25 set 2012

Regioni: molte spese, pochi valori

Non si può definire semplicemente corruzione, sprechi, malgoverno quanto sta emergendo a proposito delle Regioni

Quando la quantità di un fenomeno supera una certa misura, ciò ne cambia la qualità, esso diviene qualcos'altro. E dunque non si può definire semplicemente corruzione, sprechi, malgoverno quanto sta emergendo a proposito del modo d'essere delle istituzioni regionali nel nostro Paese. Che va aggiunto, per l'appunto, alle note ruberie dei vari Lusi e Belsito e dei loro molti complici, nonché alla pervicace volontà dei partiti, dimostrata in mille occasioni e ancora pochissimi giorni fa al Senato, di continuare a non dare conto del modo in cui impiegano il fiume di soldi dei contribuenti ottenuti grazie a delibere da loro stessi approvate nei consigli comunali, provinciali, regionali e per finire nelle aule parlamentari. Né vale dire, mi sembra - come ha fatto proprio sul Corriere di lunedì il presidente Onida - che la colpa è degli uomini, degli eletti, i quali poi, secondo quanto prescritto dal Porcellum , sarebbero in realtà dei «nominati». Infatti gli orribili e patetici figuri della maggioranza del Consiglio regionale del Lazio (di cui voglio sperare che il Pdl non osi ripresentare nelle proprie liste neppure uno), così come i consiglieri dell'Udc, del Pd e dell'Idv, loro complici nella finanza allegra e nelle smisurate appropriazioni, sono stati tutti eletti da migliaia e migliaia di preferenze (come del resto Formigoni, come Penati, come Lombardo, e come mille altri). Altro che nominati!

In realtà ciò che è sotto i nostri occhi è il collasso dell'intera piramide del ceto politico a partire dalla sua base, dall'ambito elettivo locale. È tutto l'edificio della rappresentanza che sta sprofondando nel malgoverno. Ormai perfino gruppi parlamentari veri e propri, per non dire di moltissimi gruppi dei consigli comunali e regionali, hanno la loro vera ed esclusiva ragione d'essere nell'appropriazione del pubblico denaro. Interi gruppi di delibere, intere filiere amministrative, blocchi di uffici e di assessorati (penso alla sanità, alla «formazione», al demanio), centinaia di società per azioni pubbliche, esistono principalmente in funzione esclusivo dell'uso privato-politico-clientelare dei soldi dell'erario.

Ma il collasso/incanaglimento del ceto politico non nasce, ripeto, dalla nequizia dei singoli o dall'assenza di controlli (che naturalmente potrebbero sempre essere accresciuti e migliorati). La sua causa vera, così come la causa della sua vastità capillare, sta altrove: sta nella disintegrazione del quadro generale - ideale e istituzionale - in cui quel ceto è chiamato ad agire. Chi oggi inizia a far politica in Italia non ha più alcun riferimento storico-ideologico forte, non può ricollegarsi ad alcun valore; in senso proprio non sa più a nome di quale Paese parla, anche perché ben raramente ne conosce la storia e perfino la lingua; l'Italia che gli viene in mente può essere al massimo quella del made in Italy . Per una ragione o per l'altra, poi, tutto l'orizzonte simbolico ma anche pratico sul cui sfondo è nata e vissuta la Repubblica gli si presenta in pezzi. La politica, i partiti, l'antifascismo, l'intervento pubblico, il Welfare, la mobilità sociale, il lavoro hanno perduto qualunque capacità mobilitante, non rappresentano più quelle rassicuranti (e plausibili) linee d'azione che rappresentavano un tempo: andrebbero ripensate da cima a fondo ma nessuno lo fa.

Quando perfino il destino di una fabbrica locale sembra dipendere (e dipende!) da Bruxelles, da Francoforte o da Pechino, tutto ciò che si richiama alle vecchie culture politiche della nostra tradizione democratica suona irreale, morto. Anche la Costituzione dovrebbe essere urgentemente aggiornata ma nessuno osa provarci veramente. Le assemblee elettive, infine, tutte le assemblee elettive, languono da anni in una crescente irrilevanza funzionale, testimoniata dal numero sempre più ridicolmente basso dei giorni in cui siedono e dei provvedimenti che riescono a varare.

Chi s'inoltra oggi sul sentiero della politica s'inoltra dunque in un vuoto abitato dal nulla. Che non a caso attira perlopiù solo donne e uomini vuoti, senza idee né principi. Che una volta eletti sono destinati a passare il proprio tempo in un'aula come fossero pesci in un acquario: impegnati a muoversi senza un vero scopo, a dare vita a finte passioni e a finte battaglie, il loro unico scopo è restare in attesa del cibo. Chi vuole avere un'idea del senso d'inutilità e di frustrazione che oggi può provare nel nostro Paese chi è chiamato ad amministrare e pure ha idee e passioni vere, legga la desolante confessione-testimonianza che un galantuomo a diciotto carati come l'attuale sindaco di Forlì, Roberto Balzani, ha consegnato a un libro appena uscito dal Mulino, Cinque anni di solitudine : un titolo che dice tutto.

Sono questa solitudine e questo vuoto; meglio: questa mancanza di adeguati presupposti ideali e istituzionali, questa inconsistenza e irrilevanza che ha oggi l'agire politico in Italia, la vera causa della corruzione e del malgoverno dilaganti. Oggi in politica si ruba perché non c'è nient'altro da fare, perché la politica non riesce a essere e ad animare più nulla: neppure quella cosa che si chiama governo, che infatti abbiamo dovuto affidare a un «tecnico». Domandiamoci con spregiudicata sincerità: che cos'altro può fare di davvero significativo per il suo presente e per il suo futuro un consigliere, un deputato o un assessore qualunque, di questi tempi, se non cercare di rimpannucciarsi come meglio può, e costruirsi una bella clientela personale? Smettiamola di illuderci: non più presidiata dalla forza delle idee e dall'autorevolezza delle istituzioni, la politica è un territorio destinato inevitabilmente a cadere nelle mani dei Lusi e dei Fiorito. Come del resto sta puntualmente avvenendo.

Fonte: corriere.it

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