L'Udc D'Alia diceva: «Grande opera». Poi: «Un flop»
«Viva il ponte!». «Abbasso il ponte!» Quando il senatore Gianpiero D'Alia, capogruppo dell'Udc al Senato, cambiò di colpo idea sul ponte sullo Stretto diventando più talebano degli ambientalisti, i messinesi ci restarono secchi: questa poi! Sorpresa: aveva comprato a prezzo stracciato una villa sul mare dove dovrebbe sorgere uno dei giganteschi piloni del gigantesco viadotto. Un idealista.
Si dirà, come ricordava ridendo Cossiga, che anche San Paolo lasciando la schiera dei persecutori di cristiani per diventare un padre della Chiesa, fu un voltagabbana. E voltarono la gabbana, nobilissimamente, anche Maria Maddalena e fra Cristoforo e Bartolomeo de las Casas che dopo essere stato uno schiavista diventò l'appassionato paladino dei diritti degli indios. Per non dire di tanti altri.
La folgorazione «sulla via di Damasco» è arrivata per Gianpiero D'Alia il giorno in cui mise gli occhi con la moglie Antonella su una villa sul mare a Torre Faro, a un quarto d'ora di macchina dal cuore di Messina. Siamo verso Cariddi, in faccia alla costa calabrese di Scilla. Luogo bellissimo, di magici ricordi letterari. Ricordate lo scoglio descritto nell'Odissea di Omero? «... e sotto Cariddi gloriosamente l'acqua livida assorbe / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe». E l'Eneide di Virgilio? «Il fianco destro di Scilla, il sinistro Cariddi implacabile tiene, e nel profondo baratro tre volte risucchia l'acqua...»
Fino a quel momento, l'uomo forte di Pier Ferdinando Casini in Sicilia dopo il tragico tramonto di Totò Cuffaro e l'addio di Raffaele Lombardo, era schieratissimo: «Il Ponte sullo Stretto, mentre costituisce l'elemento di saldatura del corridoio infrastrutturale che collega il nord Europa alla Sicilia, si pone altresì come catalizzatore dello sviluppo di una città-regione lineare di circa 100 chilometri di estensione che ha, ai suoi estremi, due importanti realtà del Mediterraneo: il porto di Gioia Tauro e l'aeroporto di Catania», tuonava nel 2003. «Si ritiene che la stessa attività di costruzione del ponte costituirà per Messina una importante occasione che la città, ricca di risorse umane ben preparate, non si lascerà sfuggire».
«A sottolineare l'importanza di quest'opera» ricordava nell'ottobre 2006 polemico col governo di centrosinistra, «ci sono le parole dello stesso presidente Prodi: nel 1985 sostenne che il ponte avrebbe recuperato una cultura delle grandi opere pubbliche svanita negli ultimi anni, e che la Sicilia era fortemente ostacolata da questa barriera naturale». Come osava, ora, mettersi di traverso? «Questa scelta condanna i territori interessati a una situazione di disagio, di disarticolazione di carattere economico, sociale e ambientale». Insomma: «Demolisce senza costruire».
Non li sopportava, i traditori del progetto. Al punto che quando Lombardo presentò alle «comunali» del 2008 Fabio D'Amore, polemizzò sarcastico: «Prendiamo atto che a Messina il Mpa ha chiuso l'accordo con un candidato a sindaco che ha messo al primo punto del suo programma il "no" al Ponte sullo Stretto. Peraltro il suo vicesindaco sarebbe un prestigioso professionista messinese, l'avvocato Carmelo Briguglio, legale delle associazioni ambientaliste che hanno proposto ricorsi anche alla Corte costituzionale contro questa grande opera». Puah, questi ambientalisti...
Nel 2009, oplà, la svolta. Il senatore e la moglie avviano l'acquisto della villa a Torre Faro. Bella casa, posto splendido, tre piani, 476 metri quadri catastali, giardino abbastanza grande per ospitare una piscina. Ma soprattutto ottimo prezzo: 220 mila euro. Un affarone. Dovuto al fatto che proprio in quel luogo stanno per cominciare di lì a qualche mese i carotaggi preliminari per costruire uno dei due piloni che devono reggere il ponte sul versante messinese. Due bestioni enormi con una spropositata base rettangolare di 12 metri per 20 e alti 399.
Quando venga fatto il preliminare tra la venditrice, Flavia Rosa, e la moglie di Gianpiero D'Alia, Antonella Bertuccini, non si sa. Probabilmente qualche settimana prima del rogito, firmato il 14 dicembre 2009 nello studio del notaio Salvatore Santoro e accompagnato dal versamento di due assegni circolari, il primo da 20 mila euro e il secondo da 200 mila, emessi dall'agenzia del Banco di Napoli di Montecitorio, cioè della Camera dei deputati.
Fatto sta che a cavallo di quelle settimane in cui la sua signora acquista la villa a Cariddi il politico messinese ribalta completamente la sua opinione. E partendo dai temi posti dalla tragica alluvione di quei giorni attacca a sparare a palle incatenate: «Parlare del ponte oggi è pura follia. In un momento come questo non è serio parlare di questa grande opera, che peraltro non ha perfezionato il suo iter progettuale, non è finanziata integralmente e che soprattutto dovrebbe sorgere in un contesto ambientale degradato come quello siciliano e calabrese. Sarebbe come affondare un coltello in un panetto di burro».
«Le dichiarazioni di Brunetta sul ponte di Messina rasentano il surreale», rincara un paio di settimane dopo furente con le promesse del ministro sulla infrastruttura. «Non ci sono soldi, non c'è un vero progetto, non sarà apposta nessuna pietra». Insomma: «Siamo di fronte all'ennesimo annuncio d'un governo allo sbando. Il Ponte è come il taglio dell'Irap, è un flop mascherato da bugia».
Ai primi di gennaio del 2010 è sempre più indignato: «Continuare a parlare di Ponte sullo Stretto e di opere compensative è solo una follia di fronte a una città che cade a pezzi giorno dopo giorno devastata dalle mareggiate e sottoposta a frane continue alla prima pioggia. Anche il sindaco e il comune di Messina non possono sacrificare la sicurezza del nostro territorio, ignorando il fenomeno del dissesto idrogeologico, in nome di un'opera inutile come il Ponte di Messina, che non vedrà mai la luce».
E via così, invettiva dopo invettiva: «Viste le risposte del tutto insoddisfacenti del governo chiederemo con gli altri capigruppo di opposizione, un'inchiesta parlamentare sui lavori del Ponte». «Alle prime piogge ci ritroviamo sempre e comunque in stato d'emergenza. Mentre le persone devono lasciare le loro case, il governo fa orecchio da mercante e pensa solo al Ponte sullo Stretto». «Chissà per quanto tempo ancora saremo costretti a dover sopportare bugie e falsità sulla realizzazione del ponte!». «La passerella messinese fatta dal governo oggi è offensiva per i messinesi e per tutti i meridionali. Dopo la finta apertura dei cantieri il 23 dicembre scorso in Calabria, assistiamo oggi all'ennesima stucchevole parata...».
Tuoni, fulmini e saette: «Il Ponte sullo Stretto è un'illusione pericolosa per il Sud e per la Sicilia. Immobilizza risorse senza che l'opera si possa fare e alimenta un circuito torbido di affari come quelli delle polizze fidejussorie fasulle...». «La costruzione del ponte è diventata solo la gallina dalle uova d'oro per alcuni gruppi imprenditoriali del nord Italia i quali, in tempi di crisi, sono ansiosi di guadagnarsi le penali che scatteranno in caso di mancata realizzazione della mega opera». «La società Ponte sullo Stretto va sciolta». «A questo punto sarebbe opportuna un'inchiesta parlamentare sul ponte, per aiutare il governo a decidere definitivamente su una questione che è ormai chiusa. È chiaro che l'infrastruttura non si costruirà, come è altrettanto chiaro che non serve affatto al territorio e tantomeno allo sviluppo dell'area integrata tra Messina e Reggio Calabria...».
Tutte cose sensate e condivise dagli ambientalisti e da buona parte dell'opinione pubblica italiana, siciliana, messinese. Se non venissero, appunto, dal pulpito di una villa a Cariddi.
Fonte: corriere.it
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21 ott 2012
12 gen 2011
Stilisti, attrici e imprenditori. Ecco chi aveva i soldi in Svizzera
Da Valentino alle Sandrelli, C'è anche Telespazio
ROMA - Ci sono stilisti e imprenditori, attrici e gioiellieri, commercianti e dirigenti d'azienda, ma anche illustri sconosciuti che hanno evidentemente deciso di tenere all'estero i propri risparmi. Oltre settecento persone che adesso sono sotto inchiesta a Roma per omessa o incompleta dichiarazione fiscale. Tutte finite nell'ormai famosa «lista Falciani» che prende il nome da Hervé Falciani, il dipendente infedele della sede di Ginevra dalla banca inglese Hsbc scappato con l'elenco dei clienti di mezzo mondo che poi ha ceduto alle autorità francesi. Per l'Italia ci sono 6.963 «posizioni finanziarie» per un totale di depositi che supera i sei miliardi e nove milioni di dollari relativi al biennio 2005-2007.
I documenti contabili ottenuti dalla procura di Torino e dalla Guardia di Finanza sono stati trasmessi per competenza alle varie Procure e nella capitale sono stati avviati gli accertamenti. Gli interessati dovranno infatti essere interrogati dal procuratore aggiunto Pier Filippo Laviani e dal suo sostituto Paolo Ielo, soprattutto per verificare se abbiano usufruito dello scudo fiscale e abbiano così sanato eventuali irregolarità.
ATTRICI E MANAGER - Aveva trasferito parte dei suoi risparmi in Svizzera l'attrice Stefania Sandrelli, che poi ha deciso di usufruire dello scudo e dunque dovrebbe evitare possibili conseguenze penali. Nella lista c'è anche sua figlia Amanda e adesso si dovrà stabilire se sia beneficiaria del deposito della madre o se abbia invece una posizione autonoma. Nulla si sa ancora sull'entità degli importi accreditati sui vari conti correnti: saranno le Fiamme Gialle a dover ricostruire la movimentazione fino a stabilire la cifra portata all'estero. Nella lista consegnata alla Procura c'è poi Elisabetta Gregoraci, la soubrette diventata famosa anche per essere diventata la moglie di Flavio Briatore. Il regista Sergio Leone risulta nell'elenco, ma è scomparso nel 1989 e dunque dovranno essere i suoi eredi a dover fornire chiarimenti ai magistrati.
STILISTI E GIOIELLIERI - Il più noto è certamente Valentino Garavani, seguito a
ruota da Renato Balestra. Entrambi, secondo le carte acquisite a Parigi e poi inviate nel nostro Paese, avrebbero depositato capitali presso la banca inglese. Nell'elenco c'è anche Pino Lancetti, il famoso sarto umbro morto nel 2007, che viene inserito insieme alla sorella Edda. E poi le due società che fanno capo a Gianni Bulgari, maestro di gioielleria con la sua "Gianni Bulgari srl" e la "Bulgari International". Gli inquirenti ritengono che anche Pietro Hausmann sia uno dei componenti della famosa gioielleria di Roma. Il Bolaffi che spicca nella lista dovrebbe appartenere alla dinastia nota per la numismatica mentre Sandro Ferrone è certamente lo stilista noto per i negozi sparsi in tutta la città che hanno come testimonial l'attrice Manuela Arcuri.
IMPRENDITORI E MANAGER - Telespazio è la società di Finmeccanica che si occupa di sistemi satellitari e i magistrati vogliono scoprire per quale motivo avesse un conto presso la Hsbc. Sarà soltanto una coincidenza, ma nella stessa lista compare Camilla Crociani, moglie di Carlo di Borbone e figlia di Camillo, che del colosso specializzato in armamenti e sistemi di difesa è stato presidente per diciotto anni prima di essere coinvolto nello scandalo Lockheed. Nella lista c'è anche il presidente della Confcommercio Roma Cesare Pambianchi, insieme a Carlo Mazzieri, commercialista che risulta socio nella sua attività professionale privata. Nel settembre scorso lo studio è stato perquisito nell'ambito di un'altra inchiesta della magistratura romana che riguarda il trasferimento all'estero, in particolare in Bulgaria e in Gran Bretagna, di società in stato prefallimentare al fine di evitare i procedimenti di bancarotta fraudolenta. Nome noto è pure quello di Mario Salabè, l'ingegnere coinvolto negli anni 90 nelle indagini sui finanziamenti al Pci-Pds con la sua società "Sapri Broker", fratello dell'architetto Adolfo Salabè che invece fu accusato di peculato nell'inchiesta sui «fondi neri» del Sisde quando al Viminale c'era Oscar Luigi Scalfaro del quale Salabè era amico attraverso la figlia Marianna. Risulta invece essere un professore universitario Francesco D'Ovidio Lefevre.
ILLUSTRI SCONOSCIUTI - I ricchi ma non famosi sono la maggior parte. Molte casalinghe, svariati professionisti, titolari di negozi del centro della città con un considerevole fatturato. Si va da Cinzia Campanile a Michele Della Valle, da Carmelo Molinari a Giovanni Pugliese da Mario Chessa a Roberto D'Antona. E ancora nell'elenco: Gabriella e Giorgio Greco; Gianfranco Graziadei; Adriano Biagiotti; Cinzia Santori; Marina Valdoni; Piero Dall'Oglio; Andrea Rosati; Eleonora Sermoneta; Stefania Vento; Giordana Zarfati; Eliane Rostagni; Fabrizia Aragona Pignatelli. La scorsa estate la Guardia di Finanza aveva avviato accertamenti su 25 persone che avevano esportato in Svizzera un totale di 8 milioni e 299 mila dollari, scelte in base ai «canoni di pericolosità fiscale» perché risulta che non hanno presentato denuncia dei redditi, oppure perché la loro dichiarazione è stata ritenuta «incongrua» rispetto alle somme movimentate. Tra loro, l'ambasciatore Giuseppe Maria Borga, la pittrice Donatella Marchini, il marchese Hermann Targiani.
Fonte: corriere.it
ROMA - Ci sono stilisti e imprenditori, attrici e gioiellieri, commercianti e dirigenti d'azienda, ma anche illustri sconosciuti che hanno evidentemente deciso di tenere all'estero i propri risparmi. Oltre settecento persone che adesso sono sotto inchiesta a Roma per omessa o incompleta dichiarazione fiscale. Tutte finite nell'ormai famosa «lista Falciani» che prende il nome da Hervé Falciani, il dipendente infedele della sede di Ginevra dalla banca inglese Hsbc scappato con l'elenco dei clienti di mezzo mondo che poi ha ceduto alle autorità francesi. Per l'Italia ci sono 6.963 «posizioni finanziarie» per un totale di depositi che supera i sei miliardi e nove milioni di dollari relativi al biennio 2005-2007.
I documenti contabili ottenuti dalla procura di Torino e dalla Guardia di Finanza sono stati trasmessi per competenza alle varie Procure e nella capitale sono stati avviati gli accertamenti. Gli interessati dovranno infatti essere interrogati dal procuratore aggiunto Pier Filippo Laviani e dal suo sostituto Paolo Ielo, soprattutto per verificare se abbiano usufruito dello scudo fiscale e abbiano così sanato eventuali irregolarità.
ATTRICI E MANAGER - Aveva trasferito parte dei suoi risparmi in Svizzera l'attrice Stefania Sandrelli, che poi ha deciso di usufruire dello scudo e dunque dovrebbe evitare possibili conseguenze penali. Nella lista c'è anche sua figlia Amanda e adesso si dovrà stabilire se sia beneficiaria del deposito della madre o se abbia invece una posizione autonoma. Nulla si sa ancora sull'entità degli importi accreditati sui vari conti correnti: saranno le Fiamme Gialle a dover ricostruire la movimentazione fino a stabilire la cifra portata all'estero. Nella lista consegnata alla Procura c'è poi Elisabetta Gregoraci, la soubrette diventata famosa anche per essere diventata la moglie di Flavio Briatore. Il regista Sergio Leone risulta nell'elenco, ma è scomparso nel 1989 e dunque dovranno essere i suoi eredi a dover fornire chiarimenti ai magistrati.
STILISTI E GIOIELLIERI - Il più noto è certamente Valentino Garavani, seguito a
ruota da Renato Balestra. Entrambi, secondo le carte acquisite a Parigi e poi inviate nel nostro Paese, avrebbero depositato capitali presso la banca inglese. Nell'elenco c'è anche Pino Lancetti, il famoso sarto umbro morto nel 2007, che viene inserito insieme alla sorella Edda. E poi le due società che fanno capo a Gianni Bulgari, maestro di gioielleria con la sua "Gianni Bulgari srl" e la "Bulgari International". Gli inquirenti ritengono che anche Pietro Hausmann sia uno dei componenti della famosa gioielleria di Roma. Il Bolaffi che spicca nella lista dovrebbe appartenere alla dinastia nota per la numismatica mentre Sandro Ferrone è certamente lo stilista noto per i negozi sparsi in tutta la città che hanno come testimonial l'attrice Manuela Arcuri.
IMPRENDITORI E MANAGER - Telespazio è la società di Finmeccanica che si occupa di sistemi satellitari e i magistrati vogliono scoprire per quale motivo avesse un conto presso la Hsbc. Sarà soltanto una coincidenza, ma nella stessa lista compare Camilla Crociani, moglie di Carlo di Borbone e figlia di Camillo, che del colosso specializzato in armamenti e sistemi di difesa è stato presidente per diciotto anni prima di essere coinvolto nello scandalo Lockheed. Nella lista c'è anche il presidente della Confcommercio Roma Cesare Pambianchi, insieme a Carlo Mazzieri, commercialista che risulta socio nella sua attività professionale privata. Nel settembre scorso lo studio è stato perquisito nell'ambito di un'altra inchiesta della magistratura romana che riguarda il trasferimento all'estero, in particolare in Bulgaria e in Gran Bretagna, di società in stato prefallimentare al fine di evitare i procedimenti di bancarotta fraudolenta. Nome noto è pure quello di Mario Salabè, l'ingegnere coinvolto negli anni 90 nelle indagini sui finanziamenti al Pci-Pds con la sua società "Sapri Broker", fratello dell'architetto Adolfo Salabè che invece fu accusato di peculato nell'inchiesta sui «fondi neri» del Sisde quando al Viminale c'era Oscar Luigi Scalfaro del quale Salabè era amico attraverso la figlia Marianna. Risulta invece essere un professore universitario Francesco D'Ovidio Lefevre.
ILLUSTRI SCONOSCIUTI - I ricchi ma non famosi sono la maggior parte. Molte casalinghe, svariati professionisti, titolari di negozi del centro della città con un considerevole fatturato. Si va da Cinzia Campanile a Michele Della Valle, da Carmelo Molinari a Giovanni Pugliese da Mario Chessa a Roberto D'Antona. E ancora nell'elenco: Gabriella e Giorgio Greco; Gianfranco Graziadei; Adriano Biagiotti; Cinzia Santori; Marina Valdoni; Piero Dall'Oglio; Andrea Rosati; Eleonora Sermoneta; Stefania Vento; Giordana Zarfati; Eliane Rostagni; Fabrizia Aragona Pignatelli. La scorsa estate la Guardia di Finanza aveva avviato accertamenti su 25 persone che avevano esportato in Svizzera un totale di 8 milioni e 299 mila dollari, scelte in base ai «canoni di pericolosità fiscale» perché risulta che non hanno presentato denuncia dei redditi, oppure perché la loro dichiarazione è stata ritenuta «incongrua» rispetto alle somme movimentate. Tra loro, l'ambasciatore Giuseppe Maria Borga, la pittrice Donatella Marchini, il marchese Hermann Targiani.
Fonte: corriere.it
15 nov 2010
Assenteismo alla Asl: per visitare pazienti "privati" e a pagamento
Ventiquattro arrestati e 45 indagati. Provocavano lunghe liste d'attesa nel servizio pubblico
MILANO - I Carabinieri del NAS di Taranto stanno eseguendo 24 provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di medici, infermieri, tecnici di radiologia, impiegati amministrativi ed addetti alle pulizie, tutti dipendenti o convenzionati con la ASL di Brindisi, responsabili di truffa aggravata e continuata in danno del Servizio Sanitario Nazionale. I destinatari delle misure facevano smarcare il proprio cartellino marcatempo ai colleghi o a persone estranee, assentandosi arbitrariamente dal luogo di lavoro, per dedicarsi ad incombenze personali ovvero per svolgere attività sanitaria privata. Nella stessa operazione sono indagate altre 45 persone per analoghi reati.
LE ASSENZE CONTAGIOSE - Le assenze dei dipendenti dell'Asl di Brindisi assenteisti si sono riflesse «sull' efficienza di quel presidio pubblico». Lo rilevano gli investigatori sottolineando che la struttura sanitaria, «nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli». Ciò ha determinato «la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul Servizio sanitario nazionale, ovvero il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti». Le persone raggiunte dalle misure cautelari sono quattro medici, nove infermieri, un tecnico radiologo, otto impiegati e due addetti alle pulizie. Successivamente alla prima fase dell'indagine, sono state eseguite ulteriori verifiche che hanno permesso di accertare, oltre alla persistenza delle condotte illecite, il propagarsi delle violazioni ad altri dipendenti per nulla dissuasi dalla pubblicazione sulla stampa locale di alcune notizie riguardanti casi di assenteismo. Il malcostume ha di fatto inciso sull'efficienza del presidio pubblico che, nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli, determinando la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul sistema sanitario nazionale, o il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti.
Fonte: corriere.it
MILANO - I Carabinieri del NAS di Taranto stanno eseguendo 24 provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di medici, infermieri, tecnici di radiologia, impiegati amministrativi ed addetti alle pulizie, tutti dipendenti o convenzionati con la ASL di Brindisi, responsabili di truffa aggravata e continuata in danno del Servizio Sanitario Nazionale. I destinatari delle misure facevano smarcare il proprio cartellino marcatempo ai colleghi o a persone estranee, assentandosi arbitrariamente dal luogo di lavoro, per dedicarsi ad incombenze personali ovvero per svolgere attività sanitaria privata. Nella stessa operazione sono indagate altre 45 persone per analoghi reati.
LE ASSENZE CONTAGIOSE - Le assenze dei dipendenti dell'Asl di Brindisi assenteisti si sono riflesse «sull' efficienza di quel presidio pubblico». Lo rilevano gli investigatori sottolineando che la struttura sanitaria, «nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli». Ciò ha determinato «la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul Servizio sanitario nazionale, ovvero il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti». Le persone raggiunte dalle misure cautelari sono quattro medici, nove infermieri, un tecnico radiologo, otto impiegati e due addetti alle pulizie. Successivamente alla prima fase dell'indagine, sono state eseguite ulteriori verifiche che hanno permesso di accertare, oltre alla persistenza delle condotte illecite, il propagarsi delle violazioni ad altri dipendenti per nulla dissuasi dalla pubblicazione sulla stampa locale di alcune notizie riguardanti casi di assenteismo. Il malcostume ha di fatto inciso sull'efficienza del presidio pubblico che, nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli, determinando la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul sistema sanitario nazionale, o il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti.
Fonte: corriere.it
20 ago 2010
Evasori d'Italia; ville e cani intestati a società. Trucchi d'Italia per battere il fisco.
Il direttore dell'Agenzia delle entrate: qui c'è la cultura dell'evasione. Dai contribuenti fantasma agli stabilimenti balneari che guadagnano di più durante l'inverno
Per settimane si sono barricati in casa aspettando che i federali venissero a prenderli. Non pagavano le tasse da molto tempo, finché il tribunale li ha condannati a cinque anni di carcere. E loro non ci sono stati. Armati fino ai denti hanno sprangato le porte in attesa della polizia, proclamando di «lottare per la libertà». Proprio così hanno detto: «per la libertà». Ma forse i coniugi Ed e Elanie Brown, che tre anni fa sono stati al centro negli Stati Uniti di un caso nazionale, avevano semplicemente sbagliato posto: credevano di essere in Italia. Il Paese dove l'evasione fiscale non è semplicemente una patologia, ma l'effetto di una cultura radicata a fondo.
L'ha ammesso implicitamente ieri, sulle colonne del Sole24ore, il direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera. «Quello che ancora non si afferma è il cambiamento del modello culturale che ha favorito l'evasione», ha scritto, mostrandosi esterrefatto per aver letto in un'intervista «che tutto quello che si possiede, anche il proprio cane, è intestato a una società per limitare i danni patrimoniali». Quell'intervista è stata pubblicata da Repubblica il giorno prima di Ferragosto e l'intervistato è nientemeno che la rock star Vasco Rossi, finito nel mirino del fisco per una società, da lui posseduta al 90%, a cui è intestata la barca «Jamaica». Indispettito perché la notizia era trapelata sulle agenzie, dopo aver dichiarato «sono un cittadino onesto», il cantante ha spiegato: «Ho usato questa cautela per mettere un limite a eventuali ritorsioni contro la mia persona fisica per eventuali danni causati dalla barca o dall'equipaggio a terzi. Trovo questo oltre che lecito anche ragionevole e per nulla elusivo. Anche il mio cane è intestato a una società, perché se morde qualcuno si pagano giustamente i danni, ma si evita che qualcuno possa approfittarsene». Difficile comprendere la differenza fra essere morsi dal cane di Vasco Rossi piuttosto che dal cane della società di Vasco Rossi. Ma se la società della barca (in leasing) si chiama «Giamaica no problem» (!) ci sarà pure un motivo.
Anche perché Vasco non è il solo a pensarla così. Sono migliaia e migliaia le società a cui i proprietari intestano yacht e natanti. Il problema, o meglio, il «problem», è che sono pressoché tutte ditte di charter con un solo cliente, guarda caso il loro azionista. In italiano si chiamano società di comodo e non servono soltanto a pagare meno tasse sulla barca, ma a far scomparire lo yacht dai radar del fisco nel caso di accertamenti personali. Se l'Agenzia delle entrate mette il naso nella tua denuncia dei redditi, scoprirà che non hai un motoscafo da un milione di euro, ma una società di charter del capitale di 10 mila euro. Per giunta in perdita. Meglio della bandiera liberiana o panamense.
Ma le società di comodo non servono solo per le barche. Moltissimi ci mettono dentro anche la villa al mare, il casale in campagna, gli appartamenti in città. Poi ci sono le fuoriserie: Ferrari a centinaia, Porsche, Audi, Mercedes, Bmw, Lamborghini e Suv a rotta di collo. Mascherate da auto aziendali. Anche in questo caso non per risparmiare sulle tasse della macchina, ma perché non figuri nella denuncia dei redditi. A uno schermo societario, in Italia, non rinuncia nessuno: diversamente non sarebbero in perdita quasi metà (per l'esattezza il 45%) delle società di capitali. Ma c'è anche chi alla maschera di una srl o di una spa preferisce direttamente quella di una società fiduciaria. Si mettono le azioni là dentro e si può dormire fra due guanciali.
Per non parlare delle scatole dove finiscono i dividendi: spesso hanno sede all'estero, magari in un Paese comunitario. Tipo Lussemburgo. Poi però, grattando la vernice, salta fuori che la società è controllata da un'altra società che sta invece alle Isole Cayman o a San Marino. Migliaia e migliaia. E per non dire dei vip con residenza (spesso fittizia) nei paradisi fiscali, oppure a Montecarlo. Le cronache ne sono piene. Fin qui i comportamenti dove il confine fra evasione ed elusione è talvolta impalpabile. Oltre, ci sono le frodi. E anche in questo vantiamo una discreta specializzazione. Le società che aprono e chiudono i battenti nel giro di pochi mesi, per esempio: si chiamano cartiere perché servono soltanto a fare false fatture che permetteranno di chiedere il rimborso dell'Iva mai pagata. Un caso di scuola, che si può declinare in vari modi. Per esempio, come ha scoperto ad aprile di quest'anno la Guardia di finanza, con un giro di fiduciarie fra la Svizzera e il Lussemburgo. C'era coinvolto perfino un prete. Ma la tecnologia del crimine fiscale, purtroppo, è in continua evoluzione. Vi si dedicano menti raffinate, come quella che ha architettato una frode ai danni del Fisco arrivando a utilizzare i modelli 730: aveva creato una rete di finte società, formalmente gestite da una signora ottuagenaria, che erogavano false prestazioni detraibili dalle denunce dei redditi di comuni cittadini. Impiegati, infermieri delle Asl, pensionati. Con un danno di svariati milioni di euro per l'erario.
Roba da far impallidire gli artigiani dell'evasione. A partire dai commercianti refrattari alla ricevuta fiscale, i quali dichiarano redditi inferiori a quelli del proprio dipendente. Per continuare con gli stabilimenti balneari che dicono di guadagnare più d'inverno che d'estate. Nessuno, però, riesce a battere i veri artisti. Ovvero, coloro che per il Fisco non esistono nemmeno. Una volta scoprirono una donna, a Pavia, che per anni aveva gestito una casa di riposo per anziani totalmente abusiva.
Interrogato dal giudice che sta indagando sulla vicenda della cosiddetta P3, il «faccendiere» Flavio Carboni ha dichiarato senza fare una piega di non possedere beni patrimoniali avendone comunque la disponibilità. Tecnicamente è possibile. Ma quando si scopre che dall'anno di imposta 2002 non ha più presentato una dichiarazione dei redditi, come i poveri, allora non si può davvero trattenere la sorpresa.
Non c'è dubbio che l'evasione fiscale in Italia sia anche una questione culturale. A differenza degli Stati Uniti, dove non si scherza (fra il 2002 e il 2007 hanno sbattuto dentro 5 mila persone), qui non è mai stata considerata un peccato. Più che altro, una marachella. Nel 2002 l'avvocato Attilio Pacifico, che sarebbe stato condannato insieme all'ex ministro Cesare Previti per l'affare Imi-Sir, ammise candidamente in un colloquio con un giornalista: «Sì, sono un evasore fiscale. E allora, che mi volete fare?». E in una lettera al Corriere lo stesso Previti scrisse: «Se è vero che negli anni passati ho avuto disponibilità all'estero, è altrettanto vero che questa situazione l'ho regolarizzata e sanata anche attraverso un condono tombale, pagando quanto dovuto per legge». Già, il condono.
Quale contributo hanno dato le sanatorie a diffondere, come vorrebbe Befera, «la cultura della legalità fiscale»? Il primo condono dell'età moderna lo fece Bruno Visentini, nel 1973. Replicò Rino Formica, nel 1982. E ancora Formica, nel 1991. Per arrivare al 2002, con Tremonti. Poi gli scudi, a ripetizione, per chi aveva esportato illegalmente capitali. Questione forse di Dna italico, visto che la sanatoria capostipite risale addirittura all'epoca dell'imperatore Adriano (che era però di origini iberiche). Ma è difficile credere che la politica oggi non abbia le sue responsabilità. Per questo una domanda è inevitabile. Ora che il suo governo, impossibilitato a ridurre le imposte, sostiene di voler combattere a fondo l'evasione, ripeterebbe Silvio Berlusconi quel che disse il 18 febbraio del 2004, e cioè che evadere tasse troppo alte è «moralmente giustificabile»?
Fonte: corriere.it
Per settimane si sono barricati in casa aspettando che i federali venissero a prenderli. Non pagavano le tasse da molto tempo, finché il tribunale li ha condannati a cinque anni di carcere. E loro non ci sono stati. Armati fino ai denti hanno sprangato le porte in attesa della polizia, proclamando di «lottare per la libertà». Proprio così hanno detto: «per la libertà». Ma forse i coniugi Ed e Elanie Brown, che tre anni fa sono stati al centro negli Stati Uniti di un caso nazionale, avevano semplicemente sbagliato posto: credevano di essere in Italia. Il Paese dove l'evasione fiscale non è semplicemente una patologia, ma l'effetto di una cultura radicata a fondo.
L'ha ammesso implicitamente ieri, sulle colonne del Sole24ore, il direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera. «Quello che ancora non si afferma è il cambiamento del modello culturale che ha favorito l'evasione», ha scritto, mostrandosi esterrefatto per aver letto in un'intervista «che tutto quello che si possiede, anche il proprio cane, è intestato a una società per limitare i danni patrimoniali». Quell'intervista è stata pubblicata da Repubblica il giorno prima di Ferragosto e l'intervistato è nientemeno che la rock star Vasco Rossi, finito nel mirino del fisco per una società, da lui posseduta al 90%, a cui è intestata la barca «Jamaica». Indispettito perché la notizia era trapelata sulle agenzie, dopo aver dichiarato «sono un cittadino onesto», il cantante ha spiegato: «Ho usato questa cautela per mettere un limite a eventuali ritorsioni contro la mia persona fisica per eventuali danni causati dalla barca o dall'equipaggio a terzi. Trovo questo oltre che lecito anche ragionevole e per nulla elusivo. Anche il mio cane è intestato a una società, perché se morde qualcuno si pagano giustamente i danni, ma si evita che qualcuno possa approfittarsene». Difficile comprendere la differenza fra essere morsi dal cane di Vasco Rossi piuttosto che dal cane della società di Vasco Rossi. Ma se la società della barca (in leasing) si chiama «Giamaica no problem» (!) ci sarà pure un motivo.
Anche perché Vasco non è il solo a pensarla così. Sono migliaia e migliaia le società a cui i proprietari intestano yacht e natanti. Il problema, o meglio, il «problem», è che sono pressoché tutte ditte di charter con un solo cliente, guarda caso il loro azionista. In italiano si chiamano società di comodo e non servono soltanto a pagare meno tasse sulla barca, ma a far scomparire lo yacht dai radar del fisco nel caso di accertamenti personali. Se l'Agenzia delle entrate mette il naso nella tua denuncia dei redditi, scoprirà che non hai un motoscafo da un milione di euro, ma una società di charter del capitale di 10 mila euro. Per giunta in perdita. Meglio della bandiera liberiana o panamense.
Ma le società di comodo non servono solo per le barche. Moltissimi ci mettono dentro anche la villa al mare, il casale in campagna, gli appartamenti in città. Poi ci sono le fuoriserie: Ferrari a centinaia, Porsche, Audi, Mercedes, Bmw, Lamborghini e Suv a rotta di collo. Mascherate da auto aziendali. Anche in questo caso non per risparmiare sulle tasse della macchina, ma perché non figuri nella denuncia dei redditi. A uno schermo societario, in Italia, non rinuncia nessuno: diversamente non sarebbero in perdita quasi metà (per l'esattezza il 45%) delle società di capitali. Ma c'è anche chi alla maschera di una srl o di una spa preferisce direttamente quella di una società fiduciaria. Si mettono le azioni là dentro e si può dormire fra due guanciali.
Per non parlare delle scatole dove finiscono i dividendi: spesso hanno sede all'estero, magari in un Paese comunitario. Tipo Lussemburgo. Poi però, grattando la vernice, salta fuori che la società è controllata da un'altra società che sta invece alle Isole Cayman o a San Marino. Migliaia e migliaia. E per non dire dei vip con residenza (spesso fittizia) nei paradisi fiscali, oppure a Montecarlo. Le cronache ne sono piene. Fin qui i comportamenti dove il confine fra evasione ed elusione è talvolta impalpabile. Oltre, ci sono le frodi. E anche in questo vantiamo una discreta specializzazione. Le società che aprono e chiudono i battenti nel giro di pochi mesi, per esempio: si chiamano cartiere perché servono soltanto a fare false fatture che permetteranno di chiedere il rimborso dell'Iva mai pagata. Un caso di scuola, che si può declinare in vari modi. Per esempio, come ha scoperto ad aprile di quest'anno la Guardia di finanza, con un giro di fiduciarie fra la Svizzera e il Lussemburgo. C'era coinvolto perfino un prete. Ma la tecnologia del crimine fiscale, purtroppo, è in continua evoluzione. Vi si dedicano menti raffinate, come quella che ha architettato una frode ai danni del Fisco arrivando a utilizzare i modelli 730: aveva creato una rete di finte società, formalmente gestite da una signora ottuagenaria, che erogavano false prestazioni detraibili dalle denunce dei redditi di comuni cittadini. Impiegati, infermieri delle Asl, pensionati. Con un danno di svariati milioni di euro per l'erario.
Roba da far impallidire gli artigiani dell'evasione. A partire dai commercianti refrattari alla ricevuta fiscale, i quali dichiarano redditi inferiori a quelli del proprio dipendente. Per continuare con gli stabilimenti balneari che dicono di guadagnare più d'inverno che d'estate. Nessuno, però, riesce a battere i veri artisti. Ovvero, coloro che per il Fisco non esistono nemmeno. Una volta scoprirono una donna, a Pavia, che per anni aveva gestito una casa di riposo per anziani totalmente abusiva.
Interrogato dal giudice che sta indagando sulla vicenda della cosiddetta P3, il «faccendiere» Flavio Carboni ha dichiarato senza fare una piega di non possedere beni patrimoniali avendone comunque la disponibilità. Tecnicamente è possibile. Ma quando si scopre che dall'anno di imposta 2002 non ha più presentato una dichiarazione dei redditi, come i poveri, allora non si può davvero trattenere la sorpresa.
Non c'è dubbio che l'evasione fiscale in Italia sia anche una questione culturale. A differenza degli Stati Uniti, dove non si scherza (fra il 2002 e il 2007 hanno sbattuto dentro 5 mila persone), qui non è mai stata considerata un peccato. Più che altro, una marachella. Nel 2002 l'avvocato Attilio Pacifico, che sarebbe stato condannato insieme all'ex ministro Cesare Previti per l'affare Imi-Sir, ammise candidamente in un colloquio con un giornalista: «Sì, sono un evasore fiscale. E allora, che mi volete fare?». E in una lettera al Corriere lo stesso Previti scrisse: «Se è vero che negli anni passati ho avuto disponibilità all'estero, è altrettanto vero che questa situazione l'ho regolarizzata e sanata anche attraverso un condono tombale, pagando quanto dovuto per legge». Già, il condono.
Quale contributo hanno dato le sanatorie a diffondere, come vorrebbe Befera, «la cultura della legalità fiscale»? Il primo condono dell'età moderna lo fece Bruno Visentini, nel 1973. Replicò Rino Formica, nel 1982. E ancora Formica, nel 1991. Per arrivare al 2002, con Tremonti. Poi gli scudi, a ripetizione, per chi aveva esportato illegalmente capitali. Questione forse di Dna italico, visto che la sanatoria capostipite risale addirittura all'epoca dell'imperatore Adriano (che era però di origini iberiche). Ma è difficile credere che la politica oggi non abbia le sue responsabilità. Per questo una domanda è inevitabile. Ora che il suo governo, impossibilitato a ridurre le imposte, sostiene di voler combattere a fondo l'evasione, ripeterebbe Silvio Berlusconi quel che disse il 18 febbraio del 2004, e cioè che evadere tasse troppo alte è «moralmente giustificabile»?
Fonte: corriere.it
12 lug 2010
Nullatenenti in affitto a Porto Cervo. La metà si dichiara senza reddito, persino con la social card
In Italia l’imponibile che sfugge al fisco è di circa 300 miliardi
ROMA — Se vedete un signore a bordo di una fiammante fuoriserie varcare il cancello di una lussuosa villa che ha appena affittato a Porto Cervo, Capri, Forte dei Marmi, Positano, oppure, perché no, Portofino e Taormina, farete bene a compatirlo: nel 47% dei casi, secondo Contribuenti.it. è nullatenente o pensionato con la social card nel portafoglio. Accanto, s'intende, a una carta di credito oro ben fornita, trattandosi evidentemente di evasori o loro prestanome. Ma è possibile che in questo Paese la faccia tosta sia una caratteristica tanto diffusa? Purtroppo lo è anche di più. Diversamente quello del «finto povero» non sarebbe diventato uno sport nazionale. Basta scorrere le notizie che finiscono in due righe in fondo a una pagina di giornale. Una volta la Guardia di finanza ha pizzicato a Siena un signore che aveva chiesto il contributo per pagare la pigione spettante agli indigenti: aveva due ville e quattro appartamenti. Proprio così. In un'altra occasione è stato sufficiente controllare a fondo il parco macchine di un caseggiato popolare per scoprire fra gli assegnatari degli alloggi i proprietari, rispettivamente, di una Porsche Carrera, una Jaguar e un Suv Volkswagen Tuareg. E questo a Padova, non a Napoli, dove il 59,9% degli occupanti abusivi delle abitazioni Iacp e addirittura il 78% di quelli comunali dichiara di vivere d'aria.
D'altra parte, come si spiegherebbero le stime, probabilmente vere per difetto, che qualificano l'Italia come la Patria degli evasori: dove 300 miliardi di euro l'anno di imponibile sfuggono completamente alla Finanze, con il risultato di veder sfumare incassi per almeno 100 miliardi? Per inciso, si tratta di una volta e mezzo la somma che ogni dodici mesi paghiamo per interessi sul nostro gigantesco debito pubblico. Una situazione, sia chiaro, che il fisco conosce fin troppo bene. Basta ricordare le parole con cui il ministro dell'Economia Giulio Tremonti denunciò nel maggio 2004 durante una infuocata riunione della maggioranza di centrodestra la scandalosa contraddizione fra le appena 17 mila persone che allora dichiaravano un reddito superiore a 300 mila euro e le 230 mila auto di lusso uscite ogni anno dai concessionari: 13 volte e mezzo di più. Il fatto è che da allora le cose non sono certamente migliorate in modo radicale. Non è questa la sede per indagare sulle ragioni. Ma è un fatto che nel 2007 il numero dei contribuenti con un reddito superiore a 200 mila euro non superava 76 mila, cioè lo 0,18% del totale. Esattamente, 75.689. E il 56,8% di loro, ossia più di 43 mila, erano lavoratori dipendenti, mentre il 25% era rappresentato da pensionati: 18.811. Sapete quanti invece fra i due milioni e passa di «percettori di reddito d'impresa» dichiaravano di aver incassato oltre 200 mila euro? Soltanto 6.253. Per non dire delle società. A guardare i numeri verrebbe da pensare che fra gli imprenditori italiani ci siano eserciti di masochisti. Le società di capitali che hanno chiuso il bilancio 2007 (quello prima della grande crisi) il perdita sono state addirittura il 45% del totale. Tutti sfortunati, incapaci, sprovveduti? Oppure furbacchioni?
Fatevi un giro nelle banche dati delle Camere di commercio, e scoprirete che l'Italia è anche la Patria delle società di comodo. Quelle che vengono create da privati cittadini per custodire dietro uno schermo societario la proprietà della barca, della casa, della villa al mare. E chiudere il bilancio in perdita, in questi casi, è un toccasana fiscale mica da ridere. Senza parlare delle scatole costituite al solo scopo di rastrellare falsi crediti Iva: ma questa non è evasione, è truffa. Va da sé che una società già non particolarmente predisposta, anche per ragioni storiche, alla fedeltà fiscale, di tutto avrebbe bisogno tranne che di ulteriori incentivi a non rispettare le regole. I quali però, negli ultimi trent'anni, sono stati assai frequenti. I condoni fiscali, per esempio. Dal 1982 ce ne sono stati tre di quelli tombali, senza che l'effetto positivo tanto decantato ogni volta, quello di «far emergere base imponibile» sia stato tangibile. Anzi. Che gli evasori, una volta regolate le pendenze passate con il fisco, ovviamente senza nemmeno subire le sanzioni che avrebbero meritato, si «immergano» di nuovo aspettando il prossimo condono, è ormai accertato. Guardiamo la vicenda del cosiddetto scudo fiscale. La prima opportunità offerta nel 2002-2003 a chi aveva illegalmente esportato capitali all'estero senza pagarci le tasse diede un risultato clamoroso: vennero regolarizzati circa 70 miliardi di euro, che per il 60% erano stati portati in Svizzera da cittadini residenti in Lombardia. «Pochi giorni e poi partiranno controlli severissimi», proclamò il fisco. Per dissuadere gli evasori nostrani e i finti poveri con la mania delle banche offshore dal riprendere l'odioso traffico, Tremonti minacciò di installare le telecamere davanti alle frontiere elvetiche. Trascorsi appena sei anni, ecco un nuovo scudo fiscale, con risultati ancora più clamorosi. I miliardi di euro regolarizzati, questa volta, sono stati ben 106: molti di questi, è prevedibile, usciti dall'Italia dopo il 2003. Per andare da dove a dove? Ancora una volta in gran parte dalla Lombardia verso la Svizzera. Ancora... alla faccia delle telecamere.
Fonte: corriere.it
ROMA — Se vedete un signore a bordo di una fiammante fuoriserie varcare il cancello di una lussuosa villa che ha appena affittato a Porto Cervo, Capri, Forte dei Marmi, Positano, oppure, perché no, Portofino e Taormina, farete bene a compatirlo: nel 47% dei casi, secondo Contribuenti.it. è nullatenente o pensionato con la social card nel portafoglio. Accanto, s'intende, a una carta di credito oro ben fornita, trattandosi evidentemente di evasori o loro prestanome. Ma è possibile che in questo Paese la faccia tosta sia una caratteristica tanto diffusa? Purtroppo lo è anche di più. Diversamente quello del «finto povero» non sarebbe diventato uno sport nazionale. Basta scorrere le notizie che finiscono in due righe in fondo a una pagina di giornale. Una volta la Guardia di finanza ha pizzicato a Siena un signore che aveva chiesto il contributo per pagare la pigione spettante agli indigenti: aveva due ville e quattro appartamenti. Proprio così. In un'altra occasione è stato sufficiente controllare a fondo il parco macchine di un caseggiato popolare per scoprire fra gli assegnatari degli alloggi i proprietari, rispettivamente, di una Porsche Carrera, una Jaguar e un Suv Volkswagen Tuareg. E questo a Padova, non a Napoli, dove il 59,9% degli occupanti abusivi delle abitazioni Iacp e addirittura il 78% di quelli comunali dichiara di vivere d'aria.
D'altra parte, come si spiegherebbero le stime, probabilmente vere per difetto, che qualificano l'Italia come la Patria degli evasori: dove 300 miliardi di euro l'anno di imponibile sfuggono completamente alla Finanze, con il risultato di veder sfumare incassi per almeno 100 miliardi? Per inciso, si tratta di una volta e mezzo la somma che ogni dodici mesi paghiamo per interessi sul nostro gigantesco debito pubblico. Una situazione, sia chiaro, che il fisco conosce fin troppo bene. Basta ricordare le parole con cui il ministro dell'Economia Giulio Tremonti denunciò nel maggio 2004 durante una infuocata riunione della maggioranza di centrodestra la scandalosa contraddizione fra le appena 17 mila persone che allora dichiaravano un reddito superiore a 300 mila euro e le 230 mila auto di lusso uscite ogni anno dai concessionari: 13 volte e mezzo di più. Il fatto è che da allora le cose non sono certamente migliorate in modo radicale. Non è questa la sede per indagare sulle ragioni. Ma è un fatto che nel 2007 il numero dei contribuenti con un reddito superiore a 200 mila euro non superava 76 mila, cioè lo 0,18% del totale. Esattamente, 75.689. E il 56,8% di loro, ossia più di 43 mila, erano lavoratori dipendenti, mentre il 25% era rappresentato da pensionati: 18.811. Sapete quanti invece fra i due milioni e passa di «percettori di reddito d'impresa» dichiaravano di aver incassato oltre 200 mila euro? Soltanto 6.253. Per non dire delle società. A guardare i numeri verrebbe da pensare che fra gli imprenditori italiani ci siano eserciti di masochisti. Le società di capitali che hanno chiuso il bilancio 2007 (quello prima della grande crisi) il perdita sono state addirittura il 45% del totale. Tutti sfortunati, incapaci, sprovveduti? Oppure furbacchioni?
Fatevi un giro nelle banche dati delle Camere di commercio, e scoprirete che l'Italia è anche la Patria delle società di comodo. Quelle che vengono create da privati cittadini per custodire dietro uno schermo societario la proprietà della barca, della casa, della villa al mare. E chiudere il bilancio in perdita, in questi casi, è un toccasana fiscale mica da ridere. Senza parlare delle scatole costituite al solo scopo di rastrellare falsi crediti Iva: ma questa non è evasione, è truffa. Va da sé che una società già non particolarmente predisposta, anche per ragioni storiche, alla fedeltà fiscale, di tutto avrebbe bisogno tranne che di ulteriori incentivi a non rispettare le regole. I quali però, negli ultimi trent'anni, sono stati assai frequenti. I condoni fiscali, per esempio. Dal 1982 ce ne sono stati tre di quelli tombali, senza che l'effetto positivo tanto decantato ogni volta, quello di «far emergere base imponibile» sia stato tangibile. Anzi. Che gli evasori, una volta regolate le pendenze passate con il fisco, ovviamente senza nemmeno subire le sanzioni che avrebbero meritato, si «immergano» di nuovo aspettando il prossimo condono, è ormai accertato. Guardiamo la vicenda del cosiddetto scudo fiscale. La prima opportunità offerta nel 2002-2003 a chi aveva illegalmente esportato capitali all'estero senza pagarci le tasse diede un risultato clamoroso: vennero regolarizzati circa 70 miliardi di euro, che per il 60% erano stati portati in Svizzera da cittadini residenti in Lombardia. «Pochi giorni e poi partiranno controlli severissimi», proclamò il fisco. Per dissuadere gli evasori nostrani e i finti poveri con la mania delle banche offshore dal riprendere l'odioso traffico, Tremonti minacciò di installare le telecamere davanti alle frontiere elvetiche. Trascorsi appena sei anni, ecco un nuovo scudo fiscale, con risultati ancora più clamorosi. I miliardi di euro regolarizzati, questa volta, sono stati ben 106: molti di questi, è prevedibile, usciti dall'Italia dopo il 2003. Per andare da dove a dove? Ancora una volta in gran parte dalla Lombardia verso la Svizzera. Ancora... alla faccia delle telecamere.
Fonte: corriere.it
7 mag 2010
Gli incontri di Anemone con monsignor Camaldo. E Don Evaldo rivela: altri sacerdoti sapevano dei soldi
L’INCHIESTA - ALCUNE COMPRAVENDITE DI CASE PASSAVANO DA «PROPAGANDA FIDE»
Il superteste racconta: portavo il costruttore dal cerimoniere del Papa
Appartamenti trasformati in dimore di lusso grazie alle ristrutturazioni compiute dalle imprese di Diego Anemone. A beneficiarne erano «politici e prelati», così come ha raccontato Laid Ben Hidri Fathi, l'autista di Angelo Balducci, che del costruttore era diventato collaboratore. Di fronte ai magistrati di Perugia l’uomo ha cominciato a fornire dettagli e identità.
E ha svelato: «Ero io ad accompagnare Diego agli incontri con queste persone. Ricordo in particolare che era in rapporti con monsignor Francesco Camaldo». Si tratta del cerimoniere del Papa, per quindici anni segretario particolare del vicario di Roma cardinal Ugo Poletti. I legami con il Vaticano sono uno dei filoni principali dell'indagine sugli appalti dei Grandi eventi, soprattutto dopo la scoperta che una delle «casseforti» dell'imprenditore era gestita da don Evaldo Biasini, 83 anni. Ma anche perché alcune compravendite di case passavano proprio da enti religiosi come «Propaganda Fide», di cui Balducci era consigliere. Dimore che sarebbero state acquistate seguendo la procedura già scoperta nel caso del ministro Claudio Scajola. L'attenzione della Guardia di finanza si concentra su 15 operazioni sospette: trasferimenti di denaro dai conti di Anemone a quelli dei suoi prestanome — in particolare il geometra Zampolini e la segretaria Alida Lucci — e poi trasformati in assegni circolari da versare al momento del rogito.
Gli incontri
Il testimone—che aveva ricevuto il compito di gestire una serie di conti correnti di Anemone e per questo aveva ottenuto anche la delega ai prelevamenti per contanti—non fornisce dettagli sui contenuti dei colloqui. Ma è preciso nel riferire in quali occasioni portò Anemone da monsignor Camaldo. Sinora l’inchiesta aveva fatto emergere una buona conoscenza tra il prelato e Balducci. Tanto che quando il provveditore è stato arrestato, monsignor Camaldo ha commentato: «Sono molto addolorato, è una persona di assoluta limpidezza morale, conosciuta e stimata in Vaticano da tanti anni, sono certo che dimostrerà la sua completa estraneità alle accuse». Adesso si intravede una rete più ampia. Anche perché nel 2008 lo stesso prelato finì nell'inchiesta avviata dal pm Henry John Woodcock su Vittorio Emanuele di Savoia, sospettato di complicità con alcuni faccendieri inseriti nella massoneria. Per quale motivo incontrava Anemone? Tra gli interessi comuni c'erano soltanto acquisiti e ristrutturazioni di appartamenti, come racconta Hidri Fathi? È presumibile che monsignor Camaldo venga ascoltato dai magistrati di Perugia quando saranno terminati gli accertamenti sulle 15 operazioni sospette emerse nell'indagine.
Rogiti e assegni
Nell'elenco delle persone da interrogare c'è anche il notaio Gianluca Napoleone che ha stipulato tutti i rogiti delle operazioni immobiliari gestite dall'architetto Angelo Zampolini. E sono proprio quelle «anomale» movimentazioni di denaro scoperte sui suoi conti presso la Deutsche Bank e su quelli della Lucci a celare — secondo i pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi— l'acquisto di case che Anemone avrebbe poi intestato ai politici, ai funzionari statali e a quei religiosi che lo avrebbero agevolato nella concessione degli appalti pubblici, ma anche nei lavori di ristrutturazione di interi stabili. Per questo, oltre alle verifiche effettuate presso istituti di credito e banche dati finanziarie, l'interesse degli investigatori si concentra sulle mappe catastali per rintracciare eventuali cambi di destinazione d’uso e verificare i proprietari degli appartamenti che spesso risultano intestati a società.
I sacerdoti
In questo vorticoso giro di case si inseriscono gli affari gestiti da Balducci e Anemone attraverso «Propaganda Fide» e soprattutto la Congregazione del preziosissimo sangue di cui era economo don Evaldo Biasini, che nella sua cassaforte conservava contanti messi a disposizione del costruttore in caso di emergenza. Il sacerdote, missionario in Africa, ha poi raccontato di aver messo a disposizione del costruttore i conti dell'Ente, di fatto utilizzati per depositare assegni e prelevare contanti.
Leggendo il verbale della perquisizione nella sede dell'Istituto dai Ros, si scopre che oltre a don Evaldo altri preti erano a conoscenza delle strane movimentazioni effettuate per favorire il costruttore. Afferma il sacerdote: «Sui depositi della Congregazione, intestati a me perché rivesto la carica di economo, sono autorizzati ad operare don Giuseppe Montenegro quale rappresentante legale e don Nicola Giampaolo, direttore di Primavera missionaria che ha sede ad Albano Laziale» cioè dove si trova anche la Congregazione.
Fonte: corriere.it
Il superteste racconta: portavo il costruttore dal cerimoniere del Papa
Appartamenti trasformati in dimore di lusso grazie alle ristrutturazioni compiute dalle imprese di Diego Anemone. A beneficiarne erano «politici e prelati», così come ha raccontato Laid Ben Hidri Fathi, l'autista di Angelo Balducci, che del costruttore era diventato collaboratore. Di fronte ai magistrati di Perugia l’uomo ha cominciato a fornire dettagli e identità.
E ha svelato: «Ero io ad accompagnare Diego agli incontri con queste persone. Ricordo in particolare che era in rapporti con monsignor Francesco Camaldo». Si tratta del cerimoniere del Papa, per quindici anni segretario particolare del vicario di Roma cardinal Ugo Poletti. I legami con il Vaticano sono uno dei filoni principali dell'indagine sugli appalti dei Grandi eventi, soprattutto dopo la scoperta che una delle «casseforti» dell'imprenditore era gestita da don Evaldo Biasini, 83 anni. Ma anche perché alcune compravendite di case passavano proprio da enti religiosi come «Propaganda Fide», di cui Balducci era consigliere. Dimore che sarebbero state acquistate seguendo la procedura già scoperta nel caso del ministro Claudio Scajola. L'attenzione della Guardia di finanza si concentra su 15 operazioni sospette: trasferimenti di denaro dai conti di Anemone a quelli dei suoi prestanome — in particolare il geometra Zampolini e la segretaria Alida Lucci — e poi trasformati in assegni circolari da versare al momento del rogito.
Gli incontri
Il testimone—che aveva ricevuto il compito di gestire una serie di conti correnti di Anemone e per questo aveva ottenuto anche la delega ai prelevamenti per contanti—non fornisce dettagli sui contenuti dei colloqui. Ma è preciso nel riferire in quali occasioni portò Anemone da monsignor Camaldo. Sinora l’inchiesta aveva fatto emergere una buona conoscenza tra il prelato e Balducci. Tanto che quando il provveditore è stato arrestato, monsignor Camaldo ha commentato: «Sono molto addolorato, è una persona di assoluta limpidezza morale, conosciuta e stimata in Vaticano da tanti anni, sono certo che dimostrerà la sua completa estraneità alle accuse». Adesso si intravede una rete più ampia. Anche perché nel 2008 lo stesso prelato finì nell'inchiesta avviata dal pm Henry John Woodcock su Vittorio Emanuele di Savoia, sospettato di complicità con alcuni faccendieri inseriti nella massoneria. Per quale motivo incontrava Anemone? Tra gli interessi comuni c'erano soltanto acquisiti e ristrutturazioni di appartamenti, come racconta Hidri Fathi? È presumibile che monsignor Camaldo venga ascoltato dai magistrati di Perugia quando saranno terminati gli accertamenti sulle 15 operazioni sospette emerse nell'indagine.
Rogiti e assegni
Nell'elenco delle persone da interrogare c'è anche il notaio Gianluca Napoleone che ha stipulato tutti i rogiti delle operazioni immobiliari gestite dall'architetto Angelo Zampolini. E sono proprio quelle «anomale» movimentazioni di denaro scoperte sui suoi conti presso la Deutsche Bank e su quelli della Lucci a celare — secondo i pubblici ministeri Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi— l'acquisto di case che Anemone avrebbe poi intestato ai politici, ai funzionari statali e a quei religiosi che lo avrebbero agevolato nella concessione degli appalti pubblici, ma anche nei lavori di ristrutturazione di interi stabili. Per questo, oltre alle verifiche effettuate presso istituti di credito e banche dati finanziarie, l'interesse degli investigatori si concentra sulle mappe catastali per rintracciare eventuali cambi di destinazione d’uso e verificare i proprietari degli appartamenti che spesso risultano intestati a società.
I sacerdoti
In questo vorticoso giro di case si inseriscono gli affari gestiti da Balducci e Anemone attraverso «Propaganda Fide» e soprattutto la Congregazione del preziosissimo sangue di cui era economo don Evaldo Biasini, che nella sua cassaforte conservava contanti messi a disposizione del costruttore in caso di emergenza. Il sacerdote, missionario in Africa, ha poi raccontato di aver messo a disposizione del costruttore i conti dell'Ente, di fatto utilizzati per depositare assegni e prelevare contanti.
Leggendo il verbale della perquisizione nella sede dell'Istituto dai Ros, si scopre che oltre a don Evaldo altri preti erano a conoscenza delle strane movimentazioni effettuate per favorire il costruttore. Afferma il sacerdote: «Sui depositi della Congregazione, intestati a me perché rivesto la carica di economo, sono autorizzati ad operare don Giuseppe Montenegro quale rappresentante legale e don Nicola Giampaolo, direttore di Primavera missionaria che ha sede ad Albano Laziale» cioè dove si trova anche la Congregazione.
Fonte: corriere.it
10 mar 2009
Roma, sacerdote con trans: multato
Il religioso, un americano di 35 anni, trovato dalla polizia nel quartiere Aurelio. I due erano dentro un'auto
ROMA - Un sacerdote americano di 35 anni è stato sorpreso con un transessuale in una strada in periferia di Roma, nel quartiere Aurelio, ed è stato multato per atti osceni in base a quanto previsto dall'ordinanza anti prostituzione della capitale che prevede sanzioni anche per i clienti. Il religioso, arrivato nella capitale da qualche giorno per partecipare a un convegno, è stato sorpreso dagli agenti la notte tra sabato e domenica in una zona isolata mentre era in compagnia del trans dentro un'auto.
Fonte: corriere.it
ROMA - Un sacerdote americano di 35 anni è stato sorpreso con un transessuale in una strada in periferia di Roma, nel quartiere Aurelio, ed è stato multato per atti osceni in base a quanto previsto dall'ordinanza anti prostituzione della capitale che prevede sanzioni anche per i clienti. Il religioso, arrivato nella capitale da qualche giorno per partecipare a un convegno, è stato sorpreso dagli agenti la notte tra sabato e domenica in una zona isolata mentre era in compagnia del trans dentro un'auto.
Fonte: corriere.it
30 dic 2008
La «guerra a colpi di figli». Duello tra l’ex pm e il Cavaliere. Bossi e la «trota». Quella volta di Veltroni e Casini..
Renzo, Elio, Piersilvio
ROMA — Belli, i figli. Preziosi. Adorabili. Anche se poi te li ritrovi con il pizzetto che gli esalta il doppiomento (tipo Cristiano Di Pietro, per capirci). No, davvero, tutto questo non importa. Perché i figli sono loro che diventano te. Sono loro che ti prendono il cognome e pure il nome. Sono le stesse tue smorfie, le stesse labbra, lo stesso modo di gesticolare. Pazzesco. Meraviglioso. Sono pezzi dell’animo. Del cuore. Del tuo cuore. Ma a un patto. Sì, a pensarci bene, a un patto. Quello di non finire, per colpa loro, sulle prime pagine dei giornali. Perché se ci finiscono, il papà è costretto poi a parlare come Geppetto: il mio Pinocchio, giuro, è proprio un bravo bambino. Diciamoci la verità: tra le tante appetibili (finché sarà possibile pubblicarle), l’intercettazione più interessante — e se mai ce ne dovesse essere una, dovrebbe essere ambientale — è quella relativa all’ultimo dialogo tra Antonio Di Pietro e suo figlio.
Cosa avrà detto il duro e incorruttibile Tonino al figlio che, come abbiamo letto, chiedeva cortesie per i suoi stimabili amici? Ieri, sull’Unità, a pagine 3, nella rubrica dove si fa chiamare in modo piuttosto eloquente «Zorro», Marco Travaglio sottolineava come appunto «il Giornale berluscomico dedichi mezza dozzine di pagine al giorno allo sciagurato figlio di Di Pietro, beccato a raccomandare amici a un dirigente dei Lavori pubblici poi trasferito dal padre... », con lo stesso impegno con cui, nel luglio del 2004, sorvolava invece sulla vicenda che coinvolse Marina e Piersilvio Berlusconi, «indagati col padre a Milano non per qualche raccomandazione, ma per ricettazione e riciclaggio nell’inchiesta sulla compravendita di diritti cinematografici in America tramite società off-shore (poi la loro posizione fu archiviata, ndr). Mario Cervi, sul Giornale, implorò i giudici: "Ci si rivolga al Cavaliere. Marina e Piersilvio, dirigenti di fresca età, non c’entrano...». Che poi, a pensarci, polemiche a parte, il punto era e resta in fondo questo: i figli quanto c’entrano? A volte, e questo uno come Umberto Bossi può testimoniarlo, i figlioli vengono usati. Per dire: due anni fa, il ventottenne Riccardo, primogenito del Senatur e della sua prima moglie Gigliola Guidali, espresse il desiderio di partecipare al reality-show «L’isola dei famosi » (contattato dalla Simo, lui s’era visto subito celebre naufrago ai Caraibi: antesignano di Luxuria e del bidello piangente Capponi). I ranghi della Lega insorsero però indignati, i colonnelli della Padania (Maroni, Calderoli etc) si dissero allibiti, buona parte della politica italiana avviò, sulla notizia, un banchetto memorabile.
Quasi quanto quello — in effetti però più simile a un tormentone —che ormai da mesi coinvolge anche l’altro figlio di Bossi, il Renzo, detto Renzino, vent’anni, nato dalle seconde nozze del Senatur con Manuela Marrone. Il Renzino che fa? Non riesce a conquistare la maturità. Niente. Tre volte, l’ha ripetuta (grazie anche a un ricorso al Tar), e tre volte l’han bocciato. La reazione del padre potete immaginarla. Un mugugno e una frase, divenuta ormai cult, rivolta al figlio che, sui giornali, qualche cronista generoso già definiva delfino. «Altro che delfino... tu, per me, sei piuttosto una trota...» (impossibile la traduzione dal celtico, ndr). Naturalmente non è poi mica sempre così che va: i genitori non perdono sempre la pazienza. A volte, infatti, sono fortunati. Esempio? Il ministro Ignazio La Russa. Che ha un figlio come Geronimo, avvocato, le idee chiare: «Uno con il mio cognome deve stare attento due volte. Perché da te si aspettano sempre il meglio. E perché se sbagli, danneggi tuo padre». Sante parole. Da invidiare. Prendete Pier Ferdinando Casini. Due anni fa, a passeggio nell’elegante Cortina, si sfogò con Chi: «Ahimè... mia figlia ama un comunista ». Lei, Benedetta. Lui, David. Casini: «Purtroppo questo David non lo vedrò mai leggere Libero...». Toni non affettuosi, ma indulgenti. I papà fanno i papà. Mai, comunque, come Clemente Mastella. Che di figli finiti sui giornali ne ha due: Elio, che — ricorderete — difende la villa di famiglia a Ceppaloni dall’assalto della troupe delle Iene, e Pellegrino.
Di quest’ultimo dette notizia Il Sole 24 ore: Pellegrino Mastella, 31 anni, figlio di Clemente (all’epoca ancora ministro di Grazia e Giustizia) e di Sandra Lonardo (all’epoca ancora presidente del Consiglio regionale della Campania) è stato ingaggiato dal ministero dello Sviluppo (alla cui guida c’era Pier Luigi Bersani, con Clemente compagno di banco a Palazzo Chigi) come consulente. Nel dettaglio, «l’incarico è quello di approfondire le specificità dei modelli anglosassoni e...». Commento— indignato — di papà Clemente: «Mio figlio è avvocato, quel contratto è regolare e poi, diciamolo, mio figlio se lo merita proprio...». Sul genere di merito, ha qualche perplessità Omar Calabrese, docente di semiotica all’università di Siena: «Questa è una stagione in cui, al ragionamento politico, prevale il buon senso di massa. E perciò l’idea che il potere possa essere usato non per ottenere il bene comune, ma solo il bene dei figli, può certamente deformare gravemente l’immagine di qualsiasi politico». Non casualmente, mentre Walter Veltroni spiega subito che i modesti 60 metri quadrati di casa a Manhattan destinati a Martina, la sua primogenita ventenne e talentuosa figliola appassionata di cinema, sono stati acquistati «grazie ai diritti d’autore del romanzo "La scoperta dell’alba"».
Fonte: corriere.it
ROMA — Belli, i figli. Preziosi. Adorabili. Anche se poi te li ritrovi con il pizzetto che gli esalta il doppiomento (tipo Cristiano Di Pietro, per capirci). No, davvero, tutto questo non importa. Perché i figli sono loro che diventano te. Sono loro che ti prendono il cognome e pure il nome. Sono le stesse tue smorfie, le stesse labbra, lo stesso modo di gesticolare. Pazzesco. Meraviglioso. Sono pezzi dell’animo. Del cuore. Del tuo cuore. Ma a un patto. Sì, a pensarci bene, a un patto. Quello di non finire, per colpa loro, sulle prime pagine dei giornali. Perché se ci finiscono, il papà è costretto poi a parlare come Geppetto: il mio Pinocchio, giuro, è proprio un bravo bambino. Diciamoci la verità: tra le tante appetibili (finché sarà possibile pubblicarle), l’intercettazione più interessante — e se mai ce ne dovesse essere una, dovrebbe essere ambientale — è quella relativa all’ultimo dialogo tra Antonio Di Pietro e suo figlio.
Cosa avrà detto il duro e incorruttibile Tonino al figlio che, come abbiamo letto, chiedeva cortesie per i suoi stimabili amici? Ieri, sull’Unità, a pagine 3, nella rubrica dove si fa chiamare in modo piuttosto eloquente «Zorro», Marco Travaglio sottolineava come appunto «il Giornale berluscomico dedichi mezza dozzine di pagine al giorno allo sciagurato figlio di Di Pietro, beccato a raccomandare amici a un dirigente dei Lavori pubblici poi trasferito dal padre... », con lo stesso impegno con cui, nel luglio del 2004, sorvolava invece sulla vicenda che coinvolse Marina e Piersilvio Berlusconi, «indagati col padre a Milano non per qualche raccomandazione, ma per ricettazione e riciclaggio nell’inchiesta sulla compravendita di diritti cinematografici in America tramite società off-shore (poi la loro posizione fu archiviata, ndr). Mario Cervi, sul Giornale, implorò i giudici: "Ci si rivolga al Cavaliere. Marina e Piersilvio, dirigenti di fresca età, non c’entrano...». Che poi, a pensarci, polemiche a parte, il punto era e resta in fondo questo: i figli quanto c’entrano? A volte, e questo uno come Umberto Bossi può testimoniarlo, i figlioli vengono usati. Per dire: due anni fa, il ventottenne Riccardo, primogenito del Senatur e della sua prima moglie Gigliola Guidali, espresse il desiderio di partecipare al reality-show «L’isola dei famosi » (contattato dalla Simo, lui s’era visto subito celebre naufrago ai Caraibi: antesignano di Luxuria e del bidello piangente Capponi). I ranghi della Lega insorsero però indignati, i colonnelli della Padania (Maroni, Calderoli etc) si dissero allibiti, buona parte della politica italiana avviò, sulla notizia, un banchetto memorabile.
Quasi quanto quello — in effetti però più simile a un tormentone —che ormai da mesi coinvolge anche l’altro figlio di Bossi, il Renzo, detto Renzino, vent’anni, nato dalle seconde nozze del Senatur con Manuela Marrone. Il Renzino che fa? Non riesce a conquistare la maturità. Niente. Tre volte, l’ha ripetuta (grazie anche a un ricorso al Tar), e tre volte l’han bocciato. La reazione del padre potete immaginarla. Un mugugno e una frase, divenuta ormai cult, rivolta al figlio che, sui giornali, qualche cronista generoso già definiva delfino. «Altro che delfino... tu, per me, sei piuttosto una trota...» (impossibile la traduzione dal celtico, ndr). Naturalmente non è poi mica sempre così che va: i genitori non perdono sempre la pazienza. A volte, infatti, sono fortunati. Esempio? Il ministro Ignazio La Russa. Che ha un figlio come Geronimo, avvocato, le idee chiare: «Uno con il mio cognome deve stare attento due volte. Perché da te si aspettano sempre il meglio. E perché se sbagli, danneggi tuo padre». Sante parole. Da invidiare. Prendete Pier Ferdinando Casini. Due anni fa, a passeggio nell’elegante Cortina, si sfogò con Chi: «Ahimè... mia figlia ama un comunista ». Lei, Benedetta. Lui, David. Casini: «Purtroppo questo David non lo vedrò mai leggere Libero...». Toni non affettuosi, ma indulgenti. I papà fanno i papà. Mai, comunque, come Clemente Mastella. Che di figli finiti sui giornali ne ha due: Elio, che — ricorderete — difende la villa di famiglia a Ceppaloni dall’assalto della troupe delle Iene, e Pellegrino.
Di quest’ultimo dette notizia Il Sole 24 ore: Pellegrino Mastella, 31 anni, figlio di Clemente (all’epoca ancora ministro di Grazia e Giustizia) e di Sandra Lonardo (all’epoca ancora presidente del Consiglio regionale della Campania) è stato ingaggiato dal ministero dello Sviluppo (alla cui guida c’era Pier Luigi Bersani, con Clemente compagno di banco a Palazzo Chigi) come consulente. Nel dettaglio, «l’incarico è quello di approfondire le specificità dei modelli anglosassoni e...». Commento— indignato — di papà Clemente: «Mio figlio è avvocato, quel contratto è regolare e poi, diciamolo, mio figlio se lo merita proprio...». Sul genere di merito, ha qualche perplessità Omar Calabrese, docente di semiotica all’università di Siena: «Questa è una stagione in cui, al ragionamento politico, prevale il buon senso di massa. E perciò l’idea che il potere possa essere usato non per ottenere il bene comune, ma solo il bene dei figli, può certamente deformare gravemente l’immagine di qualsiasi politico». Non casualmente, mentre Walter Veltroni spiega subito che i modesti 60 metri quadrati di casa a Manhattan destinati a Martina, la sua primogenita ventenne e talentuosa figliola appassionata di cinema, sono stati acquistati «grazie ai diritti d’autore del romanzo "La scoperta dell’alba"».
Fonte: corriere.it
3 dic 2008
La Megaparentopoli di Seregno
Giù al Nord, cioè a Seregno, quarantamila abitanti nella Brianza ricca, grassa e piatta, la via della politica è lastricata di parenti. Di ogni grado e specie. Figlio e cognato, sorella e fratello. Chi al municipio e chi in una municipalizzata. Chi al partito e chi al cda. Un poltronismo familiare edificato e poi ancor meglio sviluppato sotto il governo della Lega.
La politica formato famiglia pone Seregno di diritto nella top ten delle città governate secondo lo jus sanguinis. "Chi non è di Seregno ritiene tutto molto incredibile", ammette il sindaco Giacinto Mariani. Anzitutto non si crede che il sindaco, questo sindaco, sia un leghista. Compito, molto moderato, molto benestante, Mariani guida una giunta di centrodestra che qui ha raccolto anche la forza residuale dell'Udc.
Da sole Forza Italia e Lega avrebbero potuto comandare e decidere. Ma, con un gesto compassionevole, hanno sospinto sul vagone dei desideri anche Alleanza Nazionale, falange compatta e piuttosto aggressiva, e gli amici-nemici dell'Udc.
Tutti insieme e piuttosto appassionatamente.
Si è deciso, come succede un po' dappertutto, di mettere ordine nelle società pubbliche che erogano servizi e gestiscono, in ragione della mission, quattrini. Seregno insieme ad altre quattro città brianzole (Desio, Lissone, Cesano Maderno e Seveso) ha promosso la costituzione del gruppo Gelsia, una holding che aggrega alcune società di servizi pubblici locali che oggi è una delle prime multiutility in Lombardia per fatturato e clienti serviti. Gas, energia, raccolta e trasferimento dei rifiuti. "Fare sistema" lo slogan.
Hanno fatto sistema, specialmente a Seregno, soprattutto i propri cari. La figlia del vicesindaco è consigliera di amministrazione della holding; il cognato di un assessore è consigliere di una società partecipata (la Aeb); poltrona al fratello di un altro assessore (di An), poltrona alla sorella del capogruppo in consiglio comunale di Forza Italia. In un'altra società di scopo (energia, calore, trading) si è trovato posto per la sorella di un consigliere comunale (Forza Italia). Il segretario della Lega ha ottenuto di sedere nel consiglio di amministrazione di una figlietta magra della holding (Gelsia Reti); quello dell'Udc ha ottenuto quanto gli spettava (consigliere di amministrazione) in un'altra Spa, Gelsia Calore.
Costernato il sindaco: "Lo statuto ci impone di raccogliere le indicazioni provenienti da singoli consiglieri comunali, da gruppi politici, o da associazioni che raccolgano la proposta di almeno cinquanta cittadini. La politica si fida di chi conosce".
La politica conosce, tra gli altri, fratelli e sorelle, cognate e cognate, figli e figlie. A bocca asciutta, secondo l'ultima proiezione, i nipoti e le cugine. Nemmeno si segnalano amanti, e neanche papà e mamme chiamate al fronte, il fronte del fare. "La mia amministrazione ha gestito la razionalizzazione dei servizi, garantito occupazione ad oltre quattrocento persone, risolto problemi che i governi di centrosinistra avevano lasciato marcire. Questo non si dice. E non si dice che solo tre delle trenta nomine decise sono imputabili a me, che alcune di esse sono conferme di scelte della giunta precedente. E nemmeno si ricorda che il partito democratico, pur di polemizzare, ha evitato di segnalarci persone, di fornire proposte. Cosicché abbiamo dovuto fare da soli".
Il sindaco parla piano, sereno, per nulla scandalizzato. Espone e registra: tutto perfettamente a regola d'arte. Non si può dargli torto: ogni cosa è sistemata bene, ogni puntino è a norma di legge.
E qui si ritorna al punto di partenza, alla tesi, veramente innovativa, del comprensivo sindaco Seregn, come dicono i lumbard: chi meglio di un fratello? Chi è più fidata di una sorella? "Lo statuto parla chiaro e io sono obbligato a rispettarlo".
Obbligato lui e il resto della truppa. Obbligati e anche trasparenti. Perché c'è da dire che il sito web del comune fornisce nel dettaglio nomi e cognomi, indennità (trentamila euro all'anno se si presiede; diciottomila se si è nel consiglio) e funzioni. Sorvola sul resto.
Ma succede ovunque. Saluti da Seregno, che si trova giù al nord Italia.
Fonte: repubblica.it
La politica formato famiglia pone Seregno di diritto nella top ten delle città governate secondo lo jus sanguinis. "Chi non è di Seregno ritiene tutto molto incredibile", ammette il sindaco Giacinto Mariani. Anzitutto non si crede che il sindaco, questo sindaco, sia un leghista. Compito, molto moderato, molto benestante, Mariani guida una giunta di centrodestra che qui ha raccolto anche la forza residuale dell'Udc.
Da sole Forza Italia e Lega avrebbero potuto comandare e decidere. Ma, con un gesto compassionevole, hanno sospinto sul vagone dei desideri anche Alleanza Nazionale, falange compatta e piuttosto aggressiva, e gli amici-nemici dell'Udc.
Tutti insieme e piuttosto appassionatamente.
Si è deciso, come succede un po' dappertutto, di mettere ordine nelle società pubbliche che erogano servizi e gestiscono, in ragione della mission, quattrini. Seregno insieme ad altre quattro città brianzole (Desio, Lissone, Cesano Maderno e Seveso) ha promosso la costituzione del gruppo Gelsia, una holding che aggrega alcune società di servizi pubblici locali che oggi è una delle prime multiutility in Lombardia per fatturato e clienti serviti. Gas, energia, raccolta e trasferimento dei rifiuti. "Fare sistema" lo slogan.
Hanno fatto sistema, specialmente a Seregno, soprattutto i propri cari. La figlia del vicesindaco è consigliera di amministrazione della holding; il cognato di un assessore è consigliere di una società partecipata (la Aeb); poltrona al fratello di un altro assessore (di An), poltrona alla sorella del capogruppo in consiglio comunale di Forza Italia. In un'altra società di scopo (energia, calore, trading) si è trovato posto per la sorella di un consigliere comunale (Forza Italia). Il segretario della Lega ha ottenuto di sedere nel consiglio di amministrazione di una figlietta magra della holding (Gelsia Reti); quello dell'Udc ha ottenuto quanto gli spettava (consigliere di amministrazione) in un'altra Spa, Gelsia Calore.
Costernato il sindaco: "Lo statuto ci impone di raccogliere le indicazioni provenienti da singoli consiglieri comunali, da gruppi politici, o da associazioni che raccolgano la proposta di almeno cinquanta cittadini. La politica si fida di chi conosce".
La politica conosce, tra gli altri, fratelli e sorelle, cognate e cognate, figli e figlie. A bocca asciutta, secondo l'ultima proiezione, i nipoti e le cugine. Nemmeno si segnalano amanti, e neanche papà e mamme chiamate al fronte, il fronte del fare. "La mia amministrazione ha gestito la razionalizzazione dei servizi, garantito occupazione ad oltre quattrocento persone, risolto problemi che i governi di centrosinistra avevano lasciato marcire. Questo non si dice. E non si dice che solo tre delle trenta nomine decise sono imputabili a me, che alcune di esse sono conferme di scelte della giunta precedente. E nemmeno si ricorda che il partito democratico, pur di polemizzare, ha evitato di segnalarci persone, di fornire proposte. Cosicché abbiamo dovuto fare da soli".
Il sindaco parla piano, sereno, per nulla scandalizzato. Espone e registra: tutto perfettamente a regola d'arte. Non si può dargli torto: ogni cosa è sistemata bene, ogni puntino è a norma di legge.
E qui si ritorna al punto di partenza, alla tesi, veramente innovativa, del comprensivo sindaco Seregn, come dicono i lumbard: chi meglio di un fratello? Chi è più fidata di una sorella? "Lo statuto parla chiaro e io sono obbligato a rispettarlo".
Obbligato lui e il resto della truppa. Obbligati e anche trasparenti. Perché c'è da dire che il sito web del comune fornisce nel dettaglio nomi e cognomi, indennità (trentamila euro all'anno se si presiede; diciottomila se si è nel consiglio) e funzioni. Sorvola sul resto.
Ma succede ovunque. Saluti da Seregno, che si trova giù al nord Italia.
Fonte: repubblica.it
28 mar 2008
Tutti i nomi della lista Vaduz. I 390 nominativi sono stati resi noti ieri. Ecco l'elenco degli evasori.
La lista italiana del Liechtenstein è pubblica.
Le 157 posizioni, a cui corrispondono 390 nominativi e un ammontare complessivo di 1,3 miliardi (1.337.250.000) sono stati resi noti ieri.
Sono poi in consegna alle 37 Procure gli atti inviati dalla magistratura romana per competenza territoriale. Il reato ipotizzato è omessa e infedele denuncia dei redditi: ma il rischio-prescrizione è concreto, trattandosi di fatti risalenti a un'epoca che finisce nel 2002 e questi reati decadono in sette anni e mezzo.
Tra le novità dei nomi, spunta una scrittrice: Adriana Cartotti Oddasso, cifra in conto corrente pari a 34 milioni, considerata una studiosa di Santa Caterina da Siena e indicata come professoressa e scrittrice con proprietà immobiliari a Monaco.
Tra i titolari di conti più ricchi la famiglia Bax (20 milioni), Ryan (15 milioni) e gli industriali Pichler (35 milioni). Ci sono anche gli imprenditori Amenduni (15,5 milioni) e un gruppo familiare che fa capo all'ex direttore sportivo della Ferrari Marco Piccinini (60 milioni), la famiglia Groppo (13 milioni), Garbagnati (15 milioni), Alessandra ed Enrico Marcora (20 milioni).
Con importi pari a 200 milioni ci sono i conti che fanno riferimento al gruppo farmaceutico Mian, mentre quelli del gruppo Menarini ammonterebbero a 476 milioni.
In lista anche gli industriali Manini, l'azienda di cancelli automatici Faac spa, che sarebbero titolari di conti per 18 milioni. I titolari del Gruppo Pessina (costruzioni) sono indicati con conti per 32 milioni e il fiscalista Gianpaolo Corabi con 15 milioni.
La cantante Milva (7,5 milioni) è in lista con la figlia Martina Corgnati e la sorella Luciana. Vanno segnalati anche Carlo Mazzi, indicato come medico di Milano, 5 milioni; Eugenio Cremascoli, coinvolto in indagini sulla sanità a Milano, 3 milioni; gli imprenditori Romano Freddi (settore alimentazione), 8 milioni; Enrico Barbieri (pellicceria), 9 milioni e 300 mila euro; Giorgio Rocco (revisore contabile di società, Milano), 3 milioni; Franco Giovanni Niggeler (settore della nautica), 9 milioni.
Confermati anche i nomi già usciti: come Mario D'Urso, con 250mila euro, indicato come «politico con residenza in Gran Bretagna»; Tommaso Addario e la moglie (650mila), la stilista romana Simonetta Colonna (2 milioni) con il figlio fotografo; Pasquale De Vita (1 milione), presidente dell'Unione petrolifera, gli imprenditori Zanussi, il conte Pietro Arvedi D'Emili, Enrico Giuliano (5 milioni e 500 mila) del Partito italiani nel mondo, esponenti delle famiglie Sama e Ferruzzi (5 milioni 250mila); Francesco, Vito e Luca Bonsignore (5 milioni 600mila), Luigi Grillo (650 mila).
In realtà l'aspetto cruciale di tutta la vicenda si gioca nei prossimi giorni, perché c'è il pericolo che tutto finisca in una bolla di sapone e non solo per il rischio di prescrizione. Tra gli inquirenti, infatti, c'è il forte timore che le rogatorie che vanno inviate in Liechtenstein, per acquisire la documentazione in modo ufficiale e non irrituale rimangano lettera morta se i reati ipotizzati saranno quelli di omessa o infedele dichiarazione.
A Vaduz, insomma, solo in presenza di ipotesi di reato ben più gravi potrebbe esserci una risposta positiva alle richieste italiane. In questo senso un ruolo strategico potrebbe essere giocato dalla Procura di Palermo e dalla Direzione nazionale antimafia che, ognuna per conto suo, stanno verificando altre ipotesi, come il riciclaggio e in generale i profili di criminalità organizzata di stampo mafioso. La Dda di Palermo ha acquisito già la settimana prima di Pasqua, con un provvedimento firmato dal procuratore Francesco Messineo, l'elenco dei 400 nomi. L'ipotesi di reato su cui indagano il procuratore aggiunto Roberto Scarpinato e il sostituto Antonio Ingroia è quella di riciclaggio. La procura siciliana, che ha delegato il Nucleo di polizia tributaria di Palermo della Guardia di finanza, sta seguendo tracce di soldi che sarebbero appartenuti all'ex sindaco Vito Ciancimino e che potrebbero essere confluiti proprio in Liechtenstein.
SCARICA L'ELENCO
Fonte: ilsole24ore.com
Le 157 posizioni, a cui corrispondono 390 nominativi e un ammontare complessivo di 1,3 miliardi (1.337.250.000) sono stati resi noti ieri.
Sono poi in consegna alle 37 Procure gli atti inviati dalla magistratura romana per competenza territoriale. Il reato ipotizzato è omessa e infedele denuncia dei redditi: ma il rischio-prescrizione è concreto, trattandosi di fatti risalenti a un'epoca che finisce nel 2002 e questi reati decadono in sette anni e mezzo.
Tra le novità dei nomi, spunta una scrittrice: Adriana Cartotti Oddasso, cifra in conto corrente pari a 34 milioni, considerata una studiosa di Santa Caterina da Siena e indicata come professoressa e scrittrice con proprietà immobiliari a Monaco.
Tra i titolari di conti più ricchi la famiglia Bax (20 milioni), Ryan (15 milioni) e gli industriali Pichler (35 milioni). Ci sono anche gli imprenditori Amenduni (15,5 milioni) e un gruppo familiare che fa capo all'ex direttore sportivo della Ferrari Marco Piccinini (60 milioni), la famiglia Groppo (13 milioni), Garbagnati (15 milioni), Alessandra ed Enrico Marcora (20 milioni).
Con importi pari a 200 milioni ci sono i conti che fanno riferimento al gruppo farmaceutico Mian, mentre quelli del gruppo Menarini ammonterebbero a 476 milioni.
In lista anche gli industriali Manini, l'azienda di cancelli automatici Faac spa, che sarebbero titolari di conti per 18 milioni. I titolari del Gruppo Pessina (costruzioni) sono indicati con conti per 32 milioni e il fiscalista Gianpaolo Corabi con 15 milioni.
La cantante Milva (7,5 milioni) è in lista con la figlia Martina Corgnati e la sorella Luciana. Vanno segnalati anche Carlo Mazzi, indicato come medico di Milano, 5 milioni; Eugenio Cremascoli, coinvolto in indagini sulla sanità a Milano, 3 milioni; gli imprenditori Romano Freddi (settore alimentazione), 8 milioni; Enrico Barbieri (pellicceria), 9 milioni e 300 mila euro; Giorgio Rocco (revisore contabile di società, Milano), 3 milioni; Franco Giovanni Niggeler (settore della nautica), 9 milioni.
Confermati anche i nomi già usciti: come Mario D'Urso, con 250mila euro, indicato come «politico con residenza in Gran Bretagna»; Tommaso Addario e la moglie (650mila), la stilista romana Simonetta Colonna (2 milioni) con il figlio fotografo; Pasquale De Vita (1 milione), presidente dell'Unione petrolifera, gli imprenditori Zanussi, il conte Pietro Arvedi D'Emili, Enrico Giuliano (5 milioni e 500 mila) del Partito italiani nel mondo, esponenti delle famiglie Sama e Ferruzzi (5 milioni 250mila); Francesco, Vito e Luca Bonsignore (5 milioni 600mila), Luigi Grillo (650 mila).
In realtà l'aspetto cruciale di tutta la vicenda si gioca nei prossimi giorni, perché c'è il pericolo che tutto finisca in una bolla di sapone e non solo per il rischio di prescrizione. Tra gli inquirenti, infatti, c'è il forte timore che le rogatorie che vanno inviate in Liechtenstein, per acquisire la documentazione in modo ufficiale e non irrituale rimangano lettera morta se i reati ipotizzati saranno quelli di omessa o infedele dichiarazione.
A Vaduz, insomma, solo in presenza di ipotesi di reato ben più gravi potrebbe esserci una risposta positiva alle richieste italiane. In questo senso un ruolo strategico potrebbe essere giocato dalla Procura di Palermo e dalla Direzione nazionale antimafia che, ognuna per conto suo, stanno verificando altre ipotesi, come il riciclaggio e in generale i profili di criminalità organizzata di stampo mafioso. La Dda di Palermo ha acquisito già la settimana prima di Pasqua, con un provvedimento firmato dal procuratore Francesco Messineo, l'elenco dei 400 nomi. L'ipotesi di reato su cui indagano il procuratore aggiunto Roberto Scarpinato e il sostituto Antonio Ingroia è quella di riciclaggio. La procura siciliana, che ha delegato il Nucleo di polizia tributaria di Palermo della Guardia di finanza, sta seguendo tracce di soldi che sarebbero appartenuti all'ex sindaco Vito Ciancimino e che potrebbero essere confluiti proprio in Liechtenstein.
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Fonte: ilsole24ore.com
1 feb 2008
A Catania la festa di Sant'Agata è affare delle cosche
CATANIA - La festa di Sant'Agata controllata dalla mafia. Per sette anni, dal 1999 al 2005, Cosa Nostra catanese avrebbe dettato tempi e ritmi della processione religiosa, controllando di fatto il business dei fuochi d'artificio e della vendita della cera, influendo persino sulle fortune di venditori di torrone e palloncini attraverso il controllo della gestione dell'associazione cattolica Circolo Cittadino Sant'Agata, che svolge un ruolo determinante nell'organizzazione dei festeggiamenti in onore della patrona di Catania.
Secondo Carmelo Petralia, sostituto della direzione nazionale antimafia, ed Antonino Fanara, della procura distrettuale, le famiglie Santapaola e Mangion, sarebbero riuscite a "penetrare nella manifestazione di maggior valore simbolico per la comunità catanese, con conseguente accrescimento del prestigio criminale dell'organizzazione mafiosa ed affermazione della stessa come uno dei centri di potere della città".
L'avviso di conclusione delle indagini preliminari, notificato ieri ad Antonino e Francesco Santapaola, Enzo, Alfio, Vincenzo ed Agatino Mangion, e a Salvatore Copia, arriva come una bomba a Catania proprio a tre giorni dal clou della festa, la terza nel mondo per importanza religiosa e partecipazione di popolo, con un cerimoniale antico quanto prestigioso che culmina nel solenne Pontificale, quest'anno concelebrato dal cardinale Angelo Sodano.
Anche perché, tra gli indagati nell'inchiesta, oltre ai boss accusati di associazione mafiosa, figura anche Pietro Diolosà, 54 anni, presidente fino a tre anni fa del circolo cittadino Sant'Agata, l'associazione di "devoti" che ha un ruolo importantissimo nella realizzazione della festa. Anche grazie all'intervento di Diolosà, per il quale i magistrati ipotizzano il reato di concorso in associazione mafiosa, la mafia catanese sarebbe riuscita ad influire sulla tempistica della processione che, tra il 4 e il 5 febbraio richiama a Catania quasi un milione di persone, "controllando" l'orario stesso del rientro del fercolo in Cattedrale.
Particolare non da poco se si pensa che, con l'allungarsi a dismisura dei tempi della festa crescono proporzionalmente anche i ricavi. C'è poi una parte consistente dell'indagine che riguarda le scommesse per i fuochi d'artificio, i compensi e i benefit per i portatori delle candelore ( pesantissimi ceri di legno portati a spalla da sei o otto uomini) e persino flussi di denaro provenienti da un giro di scommesse clandestine collegate ai festeggiamenti.
Voci di popolo, queste, che si rincorrevano da anni e che ora sono materiale di indagine che riguarda una festa sempre più, negli ultimi anni, caratterizzata da polemiche e feroci divisioni. Come l'anno scorso, quando, a due giorni dalla morte dell'ispettore Filippo Raciti, la processione si tenne regolarmente, pur senza fuochi d'artificio e luminarie. O come, due anni prima, quando durante la corsa finale del fercolo morì un devoto travolto dalla folla.
Fonte: repubblica.it
Secondo Carmelo Petralia, sostituto della direzione nazionale antimafia, ed Antonino Fanara, della procura distrettuale, le famiglie Santapaola e Mangion, sarebbero riuscite a "penetrare nella manifestazione di maggior valore simbolico per la comunità catanese, con conseguente accrescimento del prestigio criminale dell'organizzazione mafiosa ed affermazione della stessa come uno dei centri di potere della città".
L'avviso di conclusione delle indagini preliminari, notificato ieri ad Antonino e Francesco Santapaola, Enzo, Alfio, Vincenzo ed Agatino Mangion, e a Salvatore Copia, arriva come una bomba a Catania proprio a tre giorni dal clou della festa, la terza nel mondo per importanza religiosa e partecipazione di popolo, con un cerimoniale antico quanto prestigioso che culmina nel solenne Pontificale, quest'anno concelebrato dal cardinale Angelo Sodano.
Anche perché, tra gli indagati nell'inchiesta, oltre ai boss accusati di associazione mafiosa, figura anche Pietro Diolosà, 54 anni, presidente fino a tre anni fa del circolo cittadino Sant'Agata, l'associazione di "devoti" che ha un ruolo importantissimo nella realizzazione della festa. Anche grazie all'intervento di Diolosà, per il quale i magistrati ipotizzano il reato di concorso in associazione mafiosa, la mafia catanese sarebbe riuscita ad influire sulla tempistica della processione che, tra il 4 e il 5 febbraio richiama a Catania quasi un milione di persone, "controllando" l'orario stesso del rientro del fercolo in Cattedrale.
Particolare non da poco se si pensa che, con l'allungarsi a dismisura dei tempi della festa crescono proporzionalmente anche i ricavi. C'è poi una parte consistente dell'indagine che riguarda le scommesse per i fuochi d'artificio, i compensi e i benefit per i portatori delle candelore ( pesantissimi ceri di legno portati a spalla da sei o otto uomini) e persino flussi di denaro provenienti da un giro di scommesse clandestine collegate ai festeggiamenti.
Voci di popolo, queste, che si rincorrevano da anni e che ora sono materiale di indagine che riguarda una festa sempre più, negli ultimi anni, caratterizzata da polemiche e feroci divisioni. Come l'anno scorso, quando, a due giorni dalla morte dell'ispettore Filippo Raciti, la processione si tenne regolarmente, pur senza fuochi d'artificio e luminarie. O come, due anni prima, quando durante la corsa finale del fercolo morì un devoto travolto dalla folla.
Fonte: repubblica.it
8 dic 2007
Lo scempio delle case popolari. Tra inquilini morosi, occupazioni abusive e gestioni clientelari.
C'è chi prende un martello e sfonda la porta, per occupare una casa popolare. C'è chi l'ha ereditata dai parenti, ci si trova benissimo e non si schioda di lì. E poi ci sono quelli che ne avrebbero veramente diritto e che invece restano fuori. Perché in Italia gli alloggi dell'edilizia residenziale pubblica non solo sono pochi, ma sono anche gestiti malissimo. E indebitati oltre l'immaginazione. Così la casa popolare è spesso un miraggio (sia per gli italiani che per gli immigrati che sempre più ne fanno richiesta) e una realtà miseramente fallimentare.
Abusivi e morosi Eppure il portafoglio di immobili in mano pubblica è vasto. Secondo gli ultimi dati Federcasa (la federazione degli ex Iacp, Istituti autonomi delle case popolari) supera ampiamente il milione e 100 mila unità: 928 mila alloggi gestiti dagli ex Iacp, e circa 200 mila direttamente dai comuni. Un patrimonio dislocato soprattutto nelle aree metropolitane: quasi la metà è situata nei principali capoluoghi, con in testa Milano, Roma, Napoli, Torino e Bari. Insomma, un vero tesoro per le finanze pubbliche, visto che secondo uno studio di Patrimonio dello Stato spa (società controllata dal ministero dell'Economia), il valore catastale si aggira sui 90 miliardi di euro. Cifra destinata ad aumentare se si prende come riferimento il valore reale, ossia quello di mercato: qui si arriva a 270 miliardi, ben tre volte tanto.
Ebbene, nonostante questi valori da capogiro, ogni anno le case popolari sono una perdita secca per la collettività. Basta prendere i dati Federcasa sui bilanci degli ex Iacp (che oggi hanno nomi diversi come Ater, Atc e Acer) per avere un'idea di quanto ci costano. Negli ultimi cinque anni, dal 2002 al 2006, hanno perso qualcosa come 938 milioni di euro. Emblematico il caso pugliese: dal 2000 tutti e cinque gli Ater provinciali sono commissariati, e quelli di Brindisi e Taranto in particolare sono in dissesto finanziario. Se allarghiamo lo spettro, non se la passano bene neanche quelli di Roma e Napoli, oberati dai debiti e sull'orlo del crack.
Cos'è che non va nel mattone popolare? A parte le accuse di gestione clientelare degli alloggi, c'è da dire che i ricavi di questi istituti sono scarsi rispetto a costi crescenti. Le entrate si fondano sui canoni, che sono per loro natura molto bassi. Basti pensare che secondo la Corte dei conti a Napoli si affitta una casa popolare in media a 42 euro al mese, 58 a Bari e 60 a Palermo. Quattro soldi, che spesso vengono versati solo in parte, oppure non pagati del tutto. È l'effetto del doppio fenomeno morosità-abusivismo. Sempre secondo Federcasa, negli ultimi cinque anni circa il 15 per cento degli inquilini non ha pagato l'affitto, per un danno che si aggira sui 110 milioni annui. Senza considerare poi gli alloggi totalmente fuori controllo, occupati abusivamente da chi ci entra sfondando la porta. Nel 2004 se ne contavano più di 40 mila in tutta Italia, concentrati soprattutto nelle grandi città. Un dato in diminuzione rispetto ai 52 mila del 2000, e ai 44 mila del 2003, ma non per merito dell'azione di contrasto degli istituti: il fatto è che molte Regioni hanno scelto la strada delle sanatorie. A Napoli, ad esempio, tre leggi regionali in successione hanno permesso a 7.357 abusivi (su un totale di 8.640) di diventare regolari. Lo stesso a Bari, dove grazie a una legge del 2004 circa 1.500 famiglie si sono regolarizzate pagando solo il 30 per cento della morosità pregressa. A ciò si aggiunge che spesso il recupero della case occupate è diventato quasi impossibile. Sempre a Napoli, e nel suo hinterland, interi palazzi popolari sono gestiti dalla camorra: succede alle Vele di Scampia, al rione Villa a Poggioreale e a diversi caseggiati di Ponticelli e Torre Annunziata.
Canoni bassi, morosità e abusivismo. A tutto questo si deve aggiungere che gli ex Iacp devono far fronte a spese importanti: i costi di manutenzione sempre in aumento (gli alloggi sono vecchi, in Italia non si costruiscono case popolari da più di 20 anni); gli stipendi dei 7.250 dipendenti (aumentati del 40 per cento negli ultimi cinque anni); infine le decine di milioni di euro che se ne vanno in tasse, Ici in testa. In totale quasi 200 milioni l'anno di buco, che a rigor di legge dovrebbero essere ripianati dalle Regioni, ma che invece restano sul groppone degli enti. "Voglio smentire il falso mito delle Regioni che coprono i buchi di bilancio", precisa Anna Maria Pozzo, direttore tecnico di Federcasa: "Avviene il contrario, spesso i governatori stornano i fondi per l'edilizia pubblica per destinarli ad altri capitoli di bilancio, come la sanità". Sta di fatto che, per coprire perdite e debiti, negli ultimi anni gli Ater hanno cominciato a vendere gli alloggi agli inquilini. Un palliativo: secondo la Corte dei conti, dal 1994 al 2003 sono state cedute circa 71 mila case, e con scarsi risultati. Gli 1,7 miliardi incamerati sono molto meno del previsto, anche perché la legge impone di vendere a prezzi di assoluto favore. Ovvero al valore catastale (a volte irrisorio), e per lo più scontato del 20 per cento.
Disastro Roma Con 2.800 famiglie romane ai vertici delle graduatorie, in perpetua attesa di una casa popolare, per molti versi la situazione romana rappresenta il peggio nel panorama degli Ater. Da una parte un debito orbitante intorno al miliardo di euro (che, aggravato da una morosità al 36 per cento, cresce di 100 euro al minuto). Dall'altro il caso della 'svendopoli', che ha visto il presidente della regione Pietro Marrazzo chiedere la sospensione delle vendite immobiliari in corso. Vendite che avevano portato a cedere appartamenti a Testaccio e San Saba (quartieri 'hot' della capitale) a costi irrisori. "Se non ci portassimo dietro il debito ereditato dal vecchio Iacp ce la caveremmo da soli", spiega Luca Petrucci, presidente dell'ente romano. Il problema, dice, è l'Ater in sé, che è diventato "di supporto a un ceto medio privilegiato, perché di veri poveri ce ne sono rimasti pochi, con tanti residenti di seconda e terza generazione". Per cui magari ci trovi a vivere "il nipote del vecchio assegnatario, direttore di banca, che con noi non c'entrerebbe niente", e non c'è invece "un patrimonio da dare ai più deboli".
Evidentemente non sono solo i conti a non quadrare, negli Ater. Come spiega Antonio Tosi, docente di sociologia urbana e politiche della casa al Politecnico di Milano, "si va spesso a coprire una fascia che avrà dei problemi, ma non i peggiori: si trascurano i redditi più bassi e la marginalità, mentre non si riesce a buttar fuori chi ha superato i limiti di reddito". Ereditarietà e abusivismo non sono che due facce della stessa medaglia.
Torino virtuosa Con circa 30 mila alloggi, l'Atc (l'Ater torinese) è il quarto in Italia per numero di appartamenti gestiti. L'edilizia pubblica a Torino, secondo la Pozzo, rappresenta "un esempio virtuoso". E per più di un aspetto. Innanzitutto il bilancio, che è in positivo. E poi un numero bassissimo di alloggi occupati abusivamente. Per far funzionare l'azienda (con un canone medio teorico che si è andato riducendo fino a 92 euro, e un 67 per cento di inquilini senza reddito) la ricetta di Ardito è quella della tolleranza zero verso gli irregolari. E questo a fronte di una morosità significativa, denunciata dalla Corte dei conti: "A Torino un inquilino su quattro non paga l'affitto". Per affrontare il problema nell'ultimo anno ci sono stati 6 mila controlli e 500 sfratti, mentre parte della morosità è rientrata grazie alla rateizzazione dei pagamenti. Alla tolleranza zero si aggiunge poi un'intensa operazione di marketing, che include l'affitto delle facciate per la pubblicità e dei tetti per i ripetitori, ma che vede soprattutto l'Atc impegnata nell'incentivare i comuni ad accedere ai bandi regionali: "Così poi le case gliele costruiamo noi. E più ne gestiamo, più i bilanci funzionano".
Il fronte immigrazione Un caso a parte nell'ambito dell'edilizia popolare è quello degli immigrati stranieri, che i più recenti rapporti Nomisma descrivono come in forte crescita, con oltre due milioni e mezzo di presenze nel 2006. Fenomeno che, se da un lato conta il 10 per cento delle compravendite nel mercato immobiliare 'normale' (con picchi vicini al 20 nelle periferie delle città del Nord), fa sentire la sua presenza nell'edilizia pubblica, con 73.761 alloggi nel 2004 (dati Federcasa) e una crescita del 36 per cento sul 2001. Federcasa li colloca al 4 per cento della popolazione complessiva (con netta prevalenza al Nord), compresa una minoranza di nomadi regolari.
Per farsene un'idea basti prendere il caso di Padova, dove su 2.735 alloggi dell'Ater, 196 (il 7,2 per cento) risultano in affitto a cittadini stranieri. Una crescita favorita altresì dai criteri di assegnazione, che oltre al reddito, alle condizioni abitative e agli handicap, "tengono conto del numero dei figli", spiega la Pozzo, "spingendoli così in testa alla graduatoria". Un rischio banlieue? Tosi tende a scartare questa possibilità: "I numeri italiani sono ben lontani da quelli francesi, e anche se fosse, il caso banlieue è il frutto del fallimento di politiche d'integrazione, non dell'edilizia pubblica". Frammentata, infine, è la modalità con cui un immigrato può vedersi assegnato un alloggio: se in regioni come l'Emilia Romagna le condizioni sono di parità con quelle degli italiani, in Umbria sono necessari ben tre anni di residenza regolare.
Non che per gli italiani le regole siano più lineari. I criteri adottati a livello regionale per aprire le porte dell'edilizia residenziale pubblica variano. E di molto. Su 16 regioni, i limiti di reddito dei bandi d'accesso fanno un bel salto dagli 11.465 euro della Sardegna ai 24.645 del Piemonte. E in generale restano mediamente fra i 13 e i 14 mila al Centro e al Sud, volando oltre i 16mila al Nord.
Non è l'unica disuguaglianza da considerare, se si tiene conto di chi un tetto sulla testa non ce l'ha. Una volta persi dati importanti come quelli della residenza, e in assenza di una pensione, i senza dimora restano spesso tagliati fuori, come spiega l'associazione Avvocato di Strada.
L'Europa è lontana Quale futuro allora per l'edilizia popolare? L'unica cosa certa è la sua indispensabilità, soprattutto considerando che la richiesta di alloggi è molto più alta dell'offerta disponibile. Secondo l'indagine Anci-Cresme 2005, solo il 7,9 per cento delle domande viene soddisfatta. Per ovviare a questa frattura, gli Ater hanno messo in cantiere un piano pluriennale di nuovi investimenti: entro il 2012 dovrebbero essere pronti 28 mila alloggi, fra nuove costruzioni e immobili recuperati. La portata del progetto sembra francamente un po' ottimistica se si considerano le scarse risorse e i tanti debiti cui devono far fronte.
Del resto, anche vendere vecchi immobili per comprarne nuovi non risolve il problema: per la Corte dei conti "il rapporto è di 3 a 1", chiaramente a svantaggio degli istituti. Anche per questo la Pozzo chiede al governo "un fondo assistenziale che si faccia carico della funzione sociale degli ex Iacp". A parte l'intervento statale, si stanno comunque facendo largo modelli alternativi all'esperienza degli istituti per le case popolari. A fare da battistrada è la Toscana, che gli Ater li ha addirittura eliminati, trasferendo la proprietà delle case ai comuni, e passando la gestione a società per azioni a capitale pubblico; poi c'è il modello emiliano, in cui le società a controllo comunale vengono sostituite da agenzie regionali. Altra strada, infine, è quella di un nuovo social housing in cui, come spiega Edoardo Reviglio, economista e conoscitore del patrimonio statale, "investitore pubblico e privato si incontrano per costruire nuove abitazioni a tassi di profitto etici e canoni agevolati".
Insomma, se ne parla tanto, ma l'Italia per ora resta lontana dall'Europa, dove, come succede con i 3 milioni e mezzo di alloggi della Francia e i 3 milioni e 100 mila della Gran Bretagna, le case popolari oggi sono tre volte le nostre.
Fonte: epresso.repubblica.it
Abusivi e morosi Eppure il portafoglio di immobili in mano pubblica è vasto. Secondo gli ultimi dati Federcasa (la federazione degli ex Iacp, Istituti autonomi delle case popolari) supera ampiamente il milione e 100 mila unità: 928 mila alloggi gestiti dagli ex Iacp, e circa 200 mila direttamente dai comuni. Un patrimonio dislocato soprattutto nelle aree metropolitane: quasi la metà è situata nei principali capoluoghi, con in testa Milano, Roma, Napoli, Torino e Bari. Insomma, un vero tesoro per le finanze pubbliche, visto che secondo uno studio di Patrimonio dello Stato spa (società controllata dal ministero dell'Economia), il valore catastale si aggira sui 90 miliardi di euro. Cifra destinata ad aumentare se si prende come riferimento il valore reale, ossia quello di mercato: qui si arriva a 270 miliardi, ben tre volte tanto.
Ebbene, nonostante questi valori da capogiro, ogni anno le case popolari sono una perdita secca per la collettività. Basta prendere i dati Federcasa sui bilanci degli ex Iacp (che oggi hanno nomi diversi come Ater, Atc e Acer) per avere un'idea di quanto ci costano. Negli ultimi cinque anni, dal 2002 al 2006, hanno perso qualcosa come 938 milioni di euro. Emblematico il caso pugliese: dal 2000 tutti e cinque gli Ater provinciali sono commissariati, e quelli di Brindisi e Taranto in particolare sono in dissesto finanziario. Se allarghiamo lo spettro, non se la passano bene neanche quelli di Roma e Napoli, oberati dai debiti e sull'orlo del crack.
Cos'è che non va nel mattone popolare? A parte le accuse di gestione clientelare degli alloggi, c'è da dire che i ricavi di questi istituti sono scarsi rispetto a costi crescenti. Le entrate si fondano sui canoni, che sono per loro natura molto bassi. Basti pensare che secondo la Corte dei conti a Napoli si affitta una casa popolare in media a 42 euro al mese, 58 a Bari e 60 a Palermo. Quattro soldi, che spesso vengono versati solo in parte, oppure non pagati del tutto. È l'effetto del doppio fenomeno morosità-abusivismo. Sempre secondo Federcasa, negli ultimi cinque anni circa il 15 per cento degli inquilini non ha pagato l'affitto, per un danno che si aggira sui 110 milioni annui. Senza considerare poi gli alloggi totalmente fuori controllo, occupati abusivamente da chi ci entra sfondando la porta. Nel 2004 se ne contavano più di 40 mila in tutta Italia, concentrati soprattutto nelle grandi città. Un dato in diminuzione rispetto ai 52 mila del 2000, e ai 44 mila del 2003, ma non per merito dell'azione di contrasto degli istituti: il fatto è che molte Regioni hanno scelto la strada delle sanatorie. A Napoli, ad esempio, tre leggi regionali in successione hanno permesso a 7.357 abusivi (su un totale di 8.640) di diventare regolari. Lo stesso a Bari, dove grazie a una legge del 2004 circa 1.500 famiglie si sono regolarizzate pagando solo il 30 per cento della morosità pregressa. A ciò si aggiunge che spesso il recupero della case occupate è diventato quasi impossibile. Sempre a Napoli, e nel suo hinterland, interi palazzi popolari sono gestiti dalla camorra: succede alle Vele di Scampia, al rione Villa a Poggioreale e a diversi caseggiati di Ponticelli e Torre Annunziata.
Canoni bassi, morosità e abusivismo. A tutto questo si deve aggiungere che gli ex Iacp devono far fronte a spese importanti: i costi di manutenzione sempre in aumento (gli alloggi sono vecchi, in Italia non si costruiscono case popolari da più di 20 anni); gli stipendi dei 7.250 dipendenti (aumentati del 40 per cento negli ultimi cinque anni); infine le decine di milioni di euro che se ne vanno in tasse, Ici in testa. In totale quasi 200 milioni l'anno di buco, che a rigor di legge dovrebbero essere ripianati dalle Regioni, ma che invece restano sul groppone degli enti. "Voglio smentire il falso mito delle Regioni che coprono i buchi di bilancio", precisa Anna Maria Pozzo, direttore tecnico di Federcasa: "Avviene il contrario, spesso i governatori stornano i fondi per l'edilizia pubblica per destinarli ad altri capitoli di bilancio, come la sanità". Sta di fatto che, per coprire perdite e debiti, negli ultimi anni gli Ater hanno cominciato a vendere gli alloggi agli inquilini. Un palliativo: secondo la Corte dei conti, dal 1994 al 2003 sono state cedute circa 71 mila case, e con scarsi risultati. Gli 1,7 miliardi incamerati sono molto meno del previsto, anche perché la legge impone di vendere a prezzi di assoluto favore. Ovvero al valore catastale (a volte irrisorio), e per lo più scontato del 20 per cento.
Disastro Roma Con 2.800 famiglie romane ai vertici delle graduatorie, in perpetua attesa di una casa popolare, per molti versi la situazione romana rappresenta il peggio nel panorama degli Ater. Da una parte un debito orbitante intorno al miliardo di euro (che, aggravato da una morosità al 36 per cento, cresce di 100 euro al minuto). Dall'altro il caso della 'svendopoli', che ha visto il presidente della regione Pietro Marrazzo chiedere la sospensione delle vendite immobiliari in corso. Vendite che avevano portato a cedere appartamenti a Testaccio e San Saba (quartieri 'hot' della capitale) a costi irrisori. "Se non ci portassimo dietro il debito ereditato dal vecchio Iacp ce la caveremmo da soli", spiega Luca Petrucci, presidente dell'ente romano. Il problema, dice, è l'Ater in sé, che è diventato "di supporto a un ceto medio privilegiato, perché di veri poveri ce ne sono rimasti pochi, con tanti residenti di seconda e terza generazione". Per cui magari ci trovi a vivere "il nipote del vecchio assegnatario, direttore di banca, che con noi non c'entrerebbe niente", e non c'è invece "un patrimonio da dare ai più deboli".
Evidentemente non sono solo i conti a non quadrare, negli Ater. Come spiega Antonio Tosi, docente di sociologia urbana e politiche della casa al Politecnico di Milano, "si va spesso a coprire una fascia che avrà dei problemi, ma non i peggiori: si trascurano i redditi più bassi e la marginalità, mentre non si riesce a buttar fuori chi ha superato i limiti di reddito". Ereditarietà e abusivismo non sono che due facce della stessa medaglia.
Torino virtuosa Con circa 30 mila alloggi, l'Atc (l'Ater torinese) è il quarto in Italia per numero di appartamenti gestiti. L'edilizia pubblica a Torino, secondo la Pozzo, rappresenta "un esempio virtuoso". E per più di un aspetto. Innanzitutto il bilancio, che è in positivo. E poi un numero bassissimo di alloggi occupati abusivamente. Per far funzionare l'azienda (con un canone medio teorico che si è andato riducendo fino a 92 euro, e un 67 per cento di inquilini senza reddito) la ricetta di Ardito è quella della tolleranza zero verso gli irregolari. E questo a fronte di una morosità significativa, denunciata dalla Corte dei conti: "A Torino un inquilino su quattro non paga l'affitto". Per affrontare il problema nell'ultimo anno ci sono stati 6 mila controlli e 500 sfratti, mentre parte della morosità è rientrata grazie alla rateizzazione dei pagamenti. Alla tolleranza zero si aggiunge poi un'intensa operazione di marketing, che include l'affitto delle facciate per la pubblicità e dei tetti per i ripetitori, ma che vede soprattutto l'Atc impegnata nell'incentivare i comuni ad accedere ai bandi regionali: "Così poi le case gliele costruiamo noi. E più ne gestiamo, più i bilanci funzionano".
Il fronte immigrazione Un caso a parte nell'ambito dell'edilizia popolare è quello degli immigrati stranieri, che i più recenti rapporti Nomisma descrivono come in forte crescita, con oltre due milioni e mezzo di presenze nel 2006. Fenomeno che, se da un lato conta il 10 per cento delle compravendite nel mercato immobiliare 'normale' (con picchi vicini al 20 nelle periferie delle città del Nord), fa sentire la sua presenza nell'edilizia pubblica, con 73.761 alloggi nel 2004 (dati Federcasa) e una crescita del 36 per cento sul 2001. Federcasa li colloca al 4 per cento della popolazione complessiva (con netta prevalenza al Nord), compresa una minoranza di nomadi regolari.
Per farsene un'idea basti prendere il caso di Padova, dove su 2.735 alloggi dell'Ater, 196 (il 7,2 per cento) risultano in affitto a cittadini stranieri. Una crescita favorita altresì dai criteri di assegnazione, che oltre al reddito, alle condizioni abitative e agli handicap, "tengono conto del numero dei figli", spiega la Pozzo, "spingendoli così in testa alla graduatoria". Un rischio banlieue? Tosi tende a scartare questa possibilità: "I numeri italiani sono ben lontani da quelli francesi, e anche se fosse, il caso banlieue è il frutto del fallimento di politiche d'integrazione, non dell'edilizia pubblica". Frammentata, infine, è la modalità con cui un immigrato può vedersi assegnato un alloggio: se in regioni come l'Emilia Romagna le condizioni sono di parità con quelle degli italiani, in Umbria sono necessari ben tre anni di residenza regolare.
Non che per gli italiani le regole siano più lineari. I criteri adottati a livello regionale per aprire le porte dell'edilizia residenziale pubblica variano. E di molto. Su 16 regioni, i limiti di reddito dei bandi d'accesso fanno un bel salto dagli 11.465 euro della Sardegna ai 24.645 del Piemonte. E in generale restano mediamente fra i 13 e i 14 mila al Centro e al Sud, volando oltre i 16mila al Nord.
Non è l'unica disuguaglianza da considerare, se si tiene conto di chi un tetto sulla testa non ce l'ha. Una volta persi dati importanti come quelli della residenza, e in assenza di una pensione, i senza dimora restano spesso tagliati fuori, come spiega l'associazione Avvocato di Strada.
L'Europa è lontana Quale futuro allora per l'edilizia popolare? L'unica cosa certa è la sua indispensabilità, soprattutto considerando che la richiesta di alloggi è molto più alta dell'offerta disponibile. Secondo l'indagine Anci-Cresme 2005, solo il 7,9 per cento delle domande viene soddisfatta. Per ovviare a questa frattura, gli Ater hanno messo in cantiere un piano pluriennale di nuovi investimenti: entro il 2012 dovrebbero essere pronti 28 mila alloggi, fra nuove costruzioni e immobili recuperati. La portata del progetto sembra francamente un po' ottimistica se si considerano le scarse risorse e i tanti debiti cui devono far fronte.
Del resto, anche vendere vecchi immobili per comprarne nuovi non risolve il problema: per la Corte dei conti "il rapporto è di 3 a 1", chiaramente a svantaggio degli istituti. Anche per questo la Pozzo chiede al governo "un fondo assistenziale che si faccia carico della funzione sociale degli ex Iacp". A parte l'intervento statale, si stanno comunque facendo largo modelli alternativi all'esperienza degli istituti per le case popolari. A fare da battistrada è la Toscana, che gli Ater li ha addirittura eliminati, trasferendo la proprietà delle case ai comuni, e passando la gestione a società per azioni a capitale pubblico; poi c'è il modello emiliano, in cui le società a controllo comunale vengono sostituite da agenzie regionali. Altra strada, infine, è quella di un nuovo social housing in cui, come spiega Edoardo Reviglio, economista e conoscitore del patrimonio statale, "investitore pubblico e privato si incontrano per costruire nuove abitazioni a tassi di profitto etici e canoni agevolati".
Insomma, se ne parla tanto, ma l'Italia per ora resta lontana dall'Europa, dove, come succede con i 3 milioni e mezzo di alloggi della Francia e i 3 milioni e 100 mila della Gran Bretagna, le case popolari oggi sono tre volte le nostre.
Fonte: epresso.repubblica.it
2 nov 2007
Frate chiedeva "pizzo" per annullare nozze
Un detective reclutato dal alcune vittime ha incastrato il religioso
FERMO - È accusato di aver intascato tangenti per favorire le pratiche di annullamento dei matrimoni. Per questo un frate appartenente all'ordine dei Missionari della Fede è stato allontanato dal Tribunale ecclesiastico marchigiano, che ha sede a Fermo. A incastrarlo è stato un investigatore privato, reclutato da alcune delle persone cui il religioso aveva chiesto denaro - qualche migliaio di euro per ciascuna pratica - fingendo di essere un marito in attesa di separazione. La vicenda è riportata giovedì dal quotidiano Qn-il Resto del Carlino. A carico del frate il detective ha raccolto prove registrando e filmando con una telecamera nascosta le trattative sul "pizzo". A quel punto il frate è stato allontanato dall'incarico.
«AL LIMITE DELLA BLASFEMIA»
Prima di approdare a Fermo, l'uomo aveva prestato servizio presso il Vicariato di Roma, dove pare si fosse reso protagonista di fatti analoghi. «È un episodio deprecabile - ha commentato l'ex presidente del Tribunale ecclesiastico marchigiano monsignor Vinicio Albanesi - che getta fango su un meccanismo sano e una struttura che in passato è stata portata ad esempio per la sua efficienza. Al di là dell'aspetto legale, quanto commesso da questo religioso è al limite della blasfemia. So che il frate è arrivato dopo che ho lasciato la presidenza - ha detto Albanesi - e che è già stato trasferito in un'altra città».
Fonte: corriere.it
FERMO - È accusato di aver intascato tangenti per favorire le pratiche di annullamento dei matrimoni. Per questo un frate appartenente all'ordine dei Missionari della Fede è stato allontanato dal Tribunale ecclesiastico marchigiano, che ha sede a Fermo. A incastrarlo è stato un investigatore privato, reclutato da alcune delle persone cui il religioso aveva chiesto denaro - qualche migliaio di euro per ciascuna pratica - fingendo di essere un marito in attesa di separazione. La vicenda è riportata giovedì dal quotidiano Qn-il Resto del Carlino. A carico del frate il detective ha raccolto prove registrando e filmando con una telecamera nascosta le trattative sul "pizzo". A quel punto il frate è stato allontanato dall'incarico.
«AL LIMITE DELLA BLASFEMIA»
Prima di approdare a Fermo, l'uomo aveva prestato servizio presso il Vicariato di Roma, dove pare si fosse reso protagonista di fatti analoghi. «È un episodio deprecabile - ha commentato l'ex presidente del Tribunale ecclesiastico marchigiano monsignor Vinicio Albanesi - che getta fango su un meccanismo sano e una struttura che in passato è stata portata ad esempio per la sua efficienza. Al di là dell'aspetto legale, quanto commesso da questo religioso è al limite della blasfemia. So che il frate è arrivato dopo che ho lasciato la presidenza - ha detto Albanesi - e che è già stato trasferito in un'altra città».
Fonte: corriere.it
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