissima cronista mondana e firma velenosa di Dagospia , una troupe delle Iene, con quella strepitosa maschera di Enrico Lucci che già allungava il microfono).
Era lei, sì. Improvvisamente ospite d'onore. Veronica Cappellaro dai Monti Parioli, di anni 31, strettissimo rito berlusconiano, per il Pdl presidente della commissione Cultura alla Regione Lazio con questo curriculum: sei anni al consiglio municipale e poi paracadutata (non è una metafora) al Consiglio regionale, a 13 mila euro netti al mese (un figlio, avuto da Luca Pompei, nipote di donna Assunta Almirante, l'ha chiamato Piersilvio; un altro figlio l'ha invece avuto da Francesco Pasquali, finiano, pure lui consigliere regionale).
Signora Cappellaro, le è sembrato opportuno partecipare a quella festa?
«Primo: la festa sugli escrementi non l'ho organizzata io, ero solo un'invitata. Secondo: che male c'è ad andare a una festa?».La festa era organizzata in sfregio a voi politici. «Embè? Perché, non è vero che stamo tutti nella merda?». Senta...
«Pure lei, non creda, pure lei è nella merda se è costretto a chiedermi di quella festa, invece di farmi domande sulla mia importante attività alla Regione Lazio...».
Allora devo chiederle come e perché, con i soldi del suo gruppo, soldi pubblici, ha speso 1.080 euro per una serie di ritratti fotografici, 17 mila euro per una serie di cene da «Pasqualino al Colosseo» e 8.800 euro per un aperitivo al «Bar Martini»: perché? «Ah, vabbé... No, dico: mi vuole mettere in croce per un aperitivo?».
Un aperitivo da 8.800 euro: signora...
«Senta, ma qual è il politico che paga di tasca sua? Lei ne conosce? E poi... ma che me ne frega a me'! Posso sta' a perde tempo con lei pe na' festa sulla merda?».
Alla festa, ad un certo punto, arrivò anche Ilona Staller detta Cicciolina, ex pornostar che, a 61 anni suonati (gli anni passano per tutti) vorrebbe tornare in Parlamento con il suo nuovo partito, che ha chiamato Dna, «Democrazia, natura e amore, per far vivere felici tutti i cicciolini italiani».
In un angolo, il padrone di casa (65 anni portati con spavalderia) se la rideva di gusto. Tre ragazze molto belle e con minigonne inguinali ballavano scatenate mimando scene lesbo; gli invitati un po' più su con l'età, come Adriano Aragozzini e Rosanna Lambertucci, s'avventavano senza indugi su dolci che avevano l'inquietante forma, e colore, di grosse feci.
(« Ho la fortuna di abitare davanti al palazzo del governo, così organizzo feste per esprimere il mio disappunto: i politici mi fanno tutti schifo. La mattina dopo, magari, mi pento: penso che i soldi spesi avrei potuto donarli ai bimbi poveri. Ma poi mi convinco che una festa trash, forse, è una denuncia più utile».
Pazzaglia, però perché ha invitato la Cappellaro?
«No, guardi, io ho una regola ferrea: i politici, a casa mia, non mettono piede. Quella s'è imbucata».
Imbucata? «Me la sono ritrovata in salone. Ho chiesto chi fosse, quando ho visto che tutti la fotografavano...»).
Fonte: corriere.it
Veronica Cappellaro: che male c'è? Ero invitata
Il padrone di casa: me la sono trovata in salone
«Bleahhh... No no, scusate, sto per vomitare... io vado via», disse con gli occhi lucidi Emilio Sturla Furnò, press-agent.
L'attrice brasiliana Linda Battista, che gli era accanto, indietreggiò vacillando in cima ai suoi sandali argentati, tacco dodici d'ordinanza. Tossì, deglutì. Poi lanciò un urletto: «Quanta cacca! Che schifooo!».
Scopettini da water imbrattati di pongo marrone, assorbenti, nauseabondo tanfo da latrina (fialette carnevalesche erano state appositamente vuotate nell'ascensore): attico e superattico di Palazzo Ferrajoli, tutti in coda per salire al festone volutamente trash organizzato nei suoi magnifici saloni da Paolo Pazzaglia, imprenditore gaudente, ultimo play-boy in attività, ricco provocatore che, abitando di fronte a Palazzo Chigi, si diverte con queste serate danzanti contro la politica e vietate ai politici (ma una signora con capelli in perfetto biondo Roma Nord, vestitino simil-leopardo, si stava turando il naso e si apprestava ad entrare in ascensore per salire su: tra breve scopriremo chi è, e stenterete a crederci).
Venerdì sera, altro giro e altro party romano: però niente a che vedere con le atmosfere ispirate all'antica Grecia - ancelle senza reggiseno che versavano champagne e gli amichetti pariolini con le teste da maiale in cartapesta - con cui il consigliere regionale del Pdl Carlo De Romanis volle festeggiare la sua elezione. Qui scendiamo, se possibile, molto più in basso; qui tutti in coda con in mano l'invito strettamente personale su cui era scritto: «Siamo proprio nella merda». Musica di sottofondo, risate grasse, un tipo vestito da operaio Fiat si aggirava nella bolgia degli invitati (oltre trecento) chiedendo la carità. In fondo al corridoio, un altro signore, seduto su un water, leggeva un giornale. Entrarono Carmen Russo con il marito Enzo Paolo Turchi. Lei: «Oh, santo cielo...». Lui: «Vabbuò... dov'è il buffet?».
Daniela Martani, l'ex hostess dell'Alitalia divenuta celebre per aver protestato in piazza con il cappio al collo, cantava al pianoforte. La contessa Patrizia de Blanck (ex Isola dei famosi) sbottò: «Oh... io mi sento tutta sporca e appiccicosa!». Lo scrittore Luciano De Crescenzo fu fatto accomodare su un divano proprio mentre la signora bionda in abitino da night-club, che imperterrita s'era turata il naso pur di salire, compariva sulla porta.
Paparazzo: «Aho'! Ma... ma quella nun è la consigliera...».
Altro paparazzo: «Nun ce posso crede... È Veronica Cappellaro...».
Flash, ressa (all'improvviso spuntò anche, come testimonia Gabriella Sassone, bravissima cronista mondana e firma velenosa di Dagospia , una troupe delle Iene, con quella strepitosa maschera di Enrico Lucci che già allungava il microfono).
Era lei, sì. Improvvisamente ospite d'onore. Veronica Cappellaro dai Monti Parioli, di anni 31, strettissimo rito berlusconiano, per il Pdl presidente della commissione Cultura alla Regione Lazio con questo curriculum: sei anni al consiglio municipale e poi paracadutata (non è una metafora) al Consiglio regionale, a 13 mila euro netti al mese (un figlio, avuto da Luca Pompei, nipote di donna Assunta Almirante, l'ha chiamato Piersilvio; un altro figlio l'ha invece avuto da Francesco Pasquali, finiano, pure lui consigliere regionale).
Signora Cappellaro, le è sembrato opportuno partecipare a quella festa?
«Primo: la festa sugli escrementi non l'ho organizzata io, ero solo un'invitata. Secondo: che male c'è ad andare a una festa?».La festa era organizzata in sfregio a voi politici. «Embè? Perché, non è vero che stamo tutti nella merda?». Senta...
«Pure lei, non creda, pure lei è nella merda se è costretto a chiedermi di quella festa, invece di farmi domande sulla mia importante attività alla Regione Lazio...».
Allora devo chiederle come e perché, con i soldi del suo gruppo, soldi pubblici, ha speso 1.080 euro per una serie di ritratti fotografici, 17 mila euro per una serie di cene da «Pasqualino al Colosseo» e 8.800 euro per un aperitivo al «Bar Martini»: perché? «Ah, vabbé... No, dico: mi vuole mettere in croce per un aperitivo?».
Un aperitivo da 8.800 euro: signora...
«Senta, ma qual è il politico che paga di tasca sua? Lei ne conosce? E poi... ma che me ne frega a me'! Posso sta' a perde tempo con lei pe na' festa sulla merda?».
Alla festa, ad un certo punto, arrivò anche Ilona Staller detta Cicciolina, ex pornostar che, a 61 anni suonati (gli anni passano per tutti) vorrebbe tornare in Parlamento con il suo nuovo partito, che ha chiamato Dna, «Democrazia, natura e amore, per far vivere felici tutti i cicciolini italiani».
In un angolo, il padrone di casa (65 anni portati con spavalderia) se la rideva di gusto. Tre ragazze molto belle e con minigonne inguinali ballavano scatenate mimando scene lesbo; gli invitati un po' più su con l'età, come Adriano Aragozzini e Rosanna Lambertucci, s'avventavano senza indugi su dolci che avevano l'inquietante forma, e colore, di grosse feci.
(« Ho la fortuna di abitare davanti al palazzo del governo, così organizzo feste per esprimere il mio disappunto: i politici mi fanno tutti schifo. La mattina dopo, magari, mi pento: penso che i soldi spesi avrei potuto donarli ai bimbi poveri. Ma poi mi convinco che una festa trash, forse, è una denuncia più utile».
Pazzaglia, però perché ha invitato la Cappellaro?
«No, guardi, io ho una regola ferrea: i politici, a casa mia, non mettono piede. Quella s'è imbucata».
Imbucata? «Me la sono ritrovata in salone. Ho chiesto chi fosse, quando ho visto che tutti la fotografavano...»).
Fonte: corriere.it
29 set 2012
«Era a libro paga della 'ndrangheta». Ex magistrato di Palmi condannato a Milano
Quattro anni di reclusione per l'ex gip Giusti con l'accusa di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa
MILANO - L'ex gip del tribunale di Palmi (Reggio Calabria) Giancarlo Giusti è stato condannato a 4 anni di reclusione con l'accusa di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa. Secondo l'accusa, il giudice, sospeso dal Csm dopo l'arresto nel marzo scorso, sarebbe stato corrotto dalla cosca dei Lampada con escort e soggiorni di lusso. La sentenza è stata emessa dal gup di Milano Alessandra Simion, che ha condannato altre tre persone, tra cui l'avvocato Vincenzo Minasi a 4 anni e 4 mesi.
LA SENTENZA
Per il magistrato Giusti, così come per l'avvocato Minasi, il giudice - che ha in sostanza accolto le richieste del pm della Dda milanese - ha stabilito anche l'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Condannati anche il direttore dell'hotel «Brun», Vincenzo Moretti (2 anni con la sospensione condizionale della pena), e Domenico Gattuso, presunto fiancheggiatore della cosca, a 6 anni. Stando alle indagini del procuratore aggiunto Ilda Boccassini l'avvocato Vincenzo Minasi era uno dei rappresentanti della cosiddetta «zona grigia» della 'ndrangheta.
L'INDAGINE
Giusti - 45 anni, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria, dal 2010 gip a Palmi e poi sospeso dal Csm con l'arresto - sarebbe stato invece, stando alle indagini, a libro paga della 'ndrangheta. La mafia calabrese dei Lampada, secondo l'accusa, oltre ad offrirgli «affari», avrebbe appagato quella che nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Giuseppe Gennari era stata definita una vera e propria «ossessione per il sesso», facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi, con le spese di soggiorno e di viaggio comprese nel prezzo della corruzione. Il giudice venne arrestato lo scorso marzo per corruzione aggravata dalla finalità mafiosa in uno dei filoni dell'inchiesta sulla cosca dei Valle-Lampada.
Fonte: milano.corriere.it
MILANO - L'ex gip del tribunale di Palmi (Reggio Calabria) Giancarlo Giusti è stato condannato a 4 anni di reclusione con l'accusa di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa. Secondo l'accusa, il giudice, sospeso dal Csm dopo l'arresto nel marzo scorso, sarebbe stato corrotto dalla cosca dei Lampada con escort e soggiorni di lusso. La sentenza è stata emessa dal gup di Milano Alessandra Simion, che ha condannato altre tre persone, tra cui l'avvocato Vincenzo Minasi a 4 anni e 4 mesi.
LA SENTENZA
Per il magistrato Giusti, così come per l'avvocato Minasi, il giudice - che ha in sostanza accolto le richieste del pm della Dda milanese - ha stabilito anche l'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Condannati anche il direttore dell'hotel «Brun», Vincenzo Moretti (2 anni con la sospensione condizionale della pena), e Domenico Gattuso, presunto fiancheggiatore della cosca, a 6 anni. Stando alle indagini del procuratore aggiunto Ilda Boccassini l'avvocato Vincenzo Minasi era uno dei rappresentanti della cosiddetta «zona grigia» della 'ndrangheta.
L'INDAGINE
Giusti - 45 anni, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria, dal 2010 gip a Palmi e poi sospeso dal Csm con l'arresto - sarebbe stato invece, stando alle indagini, a libro paga della 'ndrangheta. La mafia calabrese dei Lampada, secondo l'accusa, oltre ad offrirgli «affari», avrebbe appagato quella che nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Giuseppe Gennari era stata definita una vera e propria «ossessione per il sesso», facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi, con le spese di soggiorno e di viaggio comprese nel prezzo della corruzione. Il giudice venne arrestato lo scorso marzo per corruzione aggravata dalla finalità mafiosa in uno dei filoni dell'inchiesta sulla cosca dei Valle-Lampada.
Fonte: milano.corriere.it
26 set 2012
Spaccio di cocaina, ai domiciliari il direttore delle Poste al Senato.
Il dirigente è coinvolto in un'operazione su un traffico internazionale di droga gestito da una banda italo-albanese
ROMA - Il direttore delle Poste di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, è stato arrestato (ai domiciliari) per spaccio di cocaina. Orlando Ranaldi, 53 anni, di Olevano Romano, è indagato nell'ambito di un'operazione su un vasto giro di spaccio di stupefacenti gestito da una banda italo-albanese a Valmontone, una cittadina a sud della Capitale. L'indagine coinvolge molti altri sospetti e ha condotto martedì 25 settembre a 10 misure cautelari: 6 in carcere e 4 ai domiciliari (compreso Ranaldi). Fra gli arrestati sei sono albanesi e quattro italiani.
RIFORNIMENTI DA OLTRE ADRIATICO
L'inchiesta è nata dalle indagini dei carabinieri della stazione di Valmontone che hanno scoperto un'alleanza italo-albanese per il rifornimento e lo spaccio di cocaina nel territorio della provincia a sud di Roma. All'alba di martedì, la notifica delle misure cautelari. Tra gli arrestati figurano anche un autista del Cotral (autobus di linea) e un vigile urbano, S.G., che si sarebbero prestati, anche con le loro auto di servizio, a smerciare droga per conto dell'organizzazione. Ancora in corso decine di perquisizioni nei confronti di altri soggetti legati alle attività illecite della banda.
SU TWITTER
Nobili valori, buoni sentimenti e anche quel tanto di indignazione per la malapolitica: il profilo twitter di Ranaldi restituisce l'immagine di un uomo, come si suol dire, tutto d'un pezzo. «Continua la fuoriuscita di volgarità e arroganza dalla politica che non viene scelta dai cittadini!», twittava qualche giorno fa il dirigente, dipendente delle Poste, al deputato Pd Mario Adinolfi. E ancora, Ranaldi si era lamentato con Riccardo Milana, parlamentare dell'Api: «I cervelli in Italia li abbiamo sempre avuti, diamo loro credibilità e sostegno!». In fondo, aveva spiegato, bisogna «cambiare davvero, con la testa e con il cuore! E senza il portafoglio. Basta gargarozzoni e musicanti!». Non era mancata una tirata contro il giustizialismo in politica. «Ma io dico: Di Pietro che ci azzecca con il Parlamento? È parte quando incassa, è giudice quando chiede!».
Fonte: corriere.it
ROMA - Il direttore delle Poste di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, è stato arrestato (ai domiciliari) per spaccio di cocaina. Orlando Ranaldi, 53 anni, di Olevano Romano, è indagato nell'ambito di un'operazione su un vasto giro di spaccio di stupefacenti gestito da una banda italo-albanese a Valmontone, una cittadina a sud della Capitale. L'indagine coinvolge molti altri sospetti e ha condotto martedì 25 settembre a 10 misure cautelari: 6 in carcere e 4 ai domiciliari (compreso Ranaldi). Fra gli arrestati sei sono albanesi e quattro italiani.
RIFORNIMENTI DA OLTRE ADRIATICO
L'inchiesta è nata dalle indagini dei carabinieri della stazione di Valmontone che hanno scoperto un'alleanza italo-albanese per il rifornimento e lo spaccio di cocaina nel territorio della provincia a sud di Roma. All'alba di martedì, la notifica delle misure cautelari. Tra gli arrestati figurano anche un autista del Cotral (autobus di linea) e un vigile urbano, S.G., che si sarebbero prestati, anche con le loro auto di servizio, a smerciare droga per conto dell'organizzazione. Ancora in corso decine di perquisizioni nei confronti di altri soggetti legati alle attività illecite della banda.
SU TWITTER
Nobili valori, buoni sentimenti e anche quel tanto di indignazione per la malapolitica: il profilo twitter di Ranaldi restituisce l'immagine di un uomo, come si suol dire, tutto d'un pezzo. «Continua la fuoriuscita di volgarità e arroganza dalla politica che non viene scelta dai cittadini!», twittava qualche giorno fa il dirigente, dipendente delle Poste, al deputato Pd Mario Adinolfi. E ancora, Ranaldi si era lamentato con Riccardo Milana, parlamentare dell'Api: «I cervelli in Italia li abbiamo sempre avuti, diamo loro credibilità e sostegno!». In fondo, aveva spiegato, bisogna «cambiare davvero, con la testa e con il cuore! E senza il portafoglio. Basta gargarozzoni e musicanti!». Non era mancata una tirata contro il giustizialismo in politica. «Ma io dico: Di Pietro che ci azzecca con il Parlamento? È parte quando incassa, è giudice quando chiede!».
Fonte: corriere.it
4 lug 2012
Arrestato Tony Marciano: il «re dei neomelodici» finanziava lo spaccio
La retata contro il clan Gionta di Torre Annunziata
Secondo le accuse nelle sue canzoni avrebbe lanciato anche avvertimenti ai pentiti: «Non vi arrendete»
Quanto ha visto arrivare i carabinieri e anche i giornalisti, Tony Marciano, cantante neomelodico arrestato nel corso di un'operazione dei carabinieri - 22 arresti tra affiliati del clan Gionta di Torre Annunziata per traffico di droga - ha esordito così: «Se faccio un concerto neanche vengono tutte queste telecamere». L'accusa, per Marciano, è di traffico di stupefacenti aggravato dal metodo mafioso e, secondo le indagini, sembra fosse tra i finanziatori e gli organizzatori del giro di spaccio.
IL RE DEI NEOMELODICI
Marciano debutta negli anni Ottanta, nel 1986 incise un lp chiamato «Io sono meridionale», brano hit che fece vendere 150mila copie. e lo lancia nell'Olimpo dei neomelodici. Nella sua carriera, un duetto con Maria Nazionale nel brano «Io e te», grande successo tra i vicoli di Napoli.
IL MESSAGGIO AI PENTITI
In una delle sue ultime canzoni «Nun ciamm arrennere» (Non ci dobbiamo arrendere, ndr), Tony Marciano se la prendeva con i pentiti. Quegli stessi pentiti anche grazie ai quali è scattato il suo arresto. Nel brano Tony Marciano sottolinea che i pentiti «hanno perso l'omertà» e che «hanno fatto cadere un impero». Ma, dicendo che è latitante da un anno, aggiunge anche: «Non mi faranno perdere la dignità».
LA RETATA
Ventidue persone ritenute affiliate al clan camorristico Gionta, raggiunte da Ordinanza di Custodia Cautelare in Carcere emessa su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia per spaccio e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti aggravati dal metodo mafioso e dal carattere transnazionale dell'attività illecita, sono state arrestate dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Torre Annunziata. Nel corso delle indagini è stato documentato che gli indagati erano dediti al traffico dall'Olanda di ingenti quantitativi di cocaina, hashish, marijuana e amnesia (un micidiale mix di marijuana e droghe pesanti con effetti deleteri sul sistema nervoso centrale).
Fonte: corriere.it
Secondo le accuse nelle sue canzoni avrebbe lanciato anche avvertimenti ai pentiti: «Non vi arrendete»
Quanto ha visto arrivare i carabinieri e anche i giornalisti, Tony Marciano, cantante neomelodico arrestato nel corso di un'operazione dei carabinieri - 22 arresti tra affiliati del clan Gionta di Torre Annunziata per traffico di droga - ha esordito così: «Se faccio un concerto neanche vengono tutte queste telecamere». L'accusa, per Marciano, è di traffico di stupefacenti aggravato dal metodo mafioso e, secondo le indagini, sembra fosse tra i finanziatori e gli organizzatori del giro di spaccio.
IL RE DEI NEOMELODICI
Marciano debutta negli anni Ottanta, nel 1986 incise un lp chiamato «Io sono meridionale», brano hit che fece vendere 150mila copie. e lo lancia nell'Olimpo dei neomelodici. Nella sua carriera, un duetto con Maria Nazionale nel brano «Io e te», grande successo tra i vicoli di Napoli.
IL MESSAGGIO AI PENTITI
In una delle sue ultime canzoni «Nun ciamm arrennere» (Non ci dobbiamo arrendere, ndr), Tony Marciano se la prendeva con i pentiti. Quegli stessi pentiti anche grazie ai quali è scattato il suo arresto. Nel brano Tony Marciano sottolinea che i pentiti «hanno perso l'omertà» e che «hanno fatto cadere un impero». Ma, dicendo che è latitante da un anno, aggiunge anche: «Non mi faranno perdere la dignità».
LA RETATA
Ventidue persone ritenute affiliate al clan camorristico Gionta, raggiunte da Ordinanza di Custodia Cautelare in Carcere emessa su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia per spaccio e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti aggravati dal metodo mafioso e dal carattere transnazionale dell'attività illecita, sono state arrestate dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Torre Annunziata. Nel corso delle indagini è stato documentato che gli indagati erano dediti al traffico dall'Olanda di ingenti quantitativi di cocaina, hashish, marijuana e amnesia (un micidiale mix di marijuana e droghe pesanti con effetti deleteri sul sistema nervoso centrale).
Fonte: corriere.it
3 lug 2012
Nazionale: Grillo, Travaglio e il tifo contro. Il comico, il giornalista, i «No tav» e Radio Padania «contro» gli azzurri
Abete: «Mi vergogno di chi non tifa Italia»
«Stringiamci a coorte?». Sì, ma non tutti. «Siam pronti alla morte?». Vabbè, con calma e senza spingere. Altro che «Fratelli d'Italia», domenica sera c'è chi ha tifato contro la Nazionale di Prandelli. Radio Padania ad esempio. Ma dalle onde verdi del Sole delle Alpi c'era d'aspettarselo, loro sono campioni del mondo dei popoli che devono ancora determinare la propria sovranità. Insomma dei potenziali avversari, un giorno... Ma a saltellare al coro «Spagna! Spagna! in valle di Susa domenica sera c'erano anche i «No Tav». Nelle stesse ore della goleada iberica hanno organizzato una specie di «contropartita» con clown, sbandieratori, cantanti e rapper davanti alle reti del cantiere a Chiomonte. E poi c'erano gli italiani indifferenti. Infatti a Siena, la partitella Spagna-Italia è stata considerata alla stregua di una amichevole di fronte alla «vigilia del Palio»: c'era la cosiddetta «prova generale». Ma a destare tante polemiche, sono state, ancora una volta, le prese di posizione di Marco Travaglio e Beppe Grillo.
GRILLO
Per quest'ultimo ecco le contraddizioni del calcio italiano: «L'Italia ha perso, l'Italia ha vinto. Chi ha perso? Gli italiani, come al solito, ma forse per loro questa sconfitta vale più di cento vittorie». Beppe Grillo scrive sul suo blog all'indomani della disfatta e fa un bilancio di chi domenica ha vinto: «Contro la Spagna lo spread è stato di 4 a 0 a favore degli iberici. Noi abbiamo fatto la parte del toro, o forse del bue. Chi ha vinto? Le banche spagnole, che hanno finanziato il calcio (senza di loro non esisterebbero né Barcellona, né Real Madrid attuali) e che oggi vengono salvate dalla Bce, e quindi anche dall'Italia, con 100 miliardi. Ha vinto il calcio più indebitato». «Ha vinto - prosegue Grillo - il presidente ucraino che ha avuto sul palco d'onore i primi ministri della Ue, Rigor Montis compreso, che si sono salvati l'anima mandando la letterina di Babbo Natale a Viktor Yanukovich, mentre la Timoshenko continua a marcire in carcere. Ha vinto la corruzione nel calcio italiano che, vittoria dopo vittoria della Nazionale, è scomparsa dal radar dell'informazione. Hanno vinto i giornalai e le Istituzioni che hanno usato il calcio per nascondere il nostro cratere morale e economico». «Hanno vinto - aggiunge - anche i calciatori e l'allenatore premiati con un invito dal Quirinale e la sconfitta più pesante della storia centenaria del calcio italiano in una finale o in una semifinale». Insomma, conclude, hanno perso solo «gli italiani, come al solito, ma forse per loro questa sconfitta vale più di cento vittorie».
TRAVAGLIO
«Eroi in mutande», ecco chi sono gli azzurri per il vicedirettore de Il Fatto, Marco Travaglio. Il problema è che ogni vittoria lava via i peccati come il detersivo che lava più bianco, ecco il rischio che si corre secondo Travaglio. A cominciare dallo scandalo del calcio-scommesse. Per questo motivo Travaglio aveva detto, prima, di tifare Germania e, poi, praticamente di non augurarsi una vittoria italiana in finale: «Io vorrei sapere, che si vinca o si perda, cos'è quel milione e mezzo di euro versato da capitan Buffon a un tabaccaio di Parma. Vorrei sapere quali e quanti calciatori coinvolti nell'inchiesta di Cremona per essersi venduti le partite in barba ai tifosi e alla lealtà sportiva, sono colpevoli o innocenti. Nessuna vittoria all'Europeo può cancellare lo scandalo», ha scritto Travaglio nel suo editoriale.
Abete: «Mi vergogno di chi tifa contro»
ABETE
A questo punto è intervenuto Giancarlo Abete, presidente della Federcalcio. All'indomani della sconfitta, Abete ha risposto al giornalista e a tutti coloro che avevano ipotizzato un'amnistia sullo scandalo scommesse: «Voglio tranquillizzare il dottor Narducci (ex pm ed ex assessore a Napoli che aveva parlato di «rischio di colpo di spugna») e il dottor Travaglio: nessuno mai ha pensato a indulti o colpi di spugna. Neanche se avessimo vinto noi 4-0. Chi ha commesso degli errori paga». E poi lancia un fendente: «Una sola cosa dico - conclude il presidente Figc - : io ho sempre tifato Italia, e mi vergogno di chi non tifa Italia». Insomma sempre la stessa storia: il salto da Mameli, «Uniti per Dio, chi vincer ci può?», a Gaber, «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono», è breve.
Fonte: corriere.it
«Stringiamci a coorte?». Sì, ma non tutti. «Siam pronti alla morte?». Vabbè, con calma e senza spingere. Altro che «Fratelli d'Italia», domenica sera c'è chi ha tifato contro la Nazionale di Prandelli. Radio Padania ad esempio. Ma dalle onde verdi del Sole delle Alpi c'era d'aspettarselo, loro sono campioni del mondo dei popoli che devono ancora determinare la propria sovranità. Insomma dei potenziali avversari, un giorno... Ma a saltellare al coro «Spagna! Spagna! in valle di Susa domenica sera c'erano anche i «No Tav». Nelle stesse ore della goleada iberica hanno organizzato una specie di «contropartita» con clown, sbandieratori, cantanti e rapper davanti alle reti del cantiere a Chiomonte. E poi c'erano gli italiani indifferenti. Infatti a Siena, la partitella Spagna-Italia è stata considerata alla stregua di una amichevole di fronte alla «vigilia del Palio»: c'era la cosiddetta «prova generale». Ma a destare tante polemiche, sono state, ancora una volta, le prese di posizione di Marco Travaglio e Beppe Grillo.
GRILLO
Per quest'ultimo ecco le contraddizioni del calcio italiano: «L'Italia ha perso, l'Italia ha vinto. Chi ha perso? Gli italiani, come al solito, ma forse per loro questa sconfitta vale più di cento vittorie». Beppe Grillo scrive sul suo blog all'indomani della disfatta e fa un bilancio di chi domenica ha vinto: «Contro la Spagna lo spread è stato di 4 a 0 a favore degli iberici. Noi abbiamo fatto la parte del toro, o forse del bue. Chi ha vinto? Le banche spagnole, che hanno finanziato il calcio (senza di loro non esisterebbero né Barcellona, né Real Madrid attuali) e che oggi vengono salvate dalla Bce, e quindi anche dall'Italia, con 100 miliardi. Ha vinto il calcio più indebitato». «Ha vinto - prosegue Grillo - il presidente ucraino che ha avuto sul palco d'onore i primi ministri della Ue, Rigor Montis compreso, che si sono salvati l'anima mandando la letterina di Babbo Natale a Viktor Yanukovich, mentre la Timoshenko continua a marcire in carcere. Ha vinto la corruzione nel calcio italiano che, vittoria dopo vittoria della Nazionale, è scomparsa dal radar dell'informazione. Hanno vinto i giornalai e le Istituzioni che hanno usato il calcio per nascondere il nostro cratere morale e economico». «Hanno vinto - aggiunge - anche i calciatori e l'allenatore premiati con un invito dal Quirinale e la sconfitta più pesante della storia centenaria del calcio italiano in una finale o in una semifinale». Insomma, conclude, hanno perso solo «gli italiani, come al solito, ma forse per loro questa sconfitta vale più di cento vittorie».
TRAVAGLIO
«Eroi in mutande», ecco chi sono gli azzurri per il vicedirettore de Il Fatto, Marco Travaglio. Il problema è che ogni vittoria lava via i peccati come il detersivo che lava più bianco, ecco il rischio che si corre secondo Travaglio. A cominciare dallo scandalo del calcio-scommesse. Per questo motivo Travaglio aveva detto, prima, di tifare Germania e, poi, praticamente di non augurarsi una vittoria italiana in finale: «Io vorrei sapere, che si vinca o si perda, cos'è quel milione e mezzo di euro versato da capitan Buffon a un tabaccaio di Parma. Vorrei sapere quali e quanti calciatori coinvolti nell'inchiesta di Cremona per essersi venduti le partite in barba ai tifosi e alla lealtà sportiva, sono colpevoli o innocenti. Nessuna vittoria all'Europeo può cancellare lo scandalo», ha scritto Travaglio nel suo editoriale.
Abete: «Mi vergogno di chi tifa contro»
ABETE
A questo punto è intervenuto Giancarlo Abete, presidente della Federcalcio. All'indomani della sconfitta, Abete ha risposto al giornalista e a tutti coloro che avevano ipotizzato un'amnistia sullo scandalo scommesse: «Voglio tranquillizzare il dottor Narducci (ex pm ed ex assessore a Napoli che aveva parlato di «rischio di colpo di spugna») e il dottor Travaglio: nessuno mai ha pensato a indulti o colpi di spugna. Neanche se avessimo vinto noi 4-0. Chi ha commesso degli errori paga». E poi lancia un fendente: «Una sola cosa dico - conclude il presidente Figc - : io ho sempre tifato Italia, e mi vergogno di chi non tifa Italia». Insomma sempre la stessa storia: il salto da Mameli, «Uniti per Dio, chi vincer ci può?», a Gaber, «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono», è breve.
Fonte: corriere.it
15 giu 2012
Ha sterminato un'intera famiglia. Non farà un solo giorno di carcere
Trapani, chiuso il processo per la morte della famiglia quinci
Due anni, pena sospesa, all'uomo che in auto travolse madre e due figli, per il dolore 6 mesi dopo si suicidò il capofamiglia
Ha sulla coscienza la vita di quattro persone, ma se l'è cavata con una pena di appena due anni e senza fare un solo giorno di carcere. Si chiude nel peggiore dei modi la triste storia della famiglia Quinci, interamente distrutta per colpa di un giovane che il 15 gennaio dello scorso anno sfrecciava con la sua Bmw per le stradine di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, a 120 chilometri all'ora. Nell’impatto con una Fiat 600, sulla quale viaggiava la famiglia Quinci che stava rientrando a casa, morirono i piccoli Martina e Vito, di 12 e 10 anni e la madre Lidia Mangiaracina di 37 anni. L’unico a sopravvivere all’incidente fu il capofamiglia, Baldassare Quinci, 43 anni, maresciallo dell' aeronautica che ebbe appena il tempo di guarire dalle ferite riportate in quel terribile scontro. Al dolore si aggiunse la rabbia quando venne persino accusato di concorso di colpa. E così sei mesi dopo la tragedia decise di farla finita impiccandosi ad una trave.
PATTEGGIAMENTO
Probabilmente si è risparmiato l'ulteriore strazio di assistere alla lettura della sentenza contro Fabio Gulotta, 22 anni, responsabile di quell'incidente in cui è stata sterminata la sua famiglia. Il giudice delle udienze preliminari di Marsala, Vito Marcello Saladino, lo ha infatti condannato a due anni di carcere, con sospensione della pena. Dunque non ha fatto e non farà un solo giorno di carcere. A Gulotta veniva contestato il reato di omicidio colposo plurimo e in teorie rischiava fino a 8/10 anni di carcere. A meno di riti alternativi o patteggiamenti che potessero drasticamente ridurre la pena. Come è avvenuto in questo caso col patteggiamento a 2 anni che è anche il limite oltre il quale si rischia di finire in carcere.
LO STATO TUTELA CHI UCCIDE
«Giustizia è fatta» commenta con amarezza Nicola Mangiaracina, fratello di Lidia, che è anche uno dei pochi familiari che hanno seguito il processo. «Questa vicenda dimostra come lo Stato italiano tutela chi uccide le persone -dichiara a Corriere.it - Chiunque può commettere impunemente simili reati, può sterminare una famiglia senza che gli succeda nulla». Nel processo i legali di Gulotta hanno sostenuto che non era ubriaco al momento dell'incidente. «Ma questa è un'aggravante -si infiamma Mangiaracina- vuol dire che lucidamente andava a quella velocità per le stradine di un centro abitato». Sconfortato anche il legale che in questi mesi ha difeso i congiunti della famiglia Quinci. «Tutto ciò è semplicemente scandaloso -afferma l'avvocato Claudio Congedo- purtroppo la giustizia ha perso l'ennesima occasione per dimostrare che esiste». E poi rivela l'ultimo, sconcertante, dettaglio: «Al momento il responsabile di questa tragedia non è stato nemmeno condannato alla pena accessoria del ritiro della patente».
Fonte: corriere.it
Due anni, pena sospesa, all'uomo che in auto travolse madre e due figli, per il dolore 6 mesi dopo si suicidò il capofamiglia
Ha sulla coscienza la vita di quattro persone, ma se l'è cavata con una pena di appena due anni e senza fare un solo giorno di carcere. Si chiude nel peggiore dei modi la triste storia della famiglia Quinci, interamente distrutta per colpa di un giovane che il 15 gennaio dello scorso anno sfrecciava con la sua Bmw per le stradine di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, a 120 chilometri all'ora. Nell’impatto con una Fiat 600, sulla quale viaggiava la famiglia Quinci che stava rientrando a casa, morirono i piccoli Martina e Vito, di 12 e 10 anni e la madre Lidia Mangiaracina di 37 anni. L’unico a sopravvivere all’incidente fu il capofamiglia, Baldassare Quinci, 43 anni, maresciallo dell' aeronautica che ebbe appena il tempo di guarire dalle ferite riportate in quel terribile scontro. Al dolore si aggiunse la rabbia quando venne persino accusato di concorso di colpa. E così sei mesi dopo la tragedia decise di farla finita impiccandosi ad una trave.
PATTEGGIAMENTO
Probabilmente si è risparmiato l'ulteriore strazio di assistere alla lettura della sentenza contro Fabio Gulotta, 22 anni, responsabile di quell'incidente in cui è stata sterminata la sua famiglia. Il giudice delle udienze preliminari di Marsala, Vito Marcello Saladino, lo ha infatti condannato a due anni di carcere, con sospensione della pena. Dunque non ha fatto e non farà un solo giorno di carcere. A Gulotta veniva contestato il reato di omicidio colposo plurimo e in teorie rischiava fino a 8/10 anni di carcere. A meno di riti alternativi o patteggiamenti che potessero drasticamente ridurre la pena. Come è avvenuto in questo caso col patteggiamento a 2 anni che è anche il limite oltre il quale si rischia di finire in carcere.
LO STATO TUTELA CHI UCCIDE
«Giustizia è fatta» commenta con amarezza Nicola Mangiaracina, fratello di Lidia, che è anche uno dei pochi familiari che hanno seguito il processo. «Questa vicenda dimostra come lo Stato italiano tutela chi uccide le persone -dichiara a Corriere.it - Chiunque può commettere impunemente simili reati, può sterminare una famiglia senza che gli succeda nulla». Nel processo i legali di Gulotta hanno sostenuto che non era ubriaco al momento dell'incidente. «Ma questa è un'aggravante -si infiamma Mangiaracina- vuol dire che lucidamente andava a quella velocità per le stradine di un centro abitato». Sconfortato anche il legale che in questi mesi ha difeso i congiunti della famiglia Quinci. «Tutto ciò è semplicemente scandaloso -afferma l'avvocato Claudio Congedo- purtroppo la giustizia ha perso l'ennesima occasione per dimostrare che esiste». E poi rivela l'ultimo, sconcertante, dettaglio: «Al momento il responsabile di questa tragedia non è stato nemmeno condannato alla pena accessoria del ritiro della patente».
Fonte: corriere.it
4 giu 2012
Canada, resti umani inviati per posta. Attore di film porno ricercato in tutto il mondo
Luka Magnotta, 29 anni, ha registrato tutti i momenti dell'omicidio. Ora potrebbe trovarsi in Francia
WASHINGTON
Luka Rocco Magnotta è un most wanted. Lo cercano in tutto il Canada e anche all'estero con l'aiuto dell'Interpol. Non escludono infatti che si trovi in Francia. La polizia spera di fermarlo prima che colpisca di nuovo: ha lasciato un messaggio dove annuncia altri omicidi brutali. Magnotta, di professione attore porno, è il mostro. Ha attirato la sua vittima - un uomo di origine asiatica - nel proprio appartamento di Montreal. E lo ha torturato fino ad ucciderlo. Quindi ne ha fatto scempio, con indicibili nefandezze.
I RESTI
Scene da film horror, nel vero senso del termine. Perché Magnotta ha ripreso tutto con una videocamera e il 25 maggio ha postato le sequenze su un sito canadese. Quella era solo la prima fase. Perché dopo l’omicidio ha spedito un piede mozzato alla sede del partito conservatore (ora al governo) a Ottawa e una mano agli uffici dei liberali. Reperti che potrebbero essere seguiti da altri plichi-sorpresa. Infine, ha abbandonato il tronco della sua vittima in strada. Chiuso in una valigia buttata tra i sacchi della spazzatura, a pochi metri dalla sua abitazione. Ed è stata proprio quest’ultima traccia, insieme alla segnalazione dell’odore terribile proveniente dal suo appartamento, che ha permesso agli investigatori di ricostruire il delitto atroce. Con l'individuazione del presunto colpevole ma non del movente.
IL KILLER
Ma chi è Luka Rocco Magnotta? E’ la scia digitale che ha lasciato nel suo passato a raccontare molto. Il suo vero nome è Eric Newman. Nato 29 anni fa in Ontario, usa l’alias italiano perché «affascinato da Cosa Nostra». Per campare fa il modello, gira filmini porno e forse si vende. Attività che documenta via Internet, con pagine Facebook dai nomi diversi e brevi video (in alcuni sevizierebbe dei gattini). Ma c'e' anche una «finestra» interessante: la guida pratica su come sparire senza lasciare traccia. Luka indica un percorso di quattro mesi per non farsi beccare e nascondersi in un posto esotico. Aggiunge che serve seminare false piste, così come usare tante identità. Per questo Magnotta si presenta in giro anche come Vladimir Romanov. Un profilo sovrapposto a molti altri. Vive a Los Angeles, Miami e forse anche a Mosca. Dice di aver un figlio, se la tira e cerca di truccarsi per somigliare a James Dean, il suo idolo. Un imbroglione - ha precedenti per truffa - che pensa in grande e cela una crudeltà inaudita.
IL MATRIMONIO
Luka vanta cose che poi smentisce. O lascia girare voci sul suo conto. Come il presunto matrimonio, nel 2007, con Karla Homolka. Una donna diabolica. Insieme al marito ha partecipato all’assassinio di tre ragazze, compresa sua sorella Tammy. Delitto per la quale ha scontato solo 12 anni grazie al famigerato patto del Diavolo. Lei ha testimoniato contro il marito, Paul Bernardo, e in cambio le hanno ridotto la pena. E quando esce di galera si trasferisce alle Antille dove avrebbe incontrato Magnotta. Lui, pero', rilascia un’intervista per smentire le nozze. Magari, per una volta diceva la verità. Anche se non ci sarebbe stato nulla di strano in quell’unione. Karla era l’anima gemella perfetta per uno come Luka.
Fonte: corriere.it
WASHINGTON
Luka Rocco Magnotta è un most wanted. Lo cercano in tutto il Canada e anche all'estero con l'aiuto dell'Interpol. Non escludono infatti che si trovi in Francia. La polizia spera di fermarlo prima che colpisca di nuovo: ha lasciato un messaggio dove annuncia altri omicidi brutali. Magnotta, di professione attore porno, è il mostro. Ha attirato la sua vittima - un uomo di origine asiatica - nel proprio appartamento di Montreal. E lo ha torturato fino ad ucciderlo. Quindi ne ha fatto scempio, con indicibili nefandezze.
I RESTI
Scene da film horror, nel vero senso del termine. Perché Magnotta ha ripreso tutto con una videocamera e il 25 maggio ha postato le sequenze su un sito canadese. Quella era solo la prima fase. Perché dopo l’omicidio ha spedito un piede mozzato alla sede del partito conservatore (ora al governo) a Ottawa e una mano agli uffici dei liberali. Reperti che potrebbero essere seguiti da altri plichi-sorpresa. Infine, ha abbandonato il tronco della sua vittima in strada. Chiuso in una valigia buttata tra i sacchi della spazzatura, a pochi metri dalla sua abitazione. Ed è stata proprio quest’ultima traccia, insieme alla segnalazione dell’odore terribile proveniente dal suo appartamento, che ha permesso agli investigatori di ricostruire il delitto atroce. Con l'individuazione del presunto colpevole ma non del movente.
IL KILLER
Ma chi è Luka Rocco Magnotta? E’ la scia digitale che ha lasciato nel suo passato a raccontare molto. Il suo vero nome è Eric Newman. Nato 29 anni fa in Ontario, usa l’alias italiano perché «affascinato da Cosa Nostra». Per campare fa il modello, gira filmini porno e forse si vende. Attività che documenta via Internet, con pagine Facebook dai nomi diversi e brevi video (in alcuni sevizierebbe dei gattini). Ma c'e' anche una «finestra» interessante: la guida pratica su come sparire senza lasciare traccia. Luka indica un percorso di quattro mesi per non farsi beccare e nascondersi in un posto esotico. Aggiunge che serve seminare false piste, così come usare tante identità. Per questo Magnotta si presenta in giro anche come Vladimir Romanov. Un profilo sovrapposto a molti altri. Vive a Los Angeles, Miami e forse anche a Mosca. Dice di aver un figlio, se la tira e cerca di truccarsi per somigliare a James Dean, il suo idolo. Un imbroglione - ha precedenti per truffa - che pensa in grande e cela una crudeltà inaudita.
IL MATRIMONIO
Luka vanta cose che poi smentisce. O lascia girare voci sul suo conto. Come il presunto matrimonio, nel 2007, con Karla Homolka. Una donna diabolica. Insieme al marito ha partecipato all’assassinio di tre ragazze, compresa sua sorella Tammy. Delitto per la quale ha scontato solo 12 anni grazie al famigerato patto del Diavolo. Lei ha testimoniato contro il marito, Paul Bernardo, e in cambio le hanno ridotto la pena. E quando esce di galera si trasferisce alle Antille dove avrebbe incontrato Magnotta. Lui, pero', rilascia un’intervista per smentire le nozze. Magari, per una volta diceva la verità. Anche se non ci sarebbe stato nulla di strano in quell’unione. Karla era l’anima gemella perfetta per uno come Luka.
Fonte: corriere.it
10 mag 2012
Messico choc, vendetta narcos: in nove impiccati al ponte
Picco di sangue tra i Los Zetas e il cartello rivale del golfo Appesi a Nuevo Laredo: uomini e donne. Poi la vendetta: cadaveri a pezzi in sacchi neri
Marcano il territorio con i corpi smembrati. Con le persone lasciate penzolare da un ponte. Con i giornalisti imbavagliati per sempre con una raffica di mitra. Nelle ultime ore - non molto diverse da quelle che le hanno precedute - la narco-guerra messicana ha raggiunto uno dei suoi picchi di sangue. È inutile cercare di fare il bilancio definitivo, perché c’è sempre un morto ammazzato da aggiungere.
APPESI A UN PONTE
Solo a Nuevo Laredo, città al confine con il Texas, almeno 23 vittime, trucidate in modo orrendo. Poi quattro reporter freddati nello stato di Veracruz. E decine i «caduti» nella battaglia che dal 28 aprile infuria attorno a Choix, Sinaloa.
Riprendiamo il filo (di sangue) da Nuevo Laredo. Sono le 1.30 della notte tra giovedì e venerdì. La polizia è avvisata che ci sono 9 impiccati appesi ad un ponte. Cinque uomini e quattro donne. Li hanno picchiati in modo selvaggio, poi li hanno messi lì. Come segno di ammonimento. C’è la «firma».
Su un lenzuolo i Los Zetas hanno scritto il loro comunicato dove accusano le vittime di appartenere al cartello rivale del Golfo. Una volta trescavano insieme, oggi sono nemici agguerriti. Con i primi ci sono quelli di Juarez e i «gatilleros» (killer) dei Beltran Leyva. Il Golfo, invece, ha il sostegno dei killer di Sinaloa, il cartello del boss dei boss, El Chapo Guzman. La polizia non fa a tempo a rimuovere i cadaveri che c’è un’altra chiamata. Alle 8.57, nei pressi degli uffici doganali lasciano dei sacchi neri e delle ghiacciaie. Gli agenti sanno già cosa li aspetta: nei sacchi corpi fatti a pezzi di 14 persone. Nelle ghiacciaie le teste. Non si esclude che la seconda strage sia una vendetta per gli impiccati
RIVALITÀ PIÙ FORTI
I due episodi segnano soltanto uno dei punti di scontro.
È l’intero narco-fronte ad essere in movimento. Le rivalità tradizionali si sono fatte ancora più forti per il tentativo di Sinaloa di «mettere a posto» i Los Zetas che ribattono colpo su colpo. Se tu entri nel mio territorio, io ti colpisco nel tuo. E cerco di formare alleanze tattiche con le gang giovanili o bande locali. Servono molte bocche da fuoco. Non sono scaramucce ma sparatorie che metterebbero in fuga anche i talebani. Di sicuro i narcos sono meglio armati dei guerriglieri. Nelle montagne attorno a Choix, ad esempio, non hanno esitato ad attaccare l’esercito con i Kalashnikov, i temuti fucili Barret in grado di bucare le blindature dei mezzi, i lanciagranate. I soldati, però, erano pronti e si sono inseriti nel «duello» tra Zetas e Sinaloa usando anche gli elicotteri. I gangster sono morti a decine: le cifre al ribasso parlano di 28 morti ma secondo altre fonti sono più di 50. Tutto provvisorio. Perché anche se dovessero calmarsi a Choix «scalderanno la piazza» da qualche altre parte.
Fonte: corriere.it
Marcano il territorio con i corpi smembrati. Con le persone lasciate penzolare da un ponte. Con i giornalisti imbavagliati per sempre con una raffica di mitra. Nelle ultime ore - non molto diverse da quelle che le hanno precedute - la narco-guerra messicana ha raggiunto uno dei suoi picchi di sangue. È inutile cercare di fare il bilancio definitivo, perché c’è sempre un morto ammazzato da aggiungere.
APPESI A UN PONTE
Solo a Nuevo Laredo, città al confine con il Texas, almeno 23 vittime, trucidate in modo orrendo. Poi quattro reporter freddati nello stato di Veracruz. E decine i «caduti» nella battaglia che dal 28 aprile infuria attorno a Choix, Sinaloa.
Riprendiamo il filo (di sangue) da Nuevo Laredo. Sono le 1.30 della notte tra giovedì e venerdì. La polizia è avvisata che ci sono 9 impiccati appesi ad un ponte. Cinque uomini e quattro donne. Li hanno picchiati in modo selvaggio, poi li hanno messi lì. Come segno di ammonimento. C’è la «firma».
Su un lenzuolo i Los Zetas hanno scritto il loro comunicato dove accusano le vittime di appartenere al cartello rivale del Golfo. Una volta trescavano insieme, oggi sono nemici agguerriti. Con i primi ci sono quelli di Juarez e i «gatilleros» (killer) dei Beltran Leyva. Il Golfo, invece, ha il sostegno dei killer di Sinaloa, il cartello del boss dei boss, El Chapo Guzman. La polizia non fa a tempo a rimuovere i cadaveri che c’è un’altra chiamata. Alle 8.57, nei pressi degli uffici doganali lasciano dei sacchi neri e delle ghiacciaie. Gli agenti sanno già cosa li aspetta: nei sacchi corpi fatti a pezzi di 14 persone. Nelle ghiacciaie le teste. Non si esclude che la seconda strage sia una vendetta per gli impiccati
RIVALITÀ PIÙ FORTI
I due episodi segnano soltanto uno dei punti di scontro.
È l’intero narco-fronte ad essere in movimento. Le rivalità tradizionali si sono fatte ancora più forti per il tentativo di Sinaloa di «mettere a posto» i Los Zetas che ribattono colpo su colpo. Se tu entri nel mio territorio, io ti colpisco nel tuo. E cerco di formare alleanze tattiche con le gang giovanili o bande locali. Servono molte bocche da fuoco. Non sono scaramucce ma sparatorie che metterebbero in fuga anche i talebani. Di sicuro i narcos sono meglio armati dei guerriglieri. Nelle montagne attorno a Choix, ad esempio, non hanno esitato ad attaccare l’esercito con i Kalashnikov, i temuti fucili Barret in grado di bucare le blindature dei mezzi, i lanciagranate. I soldati, però, erano pronti e si sono inseriti nel «duello» tra Zetas e Sinaloa usando anche gli elicotteri. I gangster sono morti a decine: le cifre al ribasso parlano di 28 morti ma secondo altre fonti sono più di 50. Tutto provvisorio. Perché anche se dovessero calmarsi a Choix «scalderanno la piazza» da qualche altre parte.
Fonte: corriere.it
18 nov 2011
Violenta per dieci anni una bambina. Solo al processo scopre che è sua figlia
Dopo un esame del Dna, l'uomo ha capito di essere
il padre della vittima, abusata già dall'età di 4 anni
MESSINA - Per oltre un decennio ha abusato sessualmente di una bambina ritenuta soltanto figlia della sua amante. È stato denunciato e durante il processo ha scoperto, dopo un esame del Dna, di essere il padre della vittima dei soprusi. L'imputato è un uomo di 67 anni di Messina che è stato condannato dal gup a sei anni di reclusione per pedofilia. Era stato arrestato, come riporta la Gazzetta del Sud, ad aprile scorso dopo la denuncia della ragazza violentata da quando aveva 4 anni. Agli atti del processo vi sono le registrazioni degli incontri sessuali con l'indagato registrati con il telefono cellulare. L'uomo e la madre della bambina si incontravano in vari motel. E spesso la donna faceva assistere la figlia agli incontri con il suo amante.
Fonte: corriere.it
19 apr 2011
Permesso a Jucker 9 anni dopo il delitto. Nel 2002 accoltellò la fidanzata.
Grazie agli «sconti» sarà libero tra 2 anni
Sì dal Tribunale di Sorveglianza: 10 ore fuori con un volontario
MILANO - Meno di 9 anni dopo il giorno in cui al grido di «sono Bin Laden» assassinò con 22 colpi di coltello da sushi la 26enne fidanzata Alenya Bortolotto gettandone un pezzo di fegato in giardino, e a 2 anni dallo scadere dell'espiazione dei teorici 16 anni inflittigli come seminfermo di mente, il 44enne imprenditore della ristorazione Ruggero Jucker ottiene il primo permesso premio: l'ha deciso ieri il Tribunale di Sorveglianza di Milano che, riformando in composizione collegiale l'iniziale diniego opposto dal magistrato di prima istanza, ha concesso al detenuto la possibilità di uscire dal carcere di Bollate e di trascorrere in libertà 10 ore, ma accompagnato da un volontario e facendo tappa da un medico.
In primo grado il 24 ottobre 2003 Jucker aveva evitato l'ergastolo solo grazie al beneficio del rito abbreviato, e incassato 30 anni per «omicidio aggravato» perché il gup Guido Salvini aveva ritenuto l'aggravante (la crudeltà di quel 20 luglio 2002) prevalente sulle due attenuanti del parziale vizio di mente e del risarcimento del danno alla famiglia della vittima (1 milione e 300.000 euro). In secondo grado, però, la difesa giocò la carta procedurale del «patteggiamento in appello», un accordo tra l'imputato (che rinuncia al ricorso) e la Procura generale (che accetta un punto d'incontro sulla pena), istituto consentito dalla legge all'epoca e ora invece abolito: con questo ultimo «treno», il 18 gennaio 2005 Jucker scese in secondo grado da 30 a 16 anni, in quanto l'accordo tra accusa e difesa sull'equivalenza tra l'aggravante e le attenuanti derubricò l'imputazione in omicidio non aggravato, la cui pena massima di 24 anni fu ridotta a 16 dallo sconto di un terzo per il rito abbreviato. Da questa pena, divenuta definitiva il 5 marzo 2005, Jucker come tutti gli altri condannati ha poi potuto detrarre lo sconto di 3 anni determinato dall'indulto approvato dal Parlamento per i reati commessi sino al 2 maggio 2006: 16 meno 3, uguale 13 anni.
Una volta in carcere a espiare la pena, ciascun detenuto se si comporta bene ha diritto ogni tre mesi allo scomputo di 45 giorni di «liberazione anticipata»: nel caso di Jucker, dunque, i quasi 9 anni di carcere che ha sinora scontato gli hanno fruttato quasi 2 anni (720 giorni) di «liberazione anticipata», portando la pena in concreto a 11 anni dai 16 di partenza, e il fine-pena a giugno 2013, al quale seguiranno tre anni di misura di sicurezza. Già da parecchio tempo, dunque, Jucker aveva maturato il limite (metà pena scontata) per poter chiedere al magistrato di sorveglianza il primo permesso. Ma la giudice Beatrice Crosti gliel'aveva rifiutato con decisione che, come di rado accade, si era discostata dal parere positivo di due periti (le criminologhe e psichiatre forensi Isabella Merzagora Betsos e Cristina Colombo) sulla prognosi di non pericolosità sociale di Jucker. Ieri, invece, dopo una lunga riflessione e ben tre rinvii, il collegio formato dalla presidente Maria Laura Fadda, dal magistrato di sorveglianza Roberta Cossia, e dagli esperti Laura Cesaris e Gianfranca Moiraghi, hanno firmato il primo via libera.
Non era in discussione che Jucker, affetto non da schizofrenia ma da disturbo bipolare dell'umore che può innescare anche un solo episodio maniacale, in questi anni di carcere sia stato un detenuto-modello; o che, anche dopo aver smesso di prendere psicofarmaci, non abbia più avuto ricadute nello scompenso mentale acuto, di tipo psicotico delirante, esploso nel 2002. Il nodo, invece, era la prognosi sull'attuale capacità di Jucker, qualora fosse vittima di un'altra crisi come quella di 9 anni fa, di accorgersene in tempo e farsi aiutare prima di perdere il contatto con la realtà. La giudice di prima istanza non si era sentita di contarci. Invece nella valutazione del collegio che ieri gli ha dato il primo permesso premio, una sufficiente tranquillità risiede proprio nella consapevolezza in Jucker, e nei suoi familiari e psicoterapeuti, della patologia di cui egli soffre e dei comportamenti che più potrebbero ridestarla, quali l'uso della marijuana e il poco sonno. Tuttavia i giudici stessi non sottovalutano l'opportunità di tenere sotto particolare controllo la prima uscita del detenuto: perciò la limitano dalle ore 9 alle 19, badano a che stia lontano dalla zona dove vive la famiglia di Alenya, ordinano che Jucker sia accompagnato dal volontario di un'associazione, e prescrivono che nelle 10 ore vada anche dal medico per un incontro di controllo.
Fonte: corriere.it
Sì dal Tribunale di Sorveglianza: 10 ore fuori con un volontario
MILANO - Meno di 9 anni dopo il giorno in cui al grido di «sono Bin Laden» assassinò con 22 colpi di coltello da sushi la 26enne fidanzata Alenya Bortolotto gettandone un pezzo di fegato in giardino, e a 2 anni dallo scadere dell'espiazione dei teorici 16 anni inflittigli come seminfermo di mente, il 44enne imprenditore della ristorazione Ruggero Jucker ottiene il primo permesso premio: l'ha deciso ieri il Tribunale di Sorveglianza di Milano che, riformando in composizione collegiale l'iniziale diniego opposto dal magistrato di prima istanza, ha concesso al detenuto la possibilità di uscire dal carcere di Bollate e di trascorrere in libertà 10 ore, ma accompagnato da un volontario e facendo tappa da un medico.
In primo grado il 24 ottobre 2003 Jucker aveva evitato l'ergastolo solo grazie al beneficio del rito abbreviato, e incassato 30 anni per «omicidio aggravato» perché il gup Guido Salvini aveva ritenuto l'aggravante (la crudeltà di quel 20 luglio 2002) prevalente sulle due attenuanti del parziale vizio di mente e del risarcimento del danno alla famiglia della vittima (1 milione e 300.000 euro). In secondo grado, però, la difesa giocò la carta procedurale del «patteggiamento in appello», un accordo tra l'imputato (che rinuncia al ricorso) e la Procura generale (che accetta un punto d'incontro sulla pena), istituto consentito dalla legge all'epoca e ora invece abolito: con questo ultimo «treno», il 18 gennaio 2005 Jucker scese in secondo grado da 30 a 16 anni, in quanto l'accordo tra accusa e difesa sull'equivalenza tra l'aggravante e le attenuanti derubricò l'imputazione in omicidio non aggravato, la cui pena massima di 24 anni fu ridotta a 16 dallo sconto di un terzo per il rito abbreviato. Da questa pena, divenuta definitiva il 5 marzo 2005, Jucker come tutti gli altri condannati ha poi potuto detrarre lo sconto di 3 anni determinato dall'indulto approvato dal Parlamento per i reati commessi sino al 2 maggio 2006: 16 meno 3, uguale 13 anni.
Una volta in carcere a espiare la pena, ciascun detenuto se si comporta bene ha diritto ogni tre mesi allo scomputo di 45 giorni di «liberazione anticipata»: nel caso di Jucker, dunque, i quasi 9 anni di carcere che ha sinora scontato gli hanno fruttato quasi 2 anni (720 giorni) di «liberazione anticipata», portando la pena in concreto a 11 anni dai 16 di partenza, e il fine-pena a giugno 2013, al quale seguiranno tre anni di misura di sicurezza. Già da parecchio tempo, dunque, Jucker aveva maturato il limite (metà pena scontata) per poter chiedere al magistrato di sorveglianza il primo permesso. Ma la giudice Beatrice Crosti gliel'aveva rifiutato con decisione che, come di rado accade, si era discostata dal parere positivo di due periti (le criminologhe e psichiatre forensi Isabella Merzagora Betsos e Cristina Colombo) sulla prognosi di non pericolosità sociale di Jucker. Ieri, invece, dopo una lunga riflessione e ben tre rinvii, il collegio formato dalla presidente Maria Laura Fadda, dal magistrato di sorveglianza Roberta Cossia, e dagli esperti Laura Cesaris e Gianfranca Moiraghi, hanno firmato il primo via libera.
Non era in discussione che Jucker, affetto non da schizofrenia ma da disturbo bipolare dell'umore che può innescare anche un solo episodio maniacale, in questi anni di carcere sia stato un detenuto-modello; o che, anche dopo aver smesso di prendere psicofarmaci, non abbia più avuto ricadute nello scompenso mentale acuto, di tipo psicotico delirante, esploso nel 2002. Il nodo, invece, era la prognosi sull'attuale capacità di Jucker, qualora fosse vittima di un'altra crisi come quella di 9 anni fa, di accorgersene in tempo e farsi aiutare prima di perdere il contatto con la realtà. La giudice di prima istanza non si era sentita di contarci. Invece nella valutazione del collegio che ieri gli ha dato il primo permesso premio, una sufficiente tranquillità risiede proprio nella consapevolezza in Jucker, e nei suoi familiari e psicoterapeuti, della patologia di cui egli soffre e dei comportamenti che più potrebbero ridestarla, quali l'uso della marijuana e il poco sonno. Tuttavia i giudici stessi non sottovalutano l'opportunità di tenere sotto particolare controllo la prima uscita del detenuto: perciò la limitano dalle ore 9 alle 19, badano a che stia lontano dalla zona dove vive la famiglia di Alenya, ordinano che Jucker sia accompagnato dal volontario di un'associazione, e prescrivono che nelle 10 ore vada anche dal medico per un incontro di controllo.
Fonte: corriere.it
30 mar 2011
Le cosche calabresi sugli ambulanti
L'affitto dei negozi che si trovano nelle stazioni della metropolitana di Milano è un pallino fisso della cosca Flachi, calabrese di origine ma ormai milanese.
Il 18 settembre 2009 gli investigatori intercettano una telefonata in cui un tale Max sta tornando dall'Atm dove «è andato a parlare con la persona da lui conosciuta che si occupa dell'affidamento in gestione delle strutture commerciali, presenti all'interno delle stazioni della metropolitana milanese e chiede un incontro con Flachi» ma Davide, figlio di don Pepè Flachi, risponde che per lui non è possibile ma gli manderà qualcuno di fiducia. Il giorno successivo un'altra telefonata con Flachi chiarirà «che non ci sono problemi e che quando andrà a parlare con la persona che si occupa della cosa, questa non gli dirà di no».
Il "controllo del territorio" è espressione che spaventa. A Scampia o a Isola di Capo Rizzuto è concepibile perché richiama alla memoria gli ordini dei boss di mafia che non si possono discutere e che condizionano la vita economica ma ancor prima quella sociale.
A Milano e in Lombardia no, anche se, proprio ieri, il procuratore generale facente funzioni della Corte dei conti lombarda, Paolo Evangelista, in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario ha messo in guardia sugli appetiti delle mafie in vista di Expo 2015.
La frase non è concepibile perché il tessuto, seppur debilitato dalle infiltrazioni della 'ndrangheta che ha messo all'angolo Cosa nostra e Casalesi e che ha inquinato con capitali sporchi l'economia e la società, è ancora sano. Eppure quella telefonata – agli atti della Direzione distrettuale antimafia di Milano e che svela parte degli affari della famiglia Flachi che, oltre a puntare ai subappalti dei lavori della metro, già che era sottoterra voleva piantarci tende e negozi – sembra dimostrare il contrario. Così come l'altro dialogo. Quello sul pizzo per gli ambulanti.
L'"affare dei paninari", lo chiama senza mezzi termini il Gip di Milano Giuseppe Gennari, che la scorsa settimana ha firmato l'ordinanza Redux Caposaldo che ha mandato all'aria il sodalizio criminale della famiglia Flachi. Un business nel quale Milano è spartita per quartieri. «Noi abbiamo la zona di Corso Como, quindi discoteche e serali... abbiamo circa sette, otto camion, abbiamo tutta Città Studi, zona Piazzale Lagosta fino a via Carlo Farini», spiega un portaordine a un ambulante che non aveva capito l'antifona. I chioschi che vendono birre e panini pagano il pizzo o si spostano. Ma se cambiano zona, cambiano anche esattore.
Con la movida le mafie entrano nella vita dei cittadini. La stessa cosa accade a Varese o nelle località intorno ai laghi dove gli investimenti immobiliari sporchi continuano. Se il panino non è mafia-free non lo sono dunque neanche disco e pub. In quello che la Dda di Milano chiama «slancio confessorio», un uomo di una cosca calabrese dirà agli agenti sotto copertura che sono riusciti ad avvicinarlo: «Io ho un'agenzia di servizi di sicurezza e anche là è tutta una mafia... ve lo dico... noi abbiamo i nostri locali e curiamo i nostri locali... mettiamo i nostri uomini a lavorare perché devono lavorare... i locali stanno tranquilli perché ci siamo noi dietro... hai capito? Come per i locali così per i panini... come per i panini così per altre attività... capito? Perché ci sono anche altre attività!».
Fonte: ilsole24ore.com
Il 18 settembre 2009 gli investigatori intercettano una telefonata in cui un tale Max sta tornando dall'Atm dove «è andato a parlare con la persona da lui conosciuta che si occupa dell'affidamento in gestione delle strutture commerciali, presenti all'interno delle stazioni della metropolitana milanese e chiede un incontro con Flachi» ma Davide, figlio di don Pepè Flachi, risponde che per lui non è possibile ma gli manderà qualcuno di fiducia. Il giorno successivo un'altra telefonata con Flachi chiarirà «che non ci sono problemi e che quando andrà a parlare con la persona che si occupa della cosa, questa non gli dirà di no».
Il "controllo del territorio" è espressione che spaventa. A Scampia o a Isola di Capo Rizzuto è concepibile perché richiama alla memoria gli ordini dei boss di mafia che non si possono discutere e che condizionano la vita economica ma ancor prima quella sociale.
A Milano e in Lombardia no, anche se, proprio ieri, il procuratore generale facente funzioni della Corte dei conti lombarda, Paolo Evangelista, in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario ha messo in guardia sugli appetiti delle mafie in vista di Expo 2015.
La frase non è concepibile perché il tessuto, seppur debilitato dalle infiltrazioni della 'ndrangheta che ha messo all'angolo Cosa nostra e Casalesi e che ha inquinato con capitali sporchi l'economia e la società, è ancora sano. Eppure quella telefonata – agli atti della Direzione distrettuale antimafia di Milano e che svela parte degli affari della famiglia Flachi che, oltre a puntare ai subappalti dei lavori della metro, già che era sottoterra voleva piantarci tende e negozi – sembra dimostrare il contrario. Così come l'altro dialogo. Quello sul pizzo per gli ambulanti.
L'"affare dei paninari", lo chiama senza mezzi termini il Gip di Milano Giuseppe Gennari, che la scorsa settimana ha firmato l'ordinanza Redux Caposaldo che ha mandato all'aria il sodalizio criminale della famiglia Flachi. Un business nel quale Milano è spartita per quartieri. «Noi abbiamo la zona di Corso Como, quindi discoteche e serali... abbiamo circa sette, otto camion, abbiamo tutta Città Studi, zona Piazzale Lagosta fino a via Carlo Farini», spiega un portaordine a un ambulante che non aveva capito l'antifona. I chioschi che vendono birre e panini pagano il pizzo o si spostano. Ma se cambiano zona, cambiano anche esattore.
Con la movida le mafie entrano nella vita dei cittadini. La stessa cosa accade a Varese o nelle località intorno ai laghi dove gli investimenti immobiliari sporchi continuano. Se il panino non è mafia-free non lo sono dunque neanche disco e pub. In quello che la Dda di Milano chiama «slancio confessorio», un uomo di una cosca calabrese dirà agli agenti sotto copertura che sono riusciti ad avvicinarlo: «Io ho un'agenzia di servizi di sicurezza e anche là è tutta una mafia... ve lo dico... noi abbiamo i nostri locali e curiamo i nostri locali... mettiamo i nostri uomini a lavorare perché devono lavorare... i locali stanno tranquilli perché ci siamo noi dietro... hai capito? Come per i locali così per i panini... come per i panini così per altre attività... capito? Perché ci sono anche altre attività!».
Fonte: ilsole24ore.com
14 mar 2011
'Ndrangheta: 35 arresti in Lombardia. I Boss si riunivano a Niguarda e al Galeazzi
Accuse di associazione per delinquere, estorsione, spaccio di droga, minacce e smaltimento illecito di rifiuti
MILANO - Si riunivano negli uffici di due funzionari amministrativi definiti «di alto livello» degli ospedali milanesi Niguarda e Galeazzi, Giuseppe Flachi, boss noto alle cronache, e Paolo Martino, altro boss diretto esponente della famiglia De Stefano di Reggio Calabria. Lo ha affermato il procuratore aggiunto Ilda Boccassini nell'ambito dell'incontro con la stampa in cui ha illustrato l'indagine che, all'alba di lunedì, ha portato all'arresto di 35 persone. «Si tratta - ha sottolineato il magistrato - di un fatto allarmante che è stato documentato». I due dirigenti degli ospedali non sono indagati, ma quanto è stato monitorato è per gli investigatori «inquietante». Addirittura, dicono gli inquirenti, il figlio di Flachi si premurava di bonificare la zona prima di una riunione del padre in ospedale, in una sorta di piccola azione militare. In particolare, si sottolinea «la funzione dell’ospedale Galeazzi (che si trova a Bruzzano dove i Flachi sono padroni da decenni), ridotto a luogo d’incontro riservato al servizio della ’ndrangheta», scrive il gip Giuseppe Gennari. Le indagini avrebbero individuato nel «capo ufficio ricoveri» e nel «responsabile ufficio infermieri i due contatti del gruppo all’interno dell’ospedale». I due mettevano i loro uffici a disposizione di Giuseppe Flachi per i suoi incontri con altri indagati e del figlio Davide per i suoi «incontri "sentimentali"» con una donna. Secondo Gennari, «la presenza di uomini di fiducia della mafia calabrese all’interno delle strutture sanitarie lombarde era emersa in modo netto nella indagine Valle in relazione al ricovero fittizio di don Ciccio Valle e - in modo più esteso - con l’arresto di Chiriaco, vertice dell’Asl di Pavia»
MILANO - Si riunivano negli uffici di due funzionari amministrativi definiti «di alto livello» degli ospedali milanesi Niguarda e Galeazzi, Giuseppe Flachi, boss noto alle cronache, e Paolo Martino, altro boss diretto esponente della famiglia De Stefano di Reggio Calabria. Lo ha affermato il procuratore aggiunto Ilda Boccassini nell'ambito dell'incontro con la stampa in cui ha illustrato l'indagine che, all'alba di lunedì, ha portato all'arresto di 35 persone. «Si tratta - ha sottolineato il magistrato - di un fatto allarmante che è stato documentato». I due dirigenti degli ospedali non sono indagati, ma quanto è stato monitorato è per gli investigatori «inquietante». Addirittura, dicono gli inquirenti, il figlio di Flachi si premurava di bonificare la zona prima di una riunione del padre in ospedale, in una sorta di piccola azione militare. In particolare, si sottolinea «la funzione dell’ospedale Galeazzi (che si trova a Bruzzano dove i Flachi sono padroni da decenni), ridotto a luogo d’incontro riservato al servizio della ’ndrangheta», scrive il gip Giuseppe Gennari. Le indagini avrebbero individuato nel «capo ufficio ricoveri» e nel «responsabile ufficio infermieri i due contatti del gruppo all’interno dell’ospedale». I due mettevano i loro uffici a disposizione di Giuseppe Flachi per i suoi incontri con altri indagati e del figlio Davide per i suoi «incontri "sentimentali"» con una donna. Secondo Gennari, «la presenza di uomini di fiducia della mafia calabrese all’interno delle strutture sanitarie lombarde era emersa in modo netto nella indagine Valle in relazione al ricovero fittizio di don Ciccio Valle e - in modo più esteso - con l’arresto di Chiriaco, vertice dell’Asl di Pavia»
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