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10 gen 2014

Il Tar del Piemonte annulla le Regionali 2010

Le firme della lista pensionati sarebbero state falsificate
Accolto il ricorso della Bresso che aveva perso per 9000 voti: annullati i 27.000 voti della lista pensionati legata a Cota


Tutto da rifare. Il Tar del Piemonte ha accolto «il ricorso principale» promosso da Mercedes Bresso contro il risultato delle elezioni regionali del 2010. Ricorso che era dovuto allo scandalo legato alla scoperta di firme false per la presentazione della Lista dei Pensionati per Cota di Michele Giovine, poi condannato in via definitiva a 2 anni e 8 mesi di carcere. Secondo quanto si ricava da una prima lettura del dispositivo è necessario tornare al voto. L’annullamento della proclamazione degli eletti porta infatti alla decadenza della Giunta regionale e, quindi, alla sospensione di tutta l’attività in corso. È quanto trapela da esponenti della stessa Giunta regionale . Contro la sentenza è in ogni caso possibile fare ricorso al Consiglio di Stato e Cota ha dichiarato che è pronto a presentarlo.

«Con la pronuncia del Tar di oggi ha dimostrato che le elezioni del Tar del 2010 erano truccate - è stato il primo commento di Mercedes Bresso,ex presidente della giunta regionale e battuta per poche migliaia di voti dal leghista Roberto Cota - . Per me è una vittoria. Ora la giunta Cota non esiste più ora si rivada al voto, credo che sia possibile votare tra poche settimane, nel famoso election day fissato per le europee».

PROCEDURA - Come detto, la sentenza arriva al termina di una lunga procedura giudiziaria che ha visto annullare i voti (circa 27.000) verso un lista pensionati legata all’attuale governatore, il leghista Roberto Cota. La Lista dei Pensionati per Cota aveva infatti falsificato le firme per presentare la lista oltre a candidare persone inesistenti. Avendo la candidata del centrosinistra Mercedes Bresso perso le elezioni per circa 9000 voti, la sentenza del Tar porta quindi all’annullamento delle elezioni del 2010. Si potrebbe ritornare al voto già in primavera.

«GIUSTIZIA È FATTA» - «Seppure in ritardo è stata fatta giustizia - ha detto ancora Mercedes Bresso . La sentenza è immediatamente esecutiva, anche se ci sarà il ricorso, riusciremo a andare al voto insieme alle amministrative e alle europee. Sono contenta soprattutto per il Piemonte, perché gira pagina. Non ho tuttavia intenzione in questo clima politico di ricandidarmi alle prossime regionali ,in questo senso ho già dato. La mia ambizione è di ritornare al Parlamento europeo- In ogni caso deciderà il Pd».

NUOVO CANDIDATO - Con ogni probabilità, in caso di nuove elezioni in primavera, il centrosinistra presenterà come candidato, l’ex sindaco di Torino e attuale presidente della compagnia di san Paolo Sergio Chiamparino, molto vicino al l’attuale segretario del Pd, Matteo Renzi. «Se nei prossimi mesi si andrà al voto anticipato per la Regione Piemonte vi sarà la mia disponibilità a una eventuale candidatura alla Presidenza della medesima che, naturalmente, non dipenderà solo da me». ha subito dichiarato Chiamparino. Del resto se Sergio Chiamparino vorrà candidarsi a presidente della regione, potrà farlo da uomo libero da procedimenti penali in corso. L’attuale presidente della Compagnia di San Paolo era stato indagato dalla procura di Torino con altri dirigenti del Comune, che ha guidato fino al 2011, per la mala gestione dei locali dei Murazzi del Po, centro della movida torinese. Oggi il sostituto procuratore Andrea Padalino ha chiuso l’indagine, notificando la chiusura ad alcune persone ma non a Chiamparino. L’ex sindaco di Torino non figura quindi più tra gli indagati.

COTA - «La sentenza è una vergogna» ha dichiarato Cota, già scosso da altri avvenimenti giudiziari. La sentenza arriva infatti dopo il suo coinvolgimento come indagato , nell’inchiesta sui rimborsi alla regione Piemonte.
Cota ha poi dichiarato che in attesa della risposta del Consiglio di Stato andrà avanti come prima. Un atteggiamento bollato dalla Bresso come «irresponsabile».

SALVINI - Non fa una piega invece il neosegretario della Lega Matteo Salvini che su Facebook scrive: «Giudici e sinistra, anche quando perdono, riescono a vincere. Un attacco alla democrazia, ecco di cosa si tratta. Altro che mutande! Forse a qualcuno hanno dato fastidio i 30 milioni di risparmio secco, all’anno, dei costi della politica in Regione. Forza Piemont, forza Lega, continuiamo a lavorare».

RADICALI - Particolarmente soddisfatti della sentenza i Radicali, che però precisano: «In questo momento di gioia non possiamo, però, tacere di una grave inadempienza del Consiglio Regionale del Piemonte: a un mese dalla sentenza di Cassazione (14 dicembre 2013) che ha condannato in via definitiva Michele Giovine, - aggiungono i Radicali piemontesi - questi non è ancora stato dichiarato decaduto da consigliere regionale; dal dicembre 2012, da oltre un anno, Giovine è stato sospeso e percepisce metà indennità di consigliere e la sua compagna di partito Sara Franchino, divenuta consigliere al suo posto, percepisce l’indennità intera».

LETTA - Sulla questione è intervenuto anche il premier Enrico Letta: «Non commento mai le sentenze, ci saranno le conseguenze del caso, si andrà al voto. Certo, tre anni e mezzo sono un tempo assolutamente incredibile e penso che tutti si debba riflettere su questo. Forse bisogna riguardare alcune di quelle norme».


Fonte: corriere.it

31 mag 2013

La collaborazione di Belsito con i magistrati: Bossi mi ordinò di spostare i soldi in Tanzania

«Fondi all'estero, talpe e lotte interne»
La versione di Belsito ai pm sulla Lega


REGGIO CALABRIA - Finanziamenti occulti, trasferimenti di denaro all'estero, «talpe» sulle inchieste. L'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito collabora con i magistrati di Reggio Calabria. Prima del suo arresto, avvenuto per ordine dei giudici milanesi il 24 aprile scorso, l'uomo che gestiva i soldi del partito all'epoca guidato da Umberto Bossi, ha riempito centinaia di pagine di verbali. Negli interrogatori svela come i vertici del Carroccio, in particolare Roberto Castelli, fossero stati avvisati delle indagini ancora segrete e avessero così aggirato i controlli. Un sistema utilizzato anche per sottrarsi ai controlli sulle quote latte. Ricostruisce il flusso degli esborsi dal Carroccio al Movimento per le Autonomia di Raffaele Lombardo, i rapporti con gli imprenditori. Assicura che fu Bossi ad autorizzare lo spostamento dei soldi in Tanzania. Accuse pesanti che il pubblico ministero Giuseppe Lombardo sta adesso verificando con accertamenti delegati agli investigatori della Dia.

«Cambia le targhette»
È il 13 marzo scorso. Belsito, accusato di ricettazione e riciclaggio, viene convocato per un interrogatorio. E dichiara di voler rispondere alle domande. Racconta il proprio ruolo all'interno della Lega. Ma soprattutto svela che cosa accadde due mesi prima delle perquisizioni ordinate dalle procure di Napoli, Milano e Reggio Calabria sui soldi usati per mantenere la famiglia Bossi.
Belsito: «Vorrei che qualcuno mi spiegasse qualcosa. Sapevano che arrivavano le perquisizioni prima e hanno cambiato le targhe delle stanze dove c'era la contabilità con i nomi dei deputati e senatori, perché la sa benissimo...».
Pm: «Quindi lo sapevano? Come fa ad avere questa certezza?».
Belsito: «Quelle stanze dove lei leggeva onorevole tizio o caio, non c'era nessun onorevole, erano le stanze della contabilità».
Pm: «E lì c'erano i documenti?».
Belsito: «Certo! Ma lei lo sa qual era il mio ruolo? Io prendevo la carta, la consegnavo alla Dagrada e la Dagrada faceva tutto. Mi spiega come mai le stanze della contabilità, dove stava la Dagrada, dove stava la Pizzi, cioè i nomi dei dipendenti».
Pm: «Sono stati spostati?».
Belsito: «Non che sono stati spostati, c'erano sempre loro... ma fuori c'era scritto "Onorevole tal dei tali"».
Pm: «Quindi le hanno rese inaccessibili, dice lei. E chi li aveva avvertiti?».
Belsito: «Io questo non lo so, ma sapevano benissimo, perché io ho avuto un bisticcio con Castelli e lui mi ha detto "ci sono tre Procure che indagano". Era il mese di febbraio, quando trattavamo il rientro dei soldi, lui voleva le mie dimissioni e aveva detto che c'erano... Io gli ho risposto e gli ho detto, ma sei un cartomante? O fai parte anche tu del sistema? Come fai a sapere? Perché tre Procure non una, non due? Eravamo nella stanza di Bossi alla Camera... e le giuro che sono incazzato, mi sono alzato e gli ho detto "tu sei un grandissimo pezzo di m...". Bossi mi richiedeva le dimissioni perché c'erano tre Procure che indagavano: "Se tu vuoi bene al partito". Gli ho detto, ma perché io mi devo dimettere scusami?».
Le verifiche hanno consentito di accertare che l'incontro a Montecitorio sarebbe avvenuto il 9 febbraio 2012. Le perquisizioni scattarono invece il 4 aprile successivo e furono effettivamente condotte dai magistrati di tre Procure. E non solo. Aggiunge Belsito: «Comunque quando c'è stata la perquisizione delle quote latte... idem! Stesso giochetto, targhe dei deputati e non hanno trovato niente».
Pm: «Lei ha capito Castelli attraverso chi l'aveva saputo?».
Belsito: «No. So che era un periodo che si vedevano tutti di nascosto. I vari dirigenti del partito, che potevano essere Calderoli, Maroni, Castelli, lo stesso Stiffoni. Io sono andato a cena con Stiffoni una sera dove lui mi pregava di dare le dimissioni. Io le posso giurare, lo chieda a Bossi, io andavo da lui, a casa sua o in ufficio e gli dicevo: "Se vuoi le mie dimissioni, io non ho problemi a dartele. Però ricordati che tutti questi soggetti che sono qua, sono tutte delle persone veramente scorrette. Perché davanti ti fanno un gioco e dietro ne fanno un altro"».

Imprenditori e finanziamenti
L'ex tesoriere parla anche della guerra interna al partito.
Belsito: «Io avvisai Bossi che c'era una raccolta fondi, sempre voci di partito, lettere anonime, dove determinati esponenti, importanti imprenditori, stavano foraggiando l'iniziativa nel Nord, cioè rafforzare l'assetto della Lega nel Nord. E dove, in queste cene con l'imprenditoria importante Roberto Cota, Luca Zaia, Roberto Maroni incontrarono soggetti, ma non imprenditori improvvisati, gente di livello nazionale e dove stavano facendo una raccolta fondi. Ma il partito non c'entrava nulla, e non c'entrava niente».
Pm: «Ma non ho capito. Questo progetto, che sarebbe sorto all'interno già di un partito separatista».
Belsito: «Volevano costituire una Fondazione. Quindi c'erano due tipi di Fondazioni che volevano essere costituiti in Lega. Una la volevamo costituire noi come Lega, quindi la Lega vera. È questa che doveva finanziare degli eventi politici».
Pm: «E quindi diciamo, si stava creando già una fronda?».
Belsito: «Certo. Un soggetto autonomo. Tanto è vero che la preoccupazione di Bossi era quella: se rompiamo dobbiamo essere in grado di fare campagna elettorale. Ed ecco lì il motivo del Fondo. Lo spostamento del Fondo in Tanzania. Lui voleva un tesoretto per affrontare... disponibile... quindi iscritto a bilancio».


I soldi a Mpa
Belsito parla anche della strana alleanza tra Carroccio e il partito dell'ex governatore siciliano Raffaele Lombardo.
Belsito: «Loro erano alleati. Io ad esempio quando ho seguito la contabilità diretta, mandavo ogni anno a Lombardo un bonifico perché il Mpa era in coalizione, così mi era stato detto, con la Lega. Una quota parte del rimborso elettorale. Erano rapporti che aveva Calderoli».
Pm: «Ma erano portati all'ordine del giorno, questi argomenti, in sede di Consiglio federale?».
Belsito: «Sull'alleanza di Lombardo indubbiamente sì. Su strategie interne, ripeto, ognuno di noi aveva un ruolo. Lombardo si appoggiava sempre a Berlusconi. So che quando hanno rotto, il suo tesoriere era venuto, questo onorevole siciliano a batter cassa. Io l'ordine che avevo era di non dargli più niente, perché si erano separati con la Lega».
Pm: «Cioè, la Lega finanziava il Mpa?».
Belsito: «Finanziava perché nella campagna elettorale avevano fatto l'accordo. In prima battuta Calderoli mi aveva detto di non dargli più niente e di prender tempo. E poi invece mi aveva convocato, ha detto no, devi pagare, bisogna pagare. Ed io naturalmente l'ho fatto. Quando parlo di pagamenti, sono pagamenti ufficiali, quindi bonifici».


Fonte: corriere.it

5 lug 2012

La rimozione leghista. Via dal sito del partito le foto del Senatur. Che però resiste

Bossi, chi era costui?

Bossi come Trotzkij. Un'esagerazione. Ma nel sito della Lega e sulla Padania sembrano aver preso alla lettera la lezione staliniana. Cancellare tutto ciò che ricorda il passato, annichilire ogni immagine di Umberto Bossi e del suo «cerchio magico».


10 mag 2012

Duemila euro al mese per le candidature della Lega

Dopo la finta laurea, le finte donazioni con evasione fiscale incorporata.

Nella serata di ieri, la Procura di Forlì (fortemente specializzata in evasori fiscali, data la contiguità territoriale con San Marino) ha sequestrato alcune carte in Via Bellerio, sede della Lega Nord, nell'ambito di un'inchiesta di cui ancora poco si conosce, forse scaturita da riscontri documentali (rogiti, contratti, assegni) nonché dalle dichiarazioni di Francesco Belsito e Nadia Dagrada, i custodi della cassaforte del movimento politico.

A partire dal 2000, i prescelti dalla Lega Nord, hanno di fatto comprato la propria candidatura impegnandosi – come condizione irrinunciabile – davanti a un notaio a versare circa 2000 euro (alla prima elezione) o 2400 euro (a quelle successive) per tutti i 60 mesi legislatura, in cambio delle spese elettorali che il partito anticipava loro. L'atto privato diventava pubblico e registrato a elezione avvenuta, oppure decadeva in caso di mancato seggio o di fine anticipata della legislatura. Nella dichiarazione dei redditi, poi, i versamenti mensili degli eletti e del partito comparivano come semplici donazioni. Secondo il Procuratore di Forlì Sergio Sottani e del suo sostituto Fabio Di Vizio, in questo meccanismo ci sarebbero molte cose che non vanno dal punto di vista fiscale.

Innanzitutto, messa in questi termini, la donazione non solo è simulata, ma proprio nulla, perché il donatore si impegna per beni che non possiede ancora e, dice la legge, il notaio non può rogare atti nulli. Nel racconto della Dagrada, invece, a ridosso delle elezioni nella sede di Via Bellerio di questi atti se ne stipulavano a centinaia in un sol giorno. E prima dell'apertura delle urne bisognava versare una bella caparra. Secondo gli inquirenti, il marchingegno notarile serviva agli eletti per detrarre dall'imposta lorda il 19% e alla Lega "venditrice" del posto in Parlamento a non pagare alcuna imposta (i partiti sono esenti dall'imposta di donazione).

Insomma, grazie ai crediti d'imposta maturati, i parlamentari – ministri compresi – hanno di fatto annullato per tutti questi dieci anni il 'peso' economico della "donazione", non perdendo nulla, neppure i soldi versati. Sarebbe interessante, a questo punto, verificare se lo stesso sistema non sia utilizzato da tutti i partiti e non solo dalla Lega Nord (la quale, peraltro, non avrebbe presentato mai alcuna dichiarazione dei redditi).

Intanto, nella serata di giovedì, il senatore Roberto Calderoli ha precisato con un comunicato stampa che Lega Nord querelerà chiunque parli di acquisto di candidature. E ha aggiunto: «La Lega Nord presenterà querela nei confronti di chiunque ha parlato o parlerà di acquisto di candidature. È' indegno che si cerchi di sporcare e far passare sotto una luce negativa anche il fatto che i parlamentari, lodevolmente e in maniera volontaria, vogliono aiutare e sostenere il movimento per cui militano e che li ha eletti».

Fonte: ilsole24ore.com

Lo sfogo di Renzo Bossi: «Laurea in Albania? Io non ne sapevo niente»

Il figlio del Senatur: «Mi accusano solo per utilizzarmi come arma nei confronti di mio padre, perché non si ricandidi»

«Mi dissocio completamente da quel diploma universitario. Non sono mai stato in Albania, non parlo l'albanese, non ho mai vantato titoli accademici e non sono mai stato a conoscenza di quel documento datato 2010».
Dopo giorni di prese in giro e tormentoni sul web, Renzo Bossi rilascia le prime dichiarazioni a proposito della laurea che avrebbe conseguito in Albania. Laurea trovata nella cassaforte dell'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito. «Quanto riferisco - ha aggiunto Renzo Bossi - è avvalorato dal fatto che siamo nel 2012 e solo oggi ne vengo a conoscenza: faccio presente inoltre come non ho mai detto di essere laureato e questo avrà almeno un senso...».

«CAMPAGNA AL MASSACRO»
Sulla presunta laurea in Albania, emersa nei documenti acquisiti dalla magistratura che indaga sui conti della Lega Nord, l'ex consigliere regionale della Lombardia ha anche osservato che «ad una analisi critica dello stesso documento chiunque può constatare che la data di nascita è oltretutto errata, dato non poco rilevante». Il figlio di Umberto Bossi ha spiegato: «Non ho mai parlato fino ad ora, perché credo nella magistratura e devo rispondere solo ad essa, ma mi trovo obbligato ad uscire pubblicamente, contro la mia volontà, per dare uno stop ai media, a questa campagna al massacro nei miei confronti, e a quei giornali che troppe volte in questi anni si sono sostituiti ai giudici».

«USATO CONTRO MIO PADRE»
«Ho visto e sentito troppe persone accusarmi ingiustamente solo per utilizzarmi come arma nei confronti di mio padre, per cercare di impaurirlo e di convincerlo a non ricandidarsi alla carica di segretario federale», aggiunge il Trota. E alza bandiera bianca: «Chiedo di essere lasciato in pace, visto che ho dimostrato tutta la mia buona fede dimettendomi da ogni carica politica e lasciando la Lega libera di portare avanti il suo progetto politico».

Fonte: corriere.it

Renzo Bossi, dalla cassaforte di Belsito spunta la laurea in Albania: tre anni in uno

Conseguita il 29 settembre 2010. Il sospetto: pagata con i soldi del partito. C'è anche un diploma intestato a Moscagiuro

Agli atti delle procure di Napoli e Milano c'è un diploma universitario che Renzo Bossi ha conseguito in Albania. È stato trovato dalla Gdf nella cassaforte di Belsito dove era custodita la cartella «The Family». E il sospetto è che il corso sia stato pagato con i fondi della Lega. Si tratta di un diploma di laurea di primo livello, paragonabile probabilmente a una laurea triennale italiana: il «Trota» si è laureato in gestione aziendale alla facoltà di Economia aziendale della capitale albanese, sostenendo «29 esami» del corso di «gestione aziendale», acquisendo «180 crediti», che prevedono una percorso di studi di 3 anni.

TRE ANNI IN UNO
Il figlio del Senatur, però, stando anche alle prime analisi degli investigatori, avrebbe ottenuto la laurea in un anno circa. Renzo Bossi, infatti, ha preso il diploma di maturità in Italia nel luglio 2009 a 21 anni. Il certificato di laurea nella facoltà albanese reca invece la data del «29 settembre 2010» come conseguimento e dell«'8 ottobre 2010» come consegna dell'attestato. Sempre nel certificato, tutto in lingua albanese, Renzo Bossi è registrato col numero di matricola «482». Accanto la sua fotografia.

CON TANTO DI VOTI
Gli investigatori della Gdf, che hanno perquisito la cassaforte dell'ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito a Roma, trasmettendo poi le carte anche al Noe, hanno rintracciato un diploma dell'Università Kristal di Tirana in Albania, fondata nel 2005. La laurea, come risulta dallo stesso certificato, è stata conseguita dal «Trota» il 29 settembre del 2010. Il diploma reca la data di consegna dell'8 ottobre 2010 e si tratta di un corso di laurea in «gestione aziendale» della Facoltà di «Economia aziendale». Il documento universitario è scritto in lingua albanese ed è corredato dai voti che Renzo Bossi avrebbe preso nelle varie materie come «sociologji».

IL DIPLOMA DI MOSCAGIURO
Nella cassaforte di Belsito, inoltre, gli investigatori della Gdf hanno trovato anche un diploma universitario sempre in «Sociologji», della stessa università, conseguito da Pierangelo Moscagiuro, caposcorta del vicepresidente del Senato Rosy Mauro. Laurea quest'ultima che, come risulta sempre dal documento, è stata conseguita il 29 giugno 2011, con consegna il 20 luglio successivo. Sono in corso accertamenti per verificare se i titoli di studio siano stati acquistati con soldi della Lega Nord.

Fonte: corriere.it

13 apr 2012

Calderoli e la versione concordata per difendere l'ex tesoriere leghista

Dopo i malumori e i contrasti, l'ex tesoriere commentava: «Il capo si vuole dimettere, vuole fare un altro partito»

Firme false e versioni concordate per cercare di «coprire» Francesco Belsito e le sue operazioni finanziarie illecite. Sono le intercettazioni telefoniche a svelare come lo «stato maggiore» della Lega fosse mobilitato per evitare che la magistratura avviasse indagini sull'attività del tesoriere e scoprire l'uso privato dei fondi provenienti dai rimborsi elettorali. In prima linea, in quelli che a volte appaiono veri e propri «depistaggi», ci sono l'onorevole Roberto Calderoli - appena nominato «reggente» del partito insieme a Roberto Maroni e Manuela Dal Lago - e Piergiorgio Stiffoni membro del comitato amministrativo insieme a Roberto Castelli. Ma anche Giancarlo Giorgetti. Uno si fa dettare dall'avvocato di Belsito la linea pubblica da tenere, l'altro accetta di siglare un documento retrodatato per dimostrare la regolarità degli investimenti. Il terzo è indicato tra i partecipanti agli incontri con l'imprenditore Stefano Bonet, ora indagato per riciclaggio, che ha messo a disposizione i propri conti esteri. Quello delle «coperture» è un capitolo che i magistrati di Milano, Napoli e Reggio Calabria stanno adesso esplorando per valutare le ulteriori responsabilità penali. Anche perché era stato proprio Belsito, parlando di soldi con Rosi Mauro, a chiedere: «Come li giustifico quelli di Calderoli?».

Calderoli e l'intervista
È il 24 febbraio, lo scandalo dei soldi investiti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia è ormai esploso. All'interno del Carroccio si cerca una soluzione. Annotano gli investigatori della Dia nella loro informativa: «Si registra una conversazione tra l'avvocato Scovazzi e l'onorevole Calderoli, il quale dovendo rilasciare una intervista al Secolo XIX concorda con il legale di Belsito gli argomenti da utilizzare per difendere lo stesso Belsito dagli articoli di stampa che lo attaccano».
Il brogliaccio dà conto del colloquio: «Calderoli dice che questa mattina il giornalista ha preteso un'intervista sulla questione, in un primo momento il suo addetto stampa aveva cercato di mediare, dicendo che sono due mesi che non rilascia dichiarazioni a nessun quotidiano nazionale, ma poi sempre Calderoli dice di aver riflettuto perché non usare l'intervista cercando di vendere le nostre buone ragioni. Scovazzi dice che secondo lui questa intervista che gli vogliono fare non la vogliono realizzare per sentire le loro buone ragioni, ma lo fanno solo per attaccarli, anzi gli chiederanno come mai la Lega non prende delle posizioni forti contro questo tale (Belsito). L'avvocato aggiunge che l'unica cosa che lui gli può dire e che in buona sostanza su tutte le vicende che riguardano Francesco (Belsito) hanno fatto dei processi dopo che i processi erano già stati fatti, perché relativamente ai fatti dei giorni scorsi, si tratta di due indagini archiviate». Calderoli propone possibili titoli da sottoporre al giornalista: «Fallimento, e non c'è mai stato un fallimento; per il titolo di studio è stato assolto in primo grado e successivamente è intervenuta comunque una prescrizione su una assoluzione; sul discorso della Tanzania l'operazione è già rientrata, i consulenti erano persone completamente a titolo gratuito». In realtà Calderoli sa perfettamente che Stefano Bonet, l'imprenditore che ha gestito il trasferimento dei fondi, sta chiedendo una percentuale proprio alla Lega.

Quali potessero essere i suoi timori, li aveva spiegati poco prima Belsito parlando con un'amica, come si legge nella trascrizione della conversazione: «Belsito dice che prima lo ha chiamato il segretario di Calderoli dicendogli che hanno appena mandato a fare in culo Mari (giornalista del Secolo XIX ), in quanto lo stesso Mari aveva detto che voleva parlare urgentemente con Calderoli e che se non fosse riuscito a parlargli, lo avrebbe sputtanato». In quei giorni i contatti tra l'onorevole e il tesoriere sono frequenti. È proprio Calderoli a cercarlo quando Umberto Bossi vuole vederlo. Il 6 febbraio viene intercettata una telefonata tra Belsito e Romolo Girardelli, il procacciatore d'affari legato alla «cosca De Stefano» della 'ndrangheta. «Belsito dice che sono 9 giorni, anche il capo voleva incontrarlo oggi e lo ha cercato anche Calderoli per dirglielo ma che lui non ci è andato perché non sa cosa deve dire. Calderoli gli ha detto che il capo vuol sapere quando è tutto a posto. Castelli gli ha scritto una raccomandata nella quale ha scritto che di tutto quello che gli chiede ogni volta non gli dà mai niente, Belsito dice che Castelli vuol fare il Giustiziere. Belsito dice che domani dovrà andare a Roma a parlare col Capo e che gli dirà che è ancora tutto fermo».

Rosi e l'atto falsificato
Tra gennaio e febbraio gli uomini di vertice della Lega si attivano per cercare una soluzione che salvi Belsito e dunque l'intero partito. Il 7 febbraio il tesoriere chiama Rosi Mauro. È scritto nell'informativa: «Belsito le riferiva che la sera precedente si era visto a cena con l'onorevole Piergiorgio Stiffoni, con il quale commentava la vicenda relativa al trasferimento dei soldi della Lega all'estero. In particolare Stiffoni esternava il timore che la vicenda in questione, qualora non gestita con le dovute cautele, avrebbe potuto scatenare un terremoto all'interno del Movimento pregiudizievole alla leadership di Bossi. Il timore appalesato dallo Stiffoni, a dire di Belsito, poteva essere evitato qualora i membri del comitato amministrativo (Stiffoni e Castelli) avessero firmato il documento mandatogli da Belsito inerente l'istituzione dei fondi. È evidente che il documento a cui faceva riferimento Belsito era l'autorizzazione affinché Belsito avesse potuto disporre l'operazione in essere. Rosi Mauro, riscontrando le difficoltà appalesate da Belsito lo consigliava di parlare del comportamento tenuto dai suddetti parlamentari, direttamente con Bossi». L'8 febbraio i due affrontano nuovamente la questione e «Belsito comunicava che era sua intenzione scrivere una lettera ai due parlamentari invitandoli a sottoscrivere "l'autentica delle firme"». E poi, riferendosi a un'altra vicenda, evidentemente sempre economica aggiungeva che «"la tua operazione" riferita alla Mauro, l'avrebbe fatta dal Banco di Napoli poiché in tale istituto non si correva alcun rischio di controllo essendo di fatto sotto i riflettori la Banca Aletti ove, peraltro, a dire del Belsito non avrebbero trovato nulla». Due giorni Rosi Mauro «contattava nuovamente Belsito per avere informazioni circa l'avvenuta firma di Stiffoni e Castelli di un atto verosimilmente da identificare nell'autentica delle firme. Belsito affermava che ciò era stato fatto da Stiffoni mentre non aveva riscontro dell'operato di Castelli».

Il Vaticano, i dossier e le banche
La vicenda sembra aver creato numerosi problemi e contrasti all'interno del Carroccio tanto che, secondo Belsito, «il "capo" si vuole dimettere, vuole fare un altro partito». Ma anche gli altri personaggi coinvolti nella vicenda raccontano di avere problemi. Il 25 gennaio l'imprenditore Bonet si lamenta con un amico per le conseguenze che può avere sui propri affari. E cita in particolare la Santa Sede spiegando che «gli sta facendo recapitare il dossier che stanno preparando per il Vaticano, nel quale, tra l'altro, inseriranno delle controdeduzioni alle accuse "infamanti" di questi ultimi giorni, in modo che gli dia uno sguardo ed esprima un suo parere, soprattutto su "una posizione politica" che deve decidere come metterla. Bonet spiega il motivo di tale memoriale dicendo che lo sta preparando per evitare problemi in futuro (con il Vaticano) considerato l'incarico che gli stanno per dare e per il quale è possibile che gli venga richiesta qualche spiegazione circa il coinvolgimento di Bonet nella vicenda con Belsito e i fondi della Lega». Un ruolo chiave in questa partita lo riveste, secondo gli inquirenti, l'avvocato calabrese con studio a Milano Bruno Mafrici. Secondo alcuni atti pubblicati dal Corriere della Calabria il professionista - indagato per riciclaggio in questa inchiesta - «ha rapporti con i big della politica calabrese come il governatore Giuseppe Scopelliti e l'assessore regionale Mario Caligiuri. Nel suo studio nel capoluogo lombardo, nella centralissima via Durini a pochi passi dal Duomo, gli inquirenti identificano la base operativa dove la politica incontrava gli ambasciatori finanziari della 'ndrangheta e con loro stendeva accordi e faceva affari». Sarebbe stato proprio Mafrici, in un'intercettazione con Belsito e Bonet, a valutare la possibilità di spostare i soldi già trasferiti a Cipro e in Tanzania, su un conto della banca Arner, l'istituto di credito diventato famoso perché il conto numero 1 è intestato a Silvio Berlusconi.

Fonte: corriere.it

7 apr 2012

I soldi a Calderoli come faccio a giustificarli?. Somme a Brancher, mazzette a Belsito. Gli affari in Vaticano: «Mi posso far mandare in Eni, però meglio alla Rai, alle Poste»

ROMA - Nella ragnatela di rapporti che aveva tessuto negli ultimi anni, Francesco Belsito si muoveva con disinvoltura grazie alla gestione dei soldi. E nella sua lista di beneficiari il tesoriere della Lega aveva inserito anche Roberto Calderoli. Le telefonate intercettate e i riscontri effettuati dai carabinieri del Noe per conto dei pubblici ministeri di Napoli - Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio - svelano quanto fitta fosse questa rete. E consentono di scoprire che Stefano Bonet, l'imprenditore in affari con Belsito e adesso finito sotto inchiesta con lui per riciclaggio, aveva ottenuto commesse anche dal Vaticano mentre il tesoriere trattava un affare con Selex, società controllata da Finmeccanica. Nella lista dei politici in contatto con i due ci sono il parlamentare del Pdl Aldo Brancher che avrebbe ricevuto un contributo di 150 mila euro «per la festa del Garda» e il suo collega di partito Filippo Ascierto, «referente per i problemi con le forze dell'ordine», il leghista Francesco Speroni «che ha fatto il fondo che hai fatto tu con la Tanzania» e Gianpiero Stiffoni, componente del comitato amministrativo del Carroccio indicato dagli investigatori come uno dei destinatari «di rilevanti somme di denaro». Sono le carte processuali a rivelare che cosa sia accaduto all'interno della Lega dopo la scoperta degli investimenti all'estero decisi da Belsito e agevolati da Bonet, la preoccupazione dello stesso Belsito che precisa di poter giustificare «soltanto il 70 per cento delle spese», il ruolo di Roberto Castelli che prima chiede di poter visionare l'intera documentazione contabile e poi avvia un'indagine privata per scoprire come sia stata gestita la cassa. «Pronto a restituire 4,5 milioni» Annotano i carabinieri: «Dopo le polemiche sui media per l'investimento in Tanzania s'è creato fermento nel partito e tutti vogliono avere contezza dell'operazione e più in generale della gestione delle risorse del partito, tra questi proprio gli altri due componenti del comitato amministrativo, Castelli e Stiffoni. Proprio Castelli, di fatto, si è fatto portavoce di iniziative volte a "verificare" la regolarità degli investimenti e più in generale dei conti e del bilancio del partito. In questo senso ha avuto diversi contatti - anche riservati - e incontri proprio con Bonet per adottare strategie e acquisire informazioni sull'operazione. In questo Castelli, si è avvalso anche di Lubiana Restaini, già impiegata al ministero dello Sviluppo, e attualmente all'Ufficio legislativo della Pcm. È "vicina" al deputato Pdl Filippo Ascierto, ma soprattutto importanti sono i suoi rapporti con alcuni leghisti (Calderoli, Castelli, Galli, Rivolta) con cui ha un'assidua frequentazione. Ed è proprio la Lusiana che ha creato una serie di incontri, a Como, Milano, Roma, tra Bonet e Castelli per carpire informazioni sull'operato di Belsito e acquisire documentazione e dossier al riguardo dell'operato di Belsito». È un'attività che il tesoriere del Carroccio cerca di fermare. Al telefono con la segretaria amministrativa Nadia Dagrada li definisce «i due scemi», ma poi è proprio la donna a esortarlo «a parlare con il "capo" Bossi per far allontanare Castelli dal comitato amministrativo ed evitare così controlli sui conti e sulle uscite fatte a favore della famiglia». Belsito non immagina che a tradirlo è stato proprio Bonet. Lo scopre l'8 febbraio scorso quando viene contattato da Dagrada. Dagrada: Ti sto continuando a chiamare perché è arrivata una raccomandata di Bonet alla Lega Nord Consiglio federale, alla tua attenzione. È stata inviata anche a Castelli e Stiffoni Belsito: Aprila Dagrada: iio sottoscritto Stefano Bonet, codice, riferimento all'operazione finanziaria che ha portato al trasferimento di fondi appartenenti al partito Lega Nord sul mio conto corrente personale per la somma di 4 milioni e mezzo, nonché sul conto della società di consulenza cipriota Kris Enterprise per la somma di 1.200.000, con la presente dichiaro, la piena volontà e disponibilità nel collaborare a far rientrare i soldi nei conti del partito e in tal senso mi faccio portavoce della medesima volontà dell'avvocato Scala, amministratore della Krispa. Dichiaro inoltre la sospensione del predetto importo pari a euro 4 milioni e mezzo, non accreditato sul mio conto, ma appunto in sospeso presso la banca di Nicosia». «Come giustifico Calderoli?» Belsito capisce che la situazione sta precipitando e cerca di correre ai ripari. Ma pianifica anche una serie di richieste e ricatti per assicurarsi il futuro: «Mi posso far mandare in Eni, però meglio alla Rai, alle Poste». In realtà è preoccupato di non riuscire a ricostruire ogni spesa e il 26 febbraio si sfoga con Dagrada. Belsito: Quelli di Cald (Calderoli), come faccio? Come li giustifico quelli? Dagrada: Ma quello è un... nella cosa che c'hai, quello non è un grosso problema! Nell'arco dell'anno non è un problema quello, è un problema quello di tutto il resto! Però t'ho detto, bisogna fare i conti precisi! Già da settimane Bonet ha accettato di incontrare alcuni esponenti della Lega, in particolare Castelli. Il primo appuntamento risale al 3 febbraio scorso quando i carabinieri registrano una telefonata tra i due. Castelli: Signor Bonet, buongiorno è Castelli. Bonet: Onorevole buongiorno. Castelli: Senta per l'appuntamento di oggi io le proponevo la sala vip della Sea, potrebbe andarle bene? Bonet: La Sea, cioè aeroporti Castelli: Lì a Linate? Bonet: Linate va bene. A Bonet viene proposto di incontrare anche Roberto Maroni, ma non se ne fa nulla e lui continua a dialogare con Castelli. E il 22 marzo scorso, parlando con Romolo Girardelli (il procacciatore d'affari indicato come referente della cosca De Stefano che era socio di Belsito), gli racconta l'esito dei colloqui. Annotano i carabinieri: «Bonet riferisce che il partito dopo aver ricevuto la restituzione dei residui dei fondi Tanzania e gli altri soldi da Bonet, vuole coprire Belsito. Bonet poi precisa che farà una denuncia contro Belsito per le tangenti prese da Fincantieri». Effettivamente per anni i tre hanno avuto contatti con numerose aziende per ottenere commesse. Nella lista degli intermediari era stato indicato anche il geometra Marcello Ferraina, candidato per la Lega all'europarlamento, che però precisa «di non aver mai incontrato, né conosciuto Belsito». Affari in Vaticano e con Fincantieri Tra i filoni che saranno approfonditi c'è quello che porta direttamente alla Santa Sede. Nell'informativa i carabinieri svelano che «Bonet e la Restaini collaborano con Andromeda, l'associazione per la sicurezza di Filippo Ascierto, sede anche dell'unità locale di "Polare" (una delle società di Bonet) a Roma. Insieme stanno costituendo a Roma un osservatorio per la pubblica amministrazione da affiancare a "Polare". Dopo vari incontri, insieme a don Pino Esposito, l'arcivescovo Zygmunt Zimoswki e altri soggetti, hanno in atto trattative per vari progetti con le strutture sanitarie del Vaticano e per alcuni investimenti in Paesi dell'Est Europa da realizzare con "Polare". In una telefonata intercettata Bonet dice: "Quello che stiamo facendo sul Vaticano, centoventitremila cliniche nel mondo sotto il controllo del Vaticano che oggi non controlla niente" e dice "facci l'Osservatorio sull'innovazione" e da domani parte"». Un altro affare trattato dal gruppo fa emergere «il ruolo strategico di Belsito in Fincantieri, il quale per agevolare la società "Santarossa Spa" che produce arredamenti per la casa ed anche per il settore navale veniva pagato regolarmente da questi con la copertura di un contratto di lavoro (ieri con una nota Fincantieri ha smentito di aver mai pagato commesse o tangenti, ndr ). Infatti qualche giorno prima Belsito aveva ricevuto altri 15.000 euro da questi. E Santarossa ha riferito di aver tirato fuori più di 1.500.000, di euro nell'ultimo anno per Belsito e per l'amministratore di Fincantieri Giuseppe Bono». Fonte: corriere.it

Una finta caparra. Sono il tesoriere più pazzo del mondo

Belsito paga per evitare una denuncia a una dipendente della Lega accusata di truffa e falsifica una delibera per investire in Tanzania MILANO - «Il tesoriere più pazzo del mondo». Autodefinizione di Francesco Belsito. Il bancomat della Lega. Che oltre a tamponare «i costi della famiglia» Bossi sostenuti con i soldi pubblici, e oltre a curare i propri affari sul filo di quell'appropriazione indebita ai danni della Lega sui quali indagano i pm milanesi Robledo-Pellicano-Filippini per gli investimenti dei rimborsi elettorali in Tanzania e Cipro, a volte risolveva anche reali esigenze del partito, seppure di genere non esattamente commendevole. Come quando all'inizio di febbraio - spiegano i carabinieri del Noe ai pm napoletani sulla base delle intercettazioni tra Belsito e la responsabile contabile leghista Nadia Dagrada - corre a «prelevare denaro utilizzato per redimere diatribe private ed elargire 300.000 euro all'imprenditrice Silvana Corrado Quarantotto affinché costei, gravata da ingenti debiti aziendali, evitasse di denunciare una dipendente della Lega accusata di truffa, ed evitare così un danno di immagine della Lega». Finta caparra per evitare la denuncia La modalità escogitata dal tesoriere leghista è singolarmente simile allo schema di recente emerso già in indagini su esponenti di altri partiti, come il pd Filippo Penati o il pdl Massimo Ponzoni: e cioè il ricorso a una finta caparra, da lasciare poi scadere nel quadro di un fittizio affare immobiliare. Belsito : «Quel capannone che loro hanno (la ditta Corrado sas, ndr ), noi tecnicamente come Lega ci reggerebbe il fatto che io faccio un compromesso, poi dico "vabbeh ci abbiamo ripensato, non ci serve, ci hanno restituito la caparra", hai capito? Cosa dici? È l'unica, se no io non vedo niente». Ma perché la Lega doveva pagare il silenzio dell'imprenditrice? Spiega l'altro giorno Dagrada ai pm: «La questione riguardava una richiesta/truffa di 30.000 euro fatta secondo l'imprenditrice da una dipendente scorretta della Lega, che si era presentata come segretaria di Bossi e millantando vicinanza con lui, per una pratica di finanziamento di 1 milione di euro». È Helga Giordano, già assessore al Bilancio del Comune di Sedriano, poi dipendente di via Bellerio come contabile, quindi a suo dire mobbizzata e licenziata all'inizio del 2012. Al pm napoletano Curcio il 3 aprile assicura che «a Belsito avevo spiegato che erano tutte fandonie e che mi ero limitata a intermediare senza millantare alcunché» con Silvana Corrado Quarantotto. Fatto sta che, conferma ora Dagrada , «Belsito consegnò personalmente all'imprenditrice un assegno di 140.000 euro», e poi altri «130.000 con un compromesso fittizio per l'acquisto di un capannone della Corrado». E aggiunge un dettaglio da barzelletta: «Proprio stamane», cioè il giorno delle perquisizioni, «sapevo che Belsito le avrebbe consegnato un altro assegno di 40.000 euro a Genova nel solito bar». La delibera di partito sbianchettata Come ha fatto il tesoriere della Lega a operare l'acrobatico investimento in Tanzania di 7 milioni di rimborsi elettorali spediti a Cipro con l'intermediazione dell'imprenditore Stefano Bonet? La risposta traspare dall'argomento di una conversazione intercettata l'8 febbraio. In essa, riassumono i carabinieri, Belsito spiega a Dagrada che «con Bonet collabora da almeno 3 anni e che il 70% dei 450 milioni di euro di fatturato della "Po.La.Re." (la società genovese di Bonet) è merito suo, realizzato grazie ai suoi poteri "relazionali" da tesoriere della Lega». Qui Belsito e Dagrada finiscono con parlare «di una delibera della Lega», quella «che prevede per Belsito una autonomia di firma per le operazioni finanziarie sino a 150.000 euro»: solo che «Belsito l'avrebbe modificata, cancellando la riga della delibera nella parte in cui specificava questo limite. E ciò al fine di poter impartire alla banca diposizioni per effettuare proprio l'operazione dei 7 milioni di euro, poi dati a Bonet per l'investimento in Tanzania». Rosy Mauro e «lo scandalo del 1996» Sulla vicepresidente leghista del Senato, Belsito e Dagrada non sono teneri quando le attribuiscono ripetute elargizioni di denaro come i 29.150 franchi svizzeri, robusti finanziamenti al sindacato padano Sinpa (60.000 euro ancora nel 2011), 120.000 euro di costo di diplomi e lauree in Svizzera per lei e per il suo segretario particolare al Senato, cessione di un'auto a condizioni di favore. Ma in più di un'intercettazione spunta un'altra ragione per cui Rosy Mauro non sarebbe in condizione di «fare la spiritosa»: soldi a «l'amico della tua tipa», un uomo nella sua orbita, di cui si evoca già uno «scandalo» di 16 anni fa. Dagrada : «L'amico della tua tipa che ha preso tutti quei soldi, perché cavolo li ha presi, te lo sei fatto dire?». Belsito : «Non gliel'ho chiesto». Dagrada : «I capelli bianchi, sai che gli hai fatto quella roba...». Belsito : «Ah sì». Dagrada : «Ecco, eh! Tu le armi in mano ce l'hai, questi sono convinti che tu non parli, stai lì e subisci... Te lo ricordi quanto? Belsito : «Eeeeh certo... Perché, secondo te, il terzo che ho pagato è normale? Dai, su, non mi fare ridere». Dagrada : «E appunto ti sto dicendo, capelli bianchi, per giunta era dentro in quello scandalo là del '96, che ti avevo detto o Vieni o Vieri, non mi ricordo più come cavolo si chiama». Belsito : «Vieni». Dagrada : «Ecco, quelli lì (soldi, ndr ) per che cosa sono? Che, lui non è niente, eh? A chi sono finiti poi?». Belsito : «Eh, lo so io». Dagrada : «Ecco, bon. E allora...». Belsito : «Io quello che non capisco di lei, che fa ancora la spiritosa». Dagrada : «Ma secondo me lei è convinta che tu non parlerai mai». Il «Vieni» del «1996» è un cognome storpiato: il 7 febbraio 1996, infatti, Basilio Rizzo - oggi presidente del Consiglio comunale milanese e all'epoca consigliere d'opposizione al sindaco leghista Formentini, quando anche l'allora segretaria cittadina leghista Rosy Mauro era consigliere comunale - aveva presentato una interrogazione sull'autorizzazione concessa a trattativa privata il 22 gennaio dall'azienda municipale della nettezza urbana «Amsa» alla cooperativa «Astri» per un impianto di selezione automatica dei rifiuti. Erano così emerse alcune stranezze: Dalmirino Ovieni (non Vieni), interlocutore di «Amsa» per conto della cooperativa «Astri», figurava consigliere in una società (la «Ba.Co. costruzioni srl») di cui Rosy Mauro per alcuni mesi nel 1994 era stata amministratrice, e dalla cui sede erano stati inviati all'Amsa i fax con le offerte della cooperativa «Astri», recanti il nome di Ovieni come mittente; Ovieni, che nel 1994 aveva trascorso un periodo di custodia cautelare per fatti di corruzione, era infine anche fondatore e consigliere della società consortile «Il Quartiere», formata dal sindacato leghista e presieduta da Rosy Mauro. Cinque cronisti politici del Corriere , querelati da Rosy Mauro per averne scritto, in sede penale furono condannati per diffamazione, mentre in sede civile la richiesta di risarcimento fu respinta. Interrogata ora dai pm Filippini e Woodcock, Dagrada chiarisce che i soldi pagati da Belsito all'amico di Rosy Mauro sono stati 48.000 euro nel 2011: «Per quanto attiene agli assegni circolari di tale Delmirino Ovieni, posso dire sono stati fatti pagamenti da parte di Belsito, riconducibile a Rosy Mauro. I 48.000 euro nel 2011 apparivano privi di causa, e Belsito volutamente non mi ha risposto. Chiesi chi fosse Ovieni, ma anche a questa domanda non mi ha risposto. Allora ho fatto una ricerca su Google e ho visto che c'era un rapporto pregresso tra Ovieni e Mauro». Fonte: corriere.it

La contabile della Lega: lauree pagate in Svizzera a Rosy Mauro e all'amico.

Saldate le fatture degli avvocati di Riccardo, difeso per un assegno.
Soldi in nero presi da Bossi. «Sapeva delle irregolarità»

ROMA - Venti milioni di lire «in nero» presi da Bossi e consegnati al partito. Una sospetta tangente che il Senatur avrebbe accettato oltre dieci anni fa emerge dai verbali dell'inchiesta sui falsi bilanci della Lega Nord.
A rivelarlo è Nadia Dagrada, la segretaria amministrativa che con le sue telefonate notturne con il tesoriere Francesco Belsito ha svelato come veniva gestita la cassa del partito. E quattro giorni fa, davanti ai pubblici ministeri di Napoli e Milano, ha confermato come i rimborsi elettorali fossero diventati la cassa privata del leader e della sua famiglia allargata alla vicepresidente Rosy Mauro e al suo amante poliziotto.
È stata lei ad elencare a quanto ammontano gli esborsi per le spese mediche e legali, le auto di piccola e grossa cilindrata, le vacanze, ma anche i diplomi e le lauree ottenuti sborsando centinaia di migliaia di euro. Una girandola di fatture false, bonifici e assegni che fa dire a Daniela Cantamessa, assistente particolare di Bossi, durante la verbalizzazione: «Lo avevo avvisato delle irregolarità di Belsito, o meglio della sua superficialità ed incompetenza e del fatto che Rosy Mauro era un pericolo sia politicamente e sia per i suoi rapporti con la famiglia Bossi. Non nominai a Bossi la moglie perché mi sembrava indelicato».

Contanti in «nero» e bilanci falsi
Sono le 10.30 di martedì scorso quando Dagrada comincia l'interrogatorio che andrà avanti per circa tredici ore.
Le fanno ascoltare le conversazioni intercettate. Sollecitano chiarimenti. E lei non si sottrae. «Mi si chiede se siano entrati nelle casse della Lega Nord soldi in contante "in nero". Sì, mi ricordo che alcuni anni fa l'ex amministratore della Lega Balocchi, portò in cassa venti milioni di lire in contanti dopo essersi recato nell'ufficio di Bossi. Anni fa sapevo che c'era il "nero" che finanziava il partito, ma io ho assistito solo a questo episodio».
Riguardo a una telefonata con Belsito spiega: «Castelli stava insistendo, anche con me, per vedere i conti del partito e quindi io consiglio a Belsito di riferire al "capo" Umberto Bossi, vista la consistenza delle spese sostenute per la famiglia Bossi, di non permettere a Castelli di fare questi controlli e che quindi per poter continuare a pagare le spese della famiglia. Bisognava fare ricorso al "nero", cioè a incassarli senza registrazione contabile alcuna, così come ha fatto in passato Balocchi quando è andato nell'ufficio di Bossi ed è uscito subito dopo con delle mazzette di soldi per 20 milioni di lire. Balocchi venne da me mi consegnò i 20 milioni di lire dicendomi di non registrarli e di metterli in cassaforte che poi ci avrebbe pensato lui». «Quando c'era Balocchi io avevo accesso a tutti i dati. Per il bilancio del 2010 dissi al Belsito, poiché non avevo la disponibilità della documentazione che giustificava le spese caricate sui conti del Banco di Napoli e della Banca Aletti, che avevo difficoltà a redigere il bilancio poiché non avevo una visione chiara delle cose. Tuttavia, la mancata redazione dei bilanci nei termini di legge avrebbe impedito alla Lega Nord di incassare i contributi o i rimborsi elettorali erogati dalla Camera dei Deputati, anche se la documentazione non era completa e non avevo tutte le pezze giustificative, decisi comunque di procedere alla stesura del bilancio consapevole del fatto che responsabilità non era mia ma di Belsito che era ben consapevole di queste criticità e di cui si assumeva la piena responsabilità. A seguito della presentazione del bilancio 2010, la Lega incassò circa 18.000.000 di euro per il 2011...
Belsito non aveva e non ha una gestione trasparente delle spese che vengono caricate sulla Lega, cioè lui ci diceva di effettuare pagamenti senza che io e le mie colleghe dell'amministrazione vedessimo le fatture o comunque i documenti giustificativi...».

Dottori, auto e diplomi
«Gli unici soldi della Lega Nord sono quelli del contributo pubblico che vengono destinati per le finalità istituzionali previste dalla legge. Effettivamente vi sono una serie di spese e somme di denaro provenienti dai finanziamenti pubblici erogati dallo Stato al partito che nulla hanno a che vedere con le finalità e l'attività del partito politico. Mi risulta, ad esempio, che con i soldi pubblici sia stata comprata l'auto Audi A6 acquistata a Renzo Bossi e poi passata a Belsito, ancora sono stati usati soldi pubblici per pagare i conti dei medici, anche per cure ricevute dalla famiglia Bossi. Belsito mi ha riferito di aver pagato con i soldi della Lega provenienti dal finanziamento pubblico cartelle esattoriali e conti vari di Riccardo Bossi... mi spiegò Belsito che ha fatto comprare una Smart per Renzo Bossi che è intestata alla Lega e che ad oggi, dopo essere stata usata da Renzo per qualche mese è rientrata nella nostra disponibilità; analoga cosa è successa per il Bmw X5 in uso a Riccardo Bossi a cui abbiamo pagato il riscatto del leasing perché non era in grado di affrontarne gli oneri, pari a euro 12 o 21.000 euro. Svolgo attività di contabile dal 1998, ho immediatamente notato che con la gestione Belsito c'è stato un incremento sostanziale delle spese che gravano sulle casse del partito».
«Effettivamente e con dolore dico che sono stati utilizzati soldi del finanziamento pubblico destinati al partito della Lega per pagare conti e per effettuare pagamenti personali in particolare della famiglia Bossi.
Posso dire che la situazione è precipitata dopo la malattia del segretario federale Umberto Bossi, nell'anno 2004. Dopo il 2004 c'è stato «l'inizio della fine»: si è cominciato con il primo errore consistito nel fare un contratto di consulenza a Bruxelles a Riccardo Bossi, se non ricordo male da parte dell'onorevole Speroni; dopo di che si sono cominciate a pagare, sempre con i soldi provenienti dal finanziamento pubblico, una serie di spese personali a vantaggio di Riccardo Bossi e degli altri familiari dell'onorevole Bossi; in particolare con i soldi della Lega venivano pagati i conti personali di Riccardo Bossi per migliaia di euro e degli altri familiari, come per esempio i conti dei medici sia per le cure dell'onorevole Bossi sia dei suoi figli.
Tornando su Bossi Riccardo, so che Belsito ha pagato alcune fatture per gli avvocati difensori di Riccardo, perché aveva un assegno protestato di circa 12.000 euro. Renzo Bossi dal 2010 sta "prendendo" una laurea ad un'università privata di Londra e so che ogni tanto ci va a frequentare e chiaramente le spese sono tutte a carico della Lega, ed anche qui credo che il costo sia sui 130.000 euro».

Manuela, le vacanze e la terrazza
Si arriva così alla casa di Gemonio. Dichiara Dagrada: «Per quanto riguardo la ristrutturazione del terrazzo so che nel 2010 sono stati pagati 25.000 euro con bonifico bancario della Lega. Ci sono da pagare ancora 60.000 euro e so che la ditta voleva fare causa per il mancato pagamento. Belsito ha pagato al segretario Bossi ed alla sua famiglia, con i soldi della Lega provenienti dai contributi pubblici, un soggiorno estivo nel 2011 ad Alassio, ma non è stato fatto dai Bossi perché il segretario ebbe un infortunio al braccio qualche giorno prima».
Poi passa alla moglie del leader Manuela Marrone: «Sono stati versati dal conto corrente della Lega del Banco di Napoli di Roma, "contributi diversi" almeno 80-100.000 euro per sostenere la "scuola Bosina" di Varese, dove penso che la signora Marrone riveste il ruolo di preside. Mi risulta che ulteriori versamenti per un ammontare di 800.000 euro sono stati erogati a favore della stesso istituto scolastico dal conto dei fondi della cosiddetta legge Mancia. Ho appreso circa un mese fa da Belsito, che nel 2010-2011 gli era stato chiesto da Marrone Manuela di accantonare, per cassa, una cifra per il sostegno della scuola Bosina, pari a circa 900.000 o l milione di euro per esigenze della scuola Bosina. Lui si mostrava disponibile ad accettare questa richiesta, io gli manifestai il mio disappunto e la mia netta contrarietà perché ritenevo e ritengo che l'accantonamento deve essere trasparente e dette operazioni devono essere regolarmente iscritto nel bilancio e che non c'era motivo di farlo in maniera nascosta come chiedeva la Marrone al Belsito. Chiarendo nel merito con Belsito che questa richiesta aveva una doppia valenza, una per Belsito di avere sempre più una forte ascesa nei confronti dei Bossi e l'altra la spregiudicatezza della Marrone nel richiedere la complicità del Belsito per attingere ai fondi del partito. Non volevo che i fondi pubblici del partito venissero utilizzate per le esigenze personali, pertanto lo consigliavo di fare dei bonifici tracciabili sui versamenti a favore della "scuola Bosina"».

Rosy e l'«amante» poliziotto
«A proposito di Rosy Mauro, mi risulta per avermelo detto sempre il Belsito che anche a suo favore siano state erogate somme e la fatture relativa ad una visita cardiologica effettuata dalla Rosy Mauro, per un ammontare di alcune centinaia di euro, pagata con i soldi della Lega; Belsito mi ha raccontato e rappresentato di altre somme della Lega di cui la Rosy Mauro si sarebbe appropriata, di cui, tuttavia, io non ho visto le carte».
Poco dopo parla però di «un prelievo bancario 29,150 franchi svizzeri». Nella lista dei "beneficiati" c'è anche «l'amante di Rosy Mauro, Belsito mi ha riferito che Pier Giuramosca, poliziotto, attualmente suo segretario particolare, è stato da lei aiutato ad ottenere un mutuo agevolato e gli sono stati pagati soldi per conseguire un titolo di studio. Il poliziotto è attualmente in aspettativa ed ha un contratto con la Vicepresidenza del Senato, dove la Rosy è Vicepresidente dello stesso organo. Nel 2011 sono stati versati circa 60.000 al Sinpa. Belsito mi ha poi riferito che sono stati dati altri soldi in contanti al Pier Giuramosca, compagno della Rosy Mauro, affinché pagasse le rate per le spese della scuola privata e conseguire il diploma e poi la laurea, credo "ottenuti" entrambi in Svizzera.
Inoltre Belsito mi ha detto anche di aver pagato le rate per il diploma e poi la laurea della stessa Rosy Mauro, pagando con i soldi della Lega. Per quanto riferitomi da Belsito i titoli di studio menzionati sono costati circa 120.000 euro prelevati dalla cassa della Lega. Credo che i titoli sono stati conseguiti in Svizzera».
«Belsito mi ha sicuramente detto di aver registrato un suo colloquio con l'onorevole Bossi - colloquio nel quale aveva "ricordato" al segretario tutte le spese sostenute nell'interesse personale della famiglia Bossi. Non so se Belsito abbia effettuato tale registrazione. Belsito mi disse di volerla utilizzare come strumento di pressione dal momento che volevano farlo fuori». Poi spiega perché voleva evitare i controlli chiesti da Roberto Castelli: «Ritenevo che attraverso lui Rosy Mauro avrebbe potuto utilizzare la conoscenza dei fatti contro gli interessi del mio segretario e del mio "movimento"».

Fonte: corriere.it

6 apr 2012

«Gli manteniamo moglie e figli Se lo sanno i militanti è finito»

Nella cassaforte del tesoriere spunta un fascicolo intestato «The Family»: «Renzo neanche il caffé in Regione si paga...

MILANO - Le prime conferme al fiume di parole intercettate nel gennaio e febbraio scorsi tra il tesoriere leghista Francesco Belsito e la responsabile contabile Nadia Dagrada arrivano dall'interrogatorio della testimone e dal contenuto della cassaforte dell'indagato sequestrata dalla Guardia di Finanza milanese: compreso un fascicoletto intestato «The Family», spese sanitarie e scolastiche, multe pagate, l'assicurazione per la casa di Gemonio, un carnet di assegni con sopra la scritta «Umberto Bossi», 20.000 euro di spese per il tutor del figlio Renzo. E così, dopo il via libera della Camera ai pm milanesi del secondo dipartimento Robledo-Pellicano-Filippini, prende corpo quella che i carabinieri del Noe, nel rapporto per i pm napoletani Woodcock-Piscitelli-Curcio, definiscono «la serie di confessioni reciproche» di Belsito e Dagrada nei giorni in cui il tesoriere temeva di essere allontanato dopo i primi scoop sugli investimenti di 7 milioni di rimborsi elettorali in Tanzania: confidenze che «elencano i benefit che da tempo, e tutt'ora, vengono elargiti dalla cassa del partito a favore di interessi privati di Bossi e dei suoi familiari, di Rosy Mauro e di altri soggetti del partito e non». In più i militari valorizzano anche un riferimento della donna al «"nero" che Bossi dava tempo fa al partito», e che ritengono di interpretare come «contante» che «sottende» una «area dell'illecito su cui si sviluppano tematiche corruttive».

5 apr 2012

Case, Porsche, lauree. La lista dei soldi ai Bossi. Le telefonate tra una segretaria del Senatur e Belsito: «Dillo a Umberto: se io parlo, finite in manette»

Le intercettazioni / Spuntano elargizioni a favore dei figli del segretario e di Rosy Mauro
MILANO - È una fitta sequela di telefonate, intercettate dai carabinieri del Noe per la Procura di Napoli, a cogliere l'indagato tesoriere leghista Francesco Belsito mentre, sfogandosi al telefono in febbraio con la non indagata impiegata amministrativa leghista Nadia Dagrada, «rievoca tutte le elargizioni fatte ai Bossi e alla vicepresidente del Senato Rosy Mauro»; si vede consigliare di «fare tutte le copie dei documenti che dimostrano i pagamenti fatti a loro favore e di nascondere gli originali in una cassetta di sicurezza»; e «riferisce di essere in possesso di copiosa documentazione e di una registrazione compromettente per la Lega».
Dillo a Bossi: se io parlo, voi finite in manette
Il contesto delle conversazioni è la vigilia della convocazione che Belsito riceve da Bossi a Roma e che, anche sulla base del gelido commento di Rosy Mauro («la vedo brutta»), interpreta come anticipo della propria defenestrazione da tesoriere leghista, a causa delle spinte che dentro il partito (a suo dire specie da Castelli e Stiffoni) lo vorrebbero estromettere in seguito alle prime notizie giornalistiche sui milioni di euro di rimborsi elettorali investiti da Belsito in Tanzania. Ma altro che Tanzania, prospetta la responsabile leghista dei gadget nel suggerire a Belsito: «Gli dici (a Bossi, ndr): capo, guarda che è meglio sia ben chiaro: se queste persone mettono mano ai conti del Federale, vedono quelle che sono le spese di tua moglie, dei tuoi figli, e a questo punto salta la Lega (...). Papale papale glielo devi dire: ragazzi, forse non avete capito che, se io parlo, voi finite in manette o con i forconi appesi alla Lega». L'elenco che i due riassumono al telefono poco prima di mezzogiorno del 26 febbraio (e che viene riassunto dai carabinieri) comprende «i costi di tre lauree pagate con i soldi della Lega», «i soldi per il diploma (Renzo Bossi)»; «i 670.000 euro per il 2011 e Nadia dice che non ha giustificativi, oltre ad altre somme ingenti per gli altri anni»; «le autovetture affittate per Riccardo Bossi, tra cui una Porsche»; «i costi per pagare i decreti ingiuntivi di Riccardo Bossi»; «le fatture pagate per l'avvocato di Riccardo Bossi»; «altre spese pagate anche ai tempi del precedente tesoriere Balocchi»; «una casa in affitto pagata a Brescia»; «i 300.000 euro destinati alla scuola Bosina di Varese per Manuela Marrone (moglie di Bossi, ndr), che Belsito non sa come giustificare, presi nel 2011 per far fare loro un mutuo e che lui ha da parte in una cassetta di sicurezza». I «costi liquidi» dei ragazzi di Renzo In altre telefonate la lista si allunga con «l'ultima macchina del Principe, 50.000 euro... e certo che c'ho la fattura!». Oppure con «i costi liquidi dei ragazzi di Renzo» (forse gli uomini di scorta), che Belsito ricorda in «151.000» euro ma Dagrada corregge in «no, un momento, 251mila euro sono i ragazzi, ma sono fuori gli alberghi, che non ti riesco a scindere quando girano con lui, mi entrano nel cumulo e riprendere tutte le fatture è impossibile». Poi c'è la casa di Gemonio, e più precisamente «i soldi ancora da dare per le ristrutturazioni del terrazzo»: «Che io sappia, pare che siano 5-6.000 euro», ridimensiona Belsito alla Dagrada, che teme invece la somma sia molto più alta anche a causa di minacce di azioni legali dai fornitori, e che sprona Belsito: «Gli devi dire poi: capo (Bossi, ndr), c'è da aggiungere l'auto di tuo figlio». I franchi e gli euro per Rosy Mauro Spesso Belsito ironizza su chi nel partito lo avversa ma non sarebbe in condizione di farlo perché parimenti da lui beneficato: «Sai quanto gli ho dato l'altro giorno alla nera? (Rosy Mauro, ndr)? Quasi 29mila, 29.142 in franchi eh... vuoi che ti dica tutti gli altri di prima?»: ovvero quelle che poi gli inquirenti traducono come «altre somme che le dà mensilmente», e come i «200.000-300.000 euro dati al sindacato padano Sinpa» che avrebbe «bilanci truccati». La dipendente leghista Dagrada raccoglie lo spunto sull'atteggiamento di Rosy Mauro e rilancia, invitando Belsito a dire alla vicepresidente del Senato: «Se apro bocca io, il capo salta e se salta il capo tu sei morta...Perché se lei non c'ha il capo a difenderla, lei domani è in mezzo a una strada, e non è detto con le gambe intere». A Bossi, la donna auspica che il tesoriere dica chiaramente: «Gli devi dire: noi manteniamo tuo figlio Riccardo, tuo figlio Renzo, tu gli devi dire guarda che tu non versi i soldi, tuo figlio nemmeno, ed è da quando sei stato male. Gli devi dire: capo, io so queste cose e finché io sono qui io non tradirò mai, ma ricordati cosa c'è in ballo, perché se viene fuori lo capisci che cosa può succedere, altro che barbari sognanti». «Ho una registrazione e documenti come prova» Si prepara un ricatto al Senatur? No, questo no, almeno a sentire i due che parlano al telefono la notte dell'8 febbraio. Nadia Dagrada suggerisce: «Non è che tu glielo metti come ricatto», piuttosto si tratterebbe di informare Bossi che «i militanti si spaventano di più se esce fuori Rosy che non la Tanzania». Belsito si prepara a giocare le proprie carte se il partito lo metterà al muro. E dice di poterlo provare : «Dico cosa mi volevano far fare, glielo dico della Fondazione e... che dovevo portargli dei soldi». Dagrada gli domanda: «Giusto! Ma tu quello poi ce l'hai registrato?». Belsito: «Sì». Dagrada: «Dopodiché si affrontano le due signore (Rosy Mauro e Manuela Marrone, ndr) ....altro che la Tanzania se vanno in mano ai militanti! Non vengono a prendere me, le dici eh, vengono a prendere voi!».

Fonte: corriere.it

25 feb 2011

Dieci milioni per insegnare federalismo. I soldi agli atenei (uno del Nord e uno del Sud) saranno assegnati dal Ministero senza una gara pubblica

Riforme e costi

Fondi per formare i dirigenti degli enti locali in due università

ROMA - Ai disfattisti accaniti contro la riforma dell’università di Mariastella Gelmini dev’essere sfuggito. E come a loro, dev’essere sfuggito anche a chi si lamenta che il federalismo fiscale rischia di essere un guazzabuglio difficile da capire per gli stessi amministratori locali. Ebbene, mentre la Cgil denunciava che le università italiane si vedranno ridurre quest’anno i fondi statali di 839 milioni e i poveri ricercatori restavano quasi all’asciutto, proprio nella riforma Gelmini è spuntato un finanziamento nuovo di zecca: due milioni l’anno per cinque anni. Totale, dieci milioni. Da destinare a uno scopo decisamente particolare: spiegare ai dirigenti degli enti locali i segreti del nostro futuro federalista. Ci credereste?

Quei soldi, c’è scritto nell’articolo 28, servono al ministro per «concedere contributi per il finanziamento di iniziative di studio, ricerca e formazione sviluppate da università » in collaborazione «con le regioni e gli enti locali». Tutto ciò in vista «delle nuove responsabilità connesse all’applicazione del federalismo fiscale». Atenei, beninteso, non soltanto pubblici: potranno avere i quattrini pure quelli privati, nonché «fondazioni tra università ed enti locali anche appositamente costituite». E qui viene il bello. Perché dopo aver stabilito questo principio, la legge dice che non ci potranno essere più di due beneficiari, uno dei quali «avente sede nelle aree dell’obiettivo uno». Cioè nelle regioni meridionali ancora considerate sottosviluppate dall’Unione europea. Insomma, una norma fatta apposta per distribuire un po’ di soldi a una università del Nord e a uno del Sud. Le loro identità? La riforma Gelmini dice che a individuarle ci penserà il ministero. Quanto al modo che verrà seguito, è del tutto misterioso. L’articolo che istituisce il fondo prevede che «con decreto del ministero, da emanarsi entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge », cioè prima del 29 maggio prossimo, «sono stabiliti i criteri e le modalità di attuazione delle presenti disposizioni». Aggiungendo però che sempre con il medesimo decreto «sono altresì individuati i soggetti destinatari». Perciò, se abbiamo capito bene, il 29 maggio sapremo quali saranno i due soggetti pubblici o privati scelti da Mariastella Gelmini, e perché. Senza una gara, né un concorso pubblico. Fatto piuttosto singolare, visto che al Fondo per la formazione e l’aggiornamento della dirigenza» possono accedere anche istituzioni private. A meno che, circostanza assai probabile, non si sappia già a chi devono andare i soldi.

Perché poi le università prescelte devono essere proprio due, di cui una al Sud? Forse che per un amministratore di Agrigento è più facile raggiungere, poniamo, Bari, anziché Roma? E per un sindaco friulano è più agevole recarsi in una città del Nord, come magari Torino, invece che nella capitale? Dove peraltro lo Stato già possiede proprie strutture create appositamente (e appositamente finanziate) per formare gli amministratori? Non esiste forse una meravigliosa scuola superiore di pubblica amministrazione, che peraltro ha sedi anche a Caserta, Acireale, Reggio Calabria e Bologna? E non disponiamo perfino di una magnifica scuola superiore di economia e finanza, la ex Ezio Vanoni, in teoria la struttura più idonea per dare lezioni di federalismo fiscale? Perché chi deve istruire gli amministratori locali su quella riforma, se non chi l’ha fatta? La verità è che questa storia emana un odore molto simile a quello della vecchia vicenda della Scuola superiore della magistratura, che Roberto Castelli aveva dislocato, oltre che a Bergamo e Latina, pure a Catanzaro: sede che il successore del ministro leghista, Clemente Mastella aveva poi dirottato nella sua Benevento. Odore, dunque, decisamente politico. Anche bipartisan, come vedremo.

Imperscrutabile, infine, è il legame fra il ministero dell’Università e il federalismo fiscale. A meno che la riforma Gelmini non sia stata soltanto un pretesto. Lo ha sospettato, senza peli sulla lingua, Pierfelice Zazzera. Quando il 23 novembre del 2010 l’emendamento istitutivo di questo fondo per la formazione, recapitato all’improvviso in aula dalla commissione Cultura della Camera presieduta dall’azzurra Valentina Aprea, è stato messo ai voti, il deputato dipietrista ha fatto mettere a verbale: «In un momento in cui non si trova la copertura dei soldi previsti per i ricercatori, si trovano comunque due milioni per fare corsi sul federalismo fiscale. Mi sa tanto di lottizzazione politica dei finanziamenti o di qualche marchetta ». Sfogo inutile. L’articolo che fa spendere dieci milioni per questa curiosa iniziativa è passato con una maggioranza schiacciante grazie anche ai voti del Partito democratico, che pure ha bombardato la riforma Gelmini. È successo pochi giorni prima della clamorosa bocciatura rifilata invece all’emendamento presentato da Bruno Tabacci e Marco Calgaro che puntava a dirottare appena 20 milioni di euro dai lauti rimborsi elettorali destinati alle casse dei partiti alle buste paga dei ricercatori universitari. Anche in questo caso, con un aiutino dal centrosinistra.

Fonte: corriere.it

3 dic 2010

Desio, cade la giunta comunale: "Presenza delle cosche in Brianza"

Il sindaco: nessuna infiltrazione, solo ragioni politiche interne alla Lega

Undici consiglieri del centrosinistra e sei della Lega hanno firmato le dimissioni: si torna al voto

MILANO - Tornerà al voto il Comune brianzolo di Desio, dopo che l'amministrazione comunale guidata da Giampiero Mariani (Pdl) è caduta. La maggioranza dei consiglieri comunali venerdì ha firmato le proprie dimissioni, determinando così lo scioglimento automatico della giunta di centrodestra. Insieme all'opposizione (11 consiglieri) hanno firmato anche i 6 consiglieri della Lega Nord, fino a ieri in maggioranza. Alla base della crisi, il coinvolgimento di alcuni esponenti politici nell'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta: tra gli interessati il presidente del consiglio comunale Nicola Mazzacuva, il consigliere Natale Marrone e l'ex assessore provinciale Rosario Perri, tutti del Pdl. «Preso atto delle difficoltà nel proseguimento dell'attuale amministrazione - è la motivazione dei consiglieri del Carroccio -, resa particolarmente difficile a seguito di coinvolgimenti nell'inchiesta "Infinito", allo scopo di salvaguardare l'interesse dei cittadini e l'immagine della città, con senso di responsabilità i consiglieri leghisti hanno rassegnato le proprie dimissioni dal loro incarico, al fine di determinare lo scioglimento del consiglio comunale». Firmato Andrea Villa, Egidio Arienti, Elvio Gabani, Fabio Molinari, Tino Perego Marco Travagliati.

LA GIOIA DEL PD - Secondo Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd, «i leghisti, dopo le indagini del luglio scorso sulla 'ndrangheta che hanno visto coinvolti nelle intercettazioni, ancorché non indagati, alcuni esponenti del Pdl, chiedevano discontinuità. Oggi si sono dimessi, segno che la discontinuità richiesta non c'è stata». «A luglio avevamo chiesto l'intervento del ministro dell'Interno Roberto Maroni, ma qualche esponente leghista ci ha detto che esageravamo: oggi dovrà ricredersi - prosegue Civati -. C'è bisogno nelle amministrazioni di persone capaci di fare muro contro le infiltrazioni della criminalità nelle pubbliche amministrazioni e nell'economia. Criminalità che si infila negli appalti e che lucra sulle aggressioni al territorio. Oggi è un bel giorno per Desio, la Brianza e il Nord».

IL PDL: SOLO RAGIONI POLITICHE - «Nessuna infiltrazione mafiosa nella Giunta o nel Consiglio comunale di Desio, ma solo ragioni politiche interne alla Lega cittadina hanno determinato la situazione attuale», ha dichiarato la parlamentare e coordinatrice provinciale del Pdl Elena Centemero. «Non siamo insensibili - ha aggiunto - alla penetrazione della 'ndrangheta nel territorio della Brianza, come dimostra l'incontro pubblico che si terrà lunedì a Desio organizzato dalle nostre associazioni culturali con la partecipazione del sottosegretario Alfredo Mantovano. Siamo però contro la cultura indiscriminata del sospetto».

IL SINDACO: NESSUNA INFILTRAZIONE - «Il Consiglio Comunale di Desio non viene sciolto da organi governativi per sospette infiltrazioni malavitose, ma per una scelta di natura politica di alcuni consiglieri, che si assumeranno la responsabilità di aver infangato l'onorabilità degli amministratori e l'immagine della città», ha affermato il sindaco di Desio Giampiero Mariani. Il sindaco, con i consiglieri del Pdl, quelli di Indipendenti per Desio-UDC e Lista Civica Desio 2000, ha preso atto «della grave e irresponsabile decisione dei consiglieri del PD, Italia dei Valori, Desio Viva, Movimento 5 Stelle e della Lega Nord Padania di dimettersi provocando lo scioglimento del Consiglio Comunale e il commissariamento del Comune, in un momento in cui le istituzioni hanno il dovere di contrastare unite la 'ndrangheta e di garantire la massima trasparenza nella confusione strumentalmente generata».

«ESTRANEI ALL'INDAGINE INFINITO» - Entrando nel merito dell'indagine della Procura denominata «Infinito», il sindaco ha quindi precisato: «L'indagine riguarda azioni e sospetti tutti antecedenti la nuova operatività amministrativa. L'indagine Infinito, impropriamente richiamata dai dimissionari per giustificarsi rispetto ad uno scontro di natura politico-partitica, non ha evidenziato nessun atto, nessuna azione, nessun coinvolgimento, nessun tentativo che possa in alcun modo riguardare scelte amministrative anche della precedente giunta sempre condivise anche dagli esponenti della Lega Nord Padania». Il sindaco ha quindi ribadito anche a nome della giunta e dei consiglieri la «piena correttezza e la totale estraneità ai fatti evidenziati dall'indagine che ha avuto ed ha il pieno sostegno e plauso di tutta l'Amministrazione. Gli amministratori tutti hanno operato nel loro incarico impegnandosi a rispettare onore, dignità e fedeltà alle istituzioni come da dettato costituzionale».

Fonte: milano.corriere.it

15 lug 2010

Quote latte, una vicenda che paghiamo tutti

Un conto già versato di 4 miliardi, ai quali se ne aggiungerà un altro

La vicenda delle quote latte dimostra, anche a coloro che sono meno attenti alla microfisica degli equilibri politici, come la Lega possieda saldamente la golden share della politica italiana. Nessuno gliel’ha regalata ma il partito capeggiato da Umberto Bossi se l’è conquistata nella competizione elettorale e, successivamente, l’ha legittimata grazie a una condotta in cui ha saputo fondere in maniera originale unità di indirizzo, capacità tattica e retroterra valoriale. Stavolta però il Carroccio sta usando male il potere di veto che si è assicurato e ha ragione invece il ministro Giancarlo Galan che da giorni si sbraccia quasi in perfetta solitudine per richiamare alla coerenza una coalizione di governo che fa finta di non vedere. Forse proprio per evitare di contraddire i proprietari dell’azione d’oro.

La Lega in realtà sta rischiando di far pagare al Paese una scelta miope, quella di difendere sempre e comunque l’interesse immediato di piccole porzioni del proprio elettorato. I Cobas del latte sono costati già all’Italia all’incirca quattro miliardi di euro ai quali andrà aggiunto l’ammontare della maxi-multa (i pessimisti la stimano in un miliardo) che ci comminerà Bruxelles dopo l’apertura di una procedura di infrazione. Eppure Bossi insiste ed è disposto anche a far votare dalla maggioranza un atto di governo che serve nella buona sostanza a coprire l’impunità degli allevatori. E così facendo dimostra che pur possedendo la golden share gli manca una «leganomics », un orientamento di politica economica credibile che metta al riparo il suo stesso partito dalle pressioni delle micro- lobby.

La verità è che il sindacalismo di territorio sta mostrando la corda, si dimostra un alfabeto politico- culturale insufficiente di fronte alle sfide che il dopo-recessione impone. Prendiamo il delicato tema del rapporto tra banche e territorio. In Veneto i leghisti chiedono ai grandi istituti di credito presenti in regione di sfornare una tabellina, il rendiconto ragionieristico tra raccolta e impieghi su base micro-territoriale. In questo modo si dimostrerebbe o meno il supporto all’economia locale. Ma se le banche, parafrasando il famoso esempio di Lord Keynes, spendessero i soldi per far scavar buche, riceverebbero comunque l’applauso leghista? Purché tutto avvenga nel giardino di casa, non rimangono obiezioni di merito da avanzare? Viene da dire che forse ha più senso incalzare il sistema creditizio perché aiuti i distretti a uscire dall’afasia, favorisca le reti di impresa e accompagni gli imprenditori ad essere protagonisti sull’arena internazionale. Del resto senza avere un’idea delle trasformazioni in atto anche l’ansia di conquistare poltrone nelle fondazioni bancarie appare come la stanca ripetizione di vecchi moduli. L’economia locale c’entra poco.

Suona anche singolare come i leghisti non riescano nemmeno a pronunciare la parola «terziario ». Eppure le speranze delle piccole e medie imprese di sopravvivere alla gelata dipendono dalla capacità di produrre innovazione, di dialogare con il mondo delle professioni, di acquisire maggiori capacità nella gestione della finanza, di fare marketing. In assenza di una «leganomics » il Carroccio non riesce a fare i conti con tutto ciò e i suoi esponenti sembrano vagheggiare la costruzione di tanti Musei dell’Agricoltura e della Manifattura. Se dovesse andar così i Piccoli a quel punto sarebbero solo dei reperti archeologici.

Fonte: corriere.it

9 apr 2009

Coca nel bagaglio: arrestata segretaria Lega Nord

E`una dipendente del Parlamento italiano una delle due persone arrestate, lo scorso due aprile a Lugano, con otto chili di cocaina in valigia. Insolito sequestro, quello avvenuto il 2 Si tratta, infatti, della segretaria del gruppo parlamentare della Lega Nord a Roma. Insieme a lei, lo ricordiamo, è stato arrestato anche un uomo. Entrambi provenivano dal Brasile.

Le Guardie di confine hanno scovato lo stupefacente stipato in alcune vaschette di alimenti. Non è chiaro se la droga fosse destinata al mercato ticinese, oppure se dovesse rientrare in Italia passando per lo scalo luganese, dove forse la coppia – di 40 e 50anni – sperava in controlli meno severi. In ogni caso, i due non avrebbero mai avuto alcun legame col Ticino.

Fonte: rsi.ch

27 set 2005

La Lega fa lo scambio di coppie

Sorpresa: gli scambisti sono sbarcati in politica. Certo, non gli scambisti a luci rosse dei club privé. Almeno che si sappia.
Ma due deputati leghisti, forse per marcare una innovazione padana nei confronti del vecchio nepotismo partitocratico, si sono scambiati davvero le mogli.
Ognuno ha assunto in ufficio, a spese dello Stato e quindi di noi cittadini, la moglie dell'altro.
Una bella pensata che, aggirando gli stucchevoli paletti di una legge bigotta contro il familismo, apre nuovi orizzonti al mantenimento di figli e cugini, generi e cognati, zie e concubine.
Senza più il fastidioso ingombro di provvedere al vitto e alloggio dei propri cari, comodamente collocati a carico delle pubbliche casse.

I protagonisti della nostra storia, che pare fosse nota a un mucchio di addetti ai lavori rigorosamente omertosi ma non ai cittadini, sono Maurizio Balocchi ed Edouard Ballaman.

Due personaggi piuttosto noti.
Il primo è sottosegretario agli Interni, il secondo questore della Camera. Il primo, un genovese di nascita fiorentina, è stato il fondatore dell'Associazione italiana amministratori di condomini, è parlamentare dal 1992 e della Lega è stato il segretario amministrativo. Il secondo, nato in Svizzera ma cresciuto a Pordenone, è un commercialista finito spesso sui giornali. Prima per aver dato fuoco in diretta tivù al concordato fiscale del governo Dini.
Poi per aver battuto Vittorio Sgarbi nell' uninominale anche grazie a volantini in cui invitava i cattolici a votare per lui (insegnante in una scuola salesiana) e non per gli avversari giacché uno era «comunista» e l'altro un «noto libertino frequentatore di pornostar». Quindi per aver proposto per due volte l'abolizione del «made in Italy» da sostituire al Nord con «made in Padania. Per non dire delle sparate sul diritto di Pordenone a diventare una provincia autonoma o di un'intervista al «Sole delle Alpi» dove alla domanda su cosa detestava rispondeva: «Il tricolore».

Amici da anni, i due hanno vissuto insieme almeno tre avventure finanziarie. La prima fu la tentata speculazione immobiliare leghista a Punta Salvore, in Istria, che vide come progettista il futuro presidente del consiglio regionale veneto Enrico Cavaliere e come investitori nella «Ceit srl» un sacco di esponenti del Carroccio, a partire dalla moglie di Umberto Bossi: un'operazione disastrosa, finita con la sparizione di due miliardi, il fallimento e la decisione del pm Paolo Luca di contestare all'intero consiglio di amministrazione la bancarotta fraudolenta e il falso, «per aver segnato sui libri contabili della società che le quote ammontavano a cento mila lire, quando in realtà le azioni costavano dai quaranta milioni in su». La seconda fu la fondazione, ancora con soci leghisti come Stefano Stefani e il solito Enrico Cavaliere, della società «Santex» per gestire il casinò dell'Hotel Istria di Pola.
Una vicenda chiusa con la vendita delle quote.
A chi? Giuseppe Ragogna e Stefano Polzot, nel libro «L'aquila tradita», scrivono che «secondo alcuni periodici croati sarebbero state cedute a Moshe Leichner e al figlio Zvi, due americani di origine israeliana arrestati a Los Angeles per una presunta truffa valutaria da 77 milioni di dollari ai danni di un centinaio di risparmiatori ». La terza avventura fu quella delle sale Bingo. Maurizio Balocchi puntò sulla «Bingonet», della quale era amministratore unico e azionista di maggioranza.
Il secondo, allora vicepresidente della commissione Finanze, sulla «Cristallina», una sua creatura che riuscì a ottenere la concessione di quattro sale: a Pordenone, Treviso, Belluno e Trieste. «Che male c'è?», rispose a chi sollevava perplessità. E spiegò: «Quando ho saputo che gli imprenditori romani volevano venire qui a far soldi mi sono attivato affinché la gestione fosse targata Destra Tagliamento».
Finì malissimo.
Fallì la «Bingonet», nonostante lo sconcertante prestito avuto dalla padana «Credieuronord», la banca di cui Balocchi era consigliere d'amministrazione (!) e i cui soci, piccoli risparmiatori leghisti rovinati, deliberarono «un' azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei direttori generali per il risarcimento dei danni». E fallì, anche qui con uno strascico di denunce di soci che si ritenevano truffati, pure la «Cristallina». La quale, nata con un capitale di 20 milioni di lire, aveva puntato a rastrellare 14 miliardi e distribuito quote per oltre 4. Ma tra tante disavventure, almeno un'idea è stata per entrambi un affare. Quella che i due ebbero subito dopo la vittoria elettorale del 13 maggio 2001, quando la possente ondata liberale e liberista avrebbe dovuto spazzare il vecchio sistema clientelare del passato: perché non fare cambio delle mogli? Professionalmente, si capisce.
E così, detto fatto, alla metà di giugno il neosottosegretario agli Interni Maurizio Balocchi prese come collaboratrice Tiziana Vivian, da quattro anni signora Ballaman. E contemporaneamente, la stessa settimana, il neoquestore della Camera Edouard Ballaman arruolò nel suo ufficio a Montecitorio la signora Laura Pace, cioè la nuova compagna che a Balocchi, separato dalla prima moglie, avrebbe di lì a poco dato un figlio di nome Riccardo.
Dicono ora, nel piccolo mondo della politica, che erano in tanti a sapere.
Come in tanti sapevano della scelta del sottosegretario azzurro alla sanità Elisabetta Casellati di assumere come capo della segreteria sua figlia. O del figlio Riccardo e del fratello Franco di Umberto Bossi mandati a fare i consiglieri a Bruxelles e fatti rientrare solo dopo lo scoppio dello scandalo. E in tanti ammiccano che insomma, i casi di «aiutini» tra parenti di questa Seconda Repubblica che avrebbe dovuto chiudere con le antiche botteghe familiste, sono diversi.
E alludono a chi ha imbarcato mogli e chi cugini, chi cognati e chi amanti e insomma «è sempre andata così». Ecco: fosse davvero così, sarebbe bello se per una volta, a destra o a sinistra, qualcuno facesse «outing» prima di essere scoperto. Ma c'è da sperarci?

corriere.it

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