Le mail ai parenti: quei farmaci sono uguali
Il ministro Lorenzin: "La riforma dell’Aifa è alla nostra attenzione"
Ai pazienti sconosciuti che rischiavano la cecità no, ma agli amici e parenti si poteva dire che il farmaco supercostoso e quello low cost avevano effetti del tutto analoghi. È questo uno dei risultati clamorosi delle indagini che hanno portato alla multa da 180 milioni di euro per i colossi del farmaco Roche e Novartis, colpevoli per l’Antitrust di aver fatto cartello per promuovere il carissimo Lucentis (Novartis, circa 700 euro a fiala) ai danni dell’equivalente Avastin (Roche, 80 euro circa). Appare chiaro il patto di Big Pharma, grazie alle mail acquisite ieri dalla Procura di Roma, che ha aperto un’indagine per aggiotaggio e truffa aggravata.
I malati
I dirigenti delle due aziende farmaceutiche teoricamente concorrenti, si accordano da bravi compari, per far sì che gli oculisti e il Servizio sanitario nazionale possano cadere in trappola, ritenendo diversi i farmaci e più pericoloso il meno costoso. A farne le spese, oltre ai malati che in alcune Regioni hanno dovuto rinunciare alle cure perché il Lucentis era troppo caro per essere rimborsabile, le casse della sanità pubblica: 45 milioni di danni quantificati solo nel 2012. Ora il governatore del Veneto, Luca Zaia esulta: «Avevamo visto giusto in tempi non sospetti, già nel 2011 quando deliberammo di acquistare il farmaco meno costoso». Ma gli altri? Ci sono responsabilità, omissioni, o come ipotizza la società degli oculisti, scenari di corruzione?
La posizione dell’Aifa
Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, punta il dito verso l’agenzia del farmaco: «Se Avastin è più sicuro o no di Lucentis non lo posso dire io ma l’Aifa. E dice che riformarla è «alla sua attenzione». L’Aifa in una nota apprezza la «storica decisione dell’Antitrust». «L’Aifa non va riformata ma commissariata » ha detto più volte Matteo Piovella, presidente della Società oftalmologica italiana (Soi). E almeno ora, chiedono gli oculisti, si intervenga.
Ma basta leggere le carte per capire la gravità dello scenario. In una mail del 15 novembre 2010 un dirigente di Roche parla a un altro di un conoscente «che ha una sua parente che dovrebbe sottoporsi al trattamento con Avastin/Lucentis e chiedeva chi dei nostri medici poteva fornirgli delle informazioni. So che per quello che non siamo autorizzati a fornire info ma qui stiamo parlando di un consiglio ad un collega».
Le bugie
Molte le bugie raccontate all’esterno per impaurire gli oculisti su presunti effetti pericolosi del più economico. Il 3 maggio l’amministratore delegato di Novartis scrive all’ad Roche una strana mail. Auspica ampia copertura mediatica «anche in Italia» di una dichiarazione fatta dal ceo Roche, che dal punto di vista economico appare suicida: «Lucentis è il miglior farmaco per la cura della vista non Avastin». E ancora: «Se mia moglie avesse un problema agli occhi la curerei con quello».
Il perché, secondo l’Autority va ricercato nei bilanci: Roche controlla Genetech che ha sviluppato entrambi i farmaci e prende da Novartis le royalty su quello piu caro. A sua volta Novartis guadagna vendendo il farmaco ma partecipa anche agli utili Roche.
Fonte: corriere.it
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7 mar 2014
3 mar 2014
Un minuto di lavoro ogni 7 giorni: Il contratto di un veterinario nell’azienda sanitaria
«Benarrivatodottore». «Allaprossimadottore». Una volta la settimana il veterinario Manuel Bongiorno è chiamato a superare «Beep-Beep», il pennuto più veloce del West nemico di Willy il coyote: deve timbrare il cartellino d’entrata e quello d’uscita in un minuto. Fatto quello, il suo lavoro «convenzionato» settimanale all’azienda sanitaria è finito. Direte: è uno scherzo? No, è il record planetario di delirio burocratico. In provincia di Trapani. Per capire come sia nato questo pasticcio, che quattro volte al mese obbliga quel professionista a sottoporsi a Castelvetrano a quel rito ridicolo, occorre fare un passo indietro. Dovete dunque sapere che da una ventina di anni la Sicilia abusa più di chiunque altro in Italia della possibilità di avere due tipi di veterinari. I «dirigenti» assunti a suo tempo dopo un concorso e chiamati a svolgere un orario settimanale di 38 ore, assimilabili ai medici degli ospedali o degli ambulatori di base, e i «convenzionati», professionisti che magari hanno un ambulatorio per conto loro ma che vengono pagati dalle aziende sanitarie regionali per alcuni compiti specifici. Primo fra tutti quello di combattere la brucellosi, una malattia bovina che può attaccare l’uomo e che è particolarmente diffusa al Sud. Per capirci: su 1.200 veterinari «convenzionati», 350 sono siciliani.
La svolta arriva nel 2009. Quando la Regione decide di allargare a questi veterinari il contratto dei medici convenzionati esterni. Problema: l’impegno medio d’un otorino che lavora in ambulatorio può essere più o meno determinato. Ma come fissare dei parametri per i veterinari che girano le campagne e qui trovano la strada asfaltata e lì sterrata, qui le vacche nelle stalle e lì allo stato brado nei campi? Pensa e ripensa, decidono di fotografare la realtà e ripeterla nei nuovi contratti col copia incolla. Un veterinario ha fatturato all’Azienda sanitaria provinciale nell’anno di riferimento 20.000 euro? Calcolando che come i medici convenzionati deve avere 38 euro lordi l’ora, ecco un contratto annuale per 526 ore l’anno, dieci a settimana. Con un rinnovo automatico l’anno successivo. Nella speranza che un giorno, chissà, arrivi l’assunzione.
Fatto sta che nella prima tornata, di «convenzionati», ne vengono imbarcati oltre trecento. «E noi?», saltan su gli esclusi. Tira e molla, nel 2012 la Regione decide di aprire anche a quelli che erano stati chiamati solo per lavori saltuari. E di distribuire loro contrattini piccoli piccoli. «Era chiaro che sarebbero venuti fuori dei pasticci», spiega il presidente nazionale del sindacato veterinari, Paolo Ingrassia, «Ma le nostre proposte per trovare soluzioni sensate, come un minimo di sei ore settimanali, sono state respinte». Risultato: alcuni veterinari, convinti che valesse la pena comunque di mettere un piede dentro il sistema, hanno accettato convenzioni mignon. Due ore la settimana, quarantacinque minuti, quattro minuti... Fino al record di cui dicevamo.
La lettera su carta intestata del Servizio sanitario nazionale, che ha come oggetto «richiesta trasformazione del contratto di diritto privato in incarico ambulatoriale a tempo determinato», è un capolavoro di follia burocratica. Dato atto che il dottor Manuel Bongiorno ha le carte in regola per il nuovo contratto, il coordinatore e il responsabile amministrativi scrivono che «sulla base delle retribuzioni in godimento al 31 dicembre dell’ultimo anno di servizio le ore settimanali conferibili, calcolate in sessantesimi, risultano pari a 0,01 minuti». Che poi, per come è scritto, sarebbero un 100º di minuto. Nella lettera al neo «convenzionato», il coordinatore sanitario conferma: «In esecuzione della deliberazione (...) con la presente si conferisce alla Signoria Vostra incarico ambulatoriale a tempo determinato per n° 0,01 minuti settimanali per l’area funzionale di Sanità Animale con decorrenza...».
«Una volta a settimana vado nella sede dell’Asp e devo passare il badge. Entro, aspetto che passi un minuto, e poi ripasso il badge. Va avanti così da mesi», si è sfogato Manuel «Beep-Beep» Bongiorno con Ignazio Marchese, che per primo ha raccontato la storia all’Ansa. «A giugno e luglio sono dovuto andare a Trapani, penso che mi spetti anche un rimborso benzina. Io voglio solo potere svolgere la mia attività e una condizione che mi amareggia...».
Al di là del suo destino personale, il tema è: che futuro ha un Paese come il nostro se una Regione fissa regole così insensate, se dei dirigenti predispongono con trinariciuto ossequio formale una scemenza burocratica del genere, se un iter amministrativo così ridicolo viene a costare immensamente più di quanto valga quel contratto? Ma più ancora: possibile che per mesi vada avanti un delirio del genere senza che una persona di buon senso abbia l’autorità di scaraventare tutto nel cestino?
Fonte: corriere.it
La svolta arriva nel 2009. Quando la Regione decide di allargare a questi veterinari il contratto dei medici convenzionati esterni. Problema: l’impegno medio d’un otorino che lavora in ambulatorio può essere più o meno determinato. Ma come fissare dei parametri per i veterinari che girano le campagne e qui trovano la strada asfaltata e lì sterrata, qui le vacche nelle stalle e lì allo stato brado nei campi? Pensa e ripensa, decidono di fotografare la realtà e ripeterla nei nuovi contratti col copia incolla. Un veterinario ha fatturato all’Azienda sanitaria provinciale nell’anno di riferimento 20.000 euro? Calcolando che come i medici convenzionati deve avere 38 euro lordi l’ora, ecco un contratto annuale per 526 ore l’anno, dieci a settimana. Con un rinnovo automatico l’anno successivo. Nella speranza che un giorno, chissà, arrivi l’assunzione.
Fatto sta che nella prima tornata, di «convenzionati», ne vengono imbarcati oltre trecento. «E noi?», saltan su gli esclusi. Tira e molla, nel 2012 la Regione decide di aprire anche a quelli che erano stati chiamati solo per lavori saltuari. E di distribuire loro contrattini piccoli piccoli. «Era chiaro che sarebbero venuti fuori dei pasticci», spiega il presidente nazionale del sindacato veterinari, Paolo Ingrassia, «Ma le nostre proposte per trovare soluzioni sensate, come un minimo di sei ore settimanali, sono state respinte». Risultato: alcuni veterinari, convinti che valesse la pena comunque di mettere un piede dentro il sistema, hanno accettato convenzioni mignon. Due ore la settimana, quarantacinque minuti, quattro minuti... Fino al record di cui dicevamo.
La lettera su carta intestata del Servizio sanitario nazionale, che ha come oggetto «richiesta trasformazione del contratto di diritto privato in incarico ambulatoriale a tempo determinato», è un capolavoro di follia burocratica. Dato atto che il dottor Manuel Bongiorno ha le carte in regola per il nuovo contratto, il coordinatore e il responsabile amministrativi scrivono che «sulla base delle retribuzioni in godimento al 31 dicembre dell’ultimo anno di servizio le ore settimanali conferibili, calcolate in sessantesimi, risultano pari a 0,01 minuti». Che poi, per come è scritto, sarebbero un 100º di minuto. Nella lettera al neo «convenzionato», il coordinatore sanitario conferma: «In esecuzione della deliberazione (...) con la presente si conferisce alla Signoria Vostra incarico ambulatoriale a tempo determinato per n° 0,01 minuti settimanali per l’area funzionale di Sanità Animale con decorrenza...».
«Una volta a settimana vado nella sede dell’Asp e devo passare il badge. Entro, aspetto che passi un minuto, e poi ripasso il badge. Va avanti così da mesi», si è sfogato Manuel «Beep-Beep» Bongiorno con Ignazio Marchese, che per primo ha raccontato la storia all’Ansa. «A giugno e luglio sono dovuto andare a Trapani, penso che mi spetti anche un rimborso benzina. Io voglio solo potere svolgere la mia attività e una condizione che mi amareggia...».
Al di là del suo destino personale, il tema è: che futuro ha un Paese come il nostro se una Regione fissa regole così insensate, se dei dirigenti predispongono con trinariciuto ossequio formale una scemenza burocratica del genere, se un iter amministrativo così ridicolo viene a costare immensamente più di quanto valga quel contratto? Ma più ancora: possibile che per mesi vada avanti un delirio del genere senza che una persona di buon senso abbia l’autorità di scaraventare tutto nel cestino?
Fonte: corriere.it
30 mar 2013
Le banconote da 500 euro con cui Formigoni faceva i bonifici
Le tre confezioni di crema da viso acquistate in pochi mesi. Il suo segretario: «La usa come colla per i manifesti»
MILANO - Più che a un presidente di Regione Lombardia nel suo ufficio, Roberto Formigoni - almeno per come lo descrive il capo area della Banca Popolare di Sondrio dove aveva un conto - somiglia a un maneggiatore di banconote da 500 euro che, di sicuro, non vengono dai suoi stipendi pubblici ufficiali: «Tra il 2003 e il 2005 - racconta il bancario ai pm il 3 agosto 2012 - mi capitava di recarmi al Pirellone, di essere ricevuto da Formigoni e di avere da lui somme in contanti per importi variabili, compresi tra i 5.000 e i 20.000 euro. I soldi mi venivano consegnati personalmente da Formigoni negli incontri a "quattr'occhi" che avevamo al Pirellone, e servivano per eseguire dei bonifici a favore di Emanuela Talenti» (alla quale il governatore era in quel momento legato).
L'amica e le banconote da 500
«Il taglio delle banconote che Formigoni mi consegnava era generalmente da 500 euro», aggiunge il bancario. «Per consentire di bonificare le somme in concreto trasferite, mi venivano consegnati questi importi in contanti che venivano versati su un conto di appoggio "per cassa" della banca, e usati come provvista per i bonifici a favore della Talenti». Perché tutto questo mistero? «Formigoni - riferisce il bancario - non voleva far figurare uscite dal suo conto corrente personale per importi significativi a favore di questa persona». Ma la polizia giudiziaria ritiene «improbabile» questa tesi, perché in altre occasioni Formigoni aveva versato a Talenti molti soldi con normali e tracciabilissimi bonifici bancari dai suoi conti, circa 230.000 euro dal 2003 al 2009: per gli inquirenti, dunque, lo scopo di Formigoni era un altro, far girare il contante che riceveva da Pierangelo Daccò, nel senso che «si può ragionevolmente dedurre che ciò che doveva essere "celato" ad una prima analisi del conto corrente di Formigoni non era il rapporto tra il suo conto e il conto corrente di Talenti, ma la disponibilità, da parte del primo, di denaro contante».
Formigoni-Daccò, cene di lavoro
È un famoso ristoratore, Claudio Sadler, a fare crollare la linea Maginot sulla quale Formigoni si era sempre attestato per contestare l'inopportunità, quanto meno, dell'accettare lussuosi benefit (stimati in 8 milioni di euro dai pm tra vacanze ai Caraibi, aerei, cene, uso di tre yacht e di una villa in Sardegna) da parte di chi, come Daccò, era non soltanto suo amico, ma anche rappresentante in Regione delle richieste economiche degli istituti privati San Raffaele di don Verzé e Fondazione Maugeri. Sadler, interrogato come teste il 27 luglio 2012 sui suoi rapporti con Daccò che presso la sua cantina teneva in custodia una collezione di vini pregiati da 250.000 euro, ricorda che «Daccò chiedeva sempre che gli fosse riservata una saletta, che volle fosse chiamata Don Pedro in suo onore». Qui riceveva i suoi ospiti di alto livello: «Ricordo il presidente Formigoni, Renato Pozzetto, Mario Cal, don Verzé». E il problema è che a quei tavoli non si mangiava soltanto: si pianificava la sanità lombarda.
Comitati di lavoro
«Formigoni veniva spesso soprattutto in occasione di feste (circa sei-dieci volte in un anno), qualche volta in gruppi più ristretti, sei sette persone, quello che definirei una sorta di comitato di lavoro. Intendo dire che erano per lo più persone della Regione, in genere uomini, e parlavano intensamente di lavoro. C'era spesso il segretario Willy. Raramente è capitato che Formigoni sia venuto da solo con Daccò, il più delle volte c'erano personaggi legati alla Regione Lombardia: Buscemi (ex assessore, ndr ), Willy, Perego (il coinquilino di Formigoni, ndr ), Simone (l'altro mediatore con Daccò della Maugeri, ndr ) e altri. Parlavano di cose che stavano facendo nell'ambito della sanità, di ostacoli politici da superare. Ricordo che il più autoritario era Formigoni, dirigeva la conversazione o comunque si capiva che era lui che decideva. Qualche volte era un po' "incazzuto". Alle volte ricordo che Daccò e i suoi ospiti avevano anche delle cartellette, dei fogli o documenti che esaminavano e su cui discutevano. Daccò era sempre molto attento agli umori del presidente, ci teneva che lo stesso fosse sempre contento, e, se qualcosa non andava nelle serata o se il presidente mostrava disappunto per qualcosa, Daccò era molto nervoso e ci trasmetteva una certa tensione. Perego soprattutto era tra i più assidui ospiti di Daccò e avevo la netta sensazione che Perego fosse una sorta di filtro, cuscinetto tra Daccò e Formigoni, in quanto Daccò con Perego aveva particolare confidenza, mentre aveva una sorta di sudditanza verso Formigoni. Questi incontri, che io definirei cene di lavoro, si tenevano con una frequenza di circa due volte al mese e, comunque, non meno di 10 volte all'anno».
Il conto? Paga sempre Daccò
E chi pagava il conto? Mai Formigoni, dice il ristoratore (ed è confermato dagli zero versamenti di Formigoni): sempre Daccò, che risulta aver versato a Sadler almeno 177.000 euro. «In tutti questi anni non ho visto altri, pagava sempre Daccò anche quando Formigoni veniva da solo, accompagnato da alcuni ospiti - afferma il ristoratore -, avevamo ricevuto personalmente da Daccò la disposizione che i conti del presidente fossero a suo carico. Questa regola valeva solo per il presidente. Del resto Formigoni, anche quando veniva senza Daccò, non si preoccupava affatto del conto, e una volta finita la cena si alzava e andava via. Ringraziava e andava senza neppure chiedere quale fosse l'importo. Ordinava peraltro con libertà, bevendo solo champagne del quale è particolarmente appassionato». Guarda caso, solo dopo l'avvio delle prime indagini su Daccò e sul San Raffaele, «è capitato solo due volte che al momento della prenotazione la segreteria di Formigoni ci abbia detto che il conto lo avrebbe pagato la Regione: è successo a giugno/luglio del 2011».
La crema da viso del Celeste
La polizia giudiziaria, spulciando i conti bancari di Formigoni, nota che parecchie volte «le operazioni bancarie sono state eseguite con modalità tali da non rendere visibile, ad una normale attività di analisi bancaria dei conti correnti, la disponibilità del contante». In altri «l'operazione è stata svolta da persona diversa da Formigoni ma in nome e per conto dello stesso», per la verità grazie anche al fatto che «la Banca Popolare di Sondrio ha omesso di comunicare all'anagrafe dei rapporti informazioni di natura finanziaria che, riconducibili a Formigoni, avrebbe invece avuto l'obbligo giuridico di comunicare». Di questo inspiegabile maxi-ricorso di Formigoni al contante ci sono, nelle carte dei pm, esempi grandi (come il caso dei soldi a Talenti) e piccoli. E, paradossalmente, a volte sono proprio quelli piccoli e persino banali a essere più significativi. Nel settembre del 2011 una serie di intercettazioni colgono Formigoni e il suo segretario particolare Mauro «Willy» Villa discettare dell'«acquisto di una crema-viso che il primo chiedeva al secondo di acquistare. Nel premurarsi di reperire questa particolare crema, Villa evidenzia come Formigoni ne facesse un uso intensivo ("la usa come colla per i manifesti"), avendone acquistate due confezioni poco prima dell'estate e chiedendone l'acquisto di una nuova confezione nel settembre dello stesso anno». Ogni confezione «costa 50/200 euro, e anche di tali acquisti non vi è alcuna traccia» nella contabilità di Formigoni: «Apparentemente inconferenti con l'attività di indagine - scrivono gli inquirenti -, queste conversazioni assumono invece una particolare valenza: pur nella banalità del loro limitato contenuto, rivelano la dicotomia tra i contenuti dei conti correnti e la reale operatività finanziaria di Formigoni».
Fonte: corriere.it
MILANO - Più che a un presidente di Regione Lombardia nel suo ufficio, Roberto Formigoni - almeno per come lo descrive il capo area della Banca Popolare di Sondrio dove aveva un conto - somiglia a un maneggiatore di banconote da 500 euro che, di sicuro, non vengono dai suoi stipendi pubblici ufficiali: «Tra il 2003 e il 2005 - racconta il bancario ai pm il 3 agosto 2012 - mi capitava di recarmi al Pirellone, di essere ricevuto da Formigoni e di avere da lui somme in contanti per importi variabili, compresi tra i 5.000 e i 20.000 euro. I soldi mi venivano consegnati personalmente da Formigoni negli incontri a "quattr'occhi" che avevamo al Pirellone, e servivano per eseguire dei bonifici a favore di Emanuela Talenti» (alla quale il governatore era in quel momento legato).
L'amica e le banconote da 500
«Il taglio delle banconote che Formigoni mi consegnava era generalmente da 500 euro», aggiunge il bancario. «Per consentire di bonificare le somme in concreto trasferite, mi venivano consegnati questi importi in contanti che venivano versati su un conto di appoggio "per cassa" della banca, e usati come provvista per i bonifici a favore della Talenti». Perché tutto questo mistero? «Formigoni - riferisce il bancario - non voleva far figurare uscite dal suo conto corrente personale per importi significativi a favore di questa persona». Ma la polizia giudiziaria ritiene «improbabile» questa tesi, perché in altre occasioni Formigoni aveva versato a Talenti molti soldi con normali e tracciabilissimi bonifici bancari dai suoi conti, circa 230.000 euro dal 2003 al 2009: per gli inquirenti, dunque, lo scopo di Formigoni era un altro, far girare il contante che riceveva da Pierangelo Daccò, nel senso che «si può ragionevolmente dedurre che ciò che doveva essere "celato" ad una prima analisi del conto corrente di Formigoni non era il rapporto tra il suo conto e il conto corrente di Talenti, ma la disponibilità, da parte del primo, di denaro contante».
Formigoni-Daccò, cene di lavoro
È un famoso ristoratore, Claudio Sadler, a fare crollare la linea Maginot sulla quale Formigoni si era sempre attestato per contestare l'inopportunità, quanto meno, dell'accettare lussuosi benefit (stimati in 8 milioni di euro dai pm tra vacanze ai Caraibi, aerei, cene, uso di tre yacht e di una villa in Sardegna) da parte di chi, come Daccò, era non soltanto suo amico, ma anche rappresentante in Regione delle richieste economiche degli istituti privati San Raffaele di don Verzé e Fondazione Maugeri. Sadler, interrogato come teste il 27 luglio 2012 sui suoi rapporti con Daccò che presso la sua cantina teneva in custodia una collezione di vini pregiati da 250.000 euro, ricorda che «Daccò chiedeva sempre che gli fosse riservata una saletta, che volle fosse chiamata Don Pedro in suo onore». Qui riceveva i suoi ospiti di alto livello: «Ricordo il presidente Formigoni, Renato Pozzetto, Mario Cal, don Verzé». E il problema è che a quei tavoli non si mangiava soltanto: si pianificava la sanità lombarda.
Comitati di lavoro
«Formigoni veniva spesso soprattutto in occasione di feste (circa sei-dieci volte in un anno), qualche volta in gruppi più ristretti, sei sette persone, quello che definirei una sorta di comitato di lavoro. Intendo dire che erano per lo più persone della Regione, in genere uomini, e parlavano intensamente di lavoro. C'era spesso il segretario Willy. Raramente è capitato che Formigoni sia venuto da solo con Daccò, il più delle volte c'erano personaggi legati alla Regione Lombardia: Buscemi (ex assessore, ndr ), Willy, Perego (il coinquilino di Formigoni, ndr ), Simone (l'altro mediatore con Daccò della Maugeri, ndr ) e altri. Parlavano di cose che stavano facendo nell'ambito della sanità, di ostacoli politici da superare. Ricordo che il più autoritario era Formigoni, dirigeva la conversazione o comunque si capiva che era lui che decideva. Qualche volte era un po' "incazzuto". Alle volte ricordo che Daccò e i suoi ospiti avevano anche delle cartellette, dei fogli o documenti che esaminavano e su cui discutevano. Daccò era sempre molto attento agli umori del presidente, ci teneva che lo stesso fosse sempre contento, e, se qualcosa non andava nelle serata o se il presidente mostrava disappunto per qualcosa, Daccò era molto nervoso e ci trasmetteva una certa tensione. Perego soprattutto era tra i più assidui ospiti di Daccò e avevo la netta sensazione che Perego fosse una sorta di filtro, cuscinetto tra Daccò e Formigoni, in quanto Daccò con Perego aveva particolare confidenza, mentre aveva una sorta di sudditanza verso Formigoni. Questi incontri, che io definirei cene di lavoro, si tenevano con una frequenza di circa due volte al mese e, comunque, non meno di 10 volte all'anno».
Il conto? Paga sempre Daccò
E chi pagava il conto? Mai Formigoni, dice il ristoratore (ed è confermato dagli zero versamenti di Formigoni): sempre Daccò, che risulta aver versato a Sadler almeno 177.000 euro. «In tutti questi anni non ho visto altri, pagava sempre Daccò anche quando Formigoni veniva da solo, accompagnato da alcuni ospiti - afferma il ristoratore -, avevamo ricevuto personalmente da Daccò la disposizione che i conti del presidente fossero a suo carico. Questa regola valeva solo per il presidente. Del resto Formigoni, anche quando veniva senza Daccò, non si preoccupava affatto del conto, e una volta finita la cena si alzava e andava via. Ringraziava e andava senza neppure chiedere quale fosse l'importo. Ordinava peraltro con libertà, bevendo solo champagne del quale è particolarmente appassionato». Guarda caso, solo dopo l'avvio delle prime indagini su Daccò e sul San Raffaele, «è capitato solo due volte che al momento della prenotazione la segreteria di Formigoni ci abbia detto che il conto lo avrebbe pagato la Regione: è successo a giugno/luglio del 2011».
La crema da viso del Celeste
La polizia giudiziaria, spulciando i conti bancari di Formigoni, nota che parecchie volte «le operazioni bancarie sono state eseguite con modalità tali da non rendere visibile, ad una normale attività di analisi bancaria dei conti correnti, la disponibilità del contante». In altri «l'operazione è stata svolta da persona diversa da Formigoni ma in nome e per conto dello stesso», per la verità grazie anche al fatto che «la Banca Popolare di Sondrio ha omesso di comunicare all'anagrafe dei rapporti informazioni di natura finanziaria che, riconducibili a Formigoni, avrebbe invece avuto l'obbligo giuridico di comunicare». Di questo inspiegabile maxi-ricorso di Formigoni al contante ci sono, nelle carte dei pm, esempi grandi (come il caso dei soldi a Talenti) e piccoli. E, paradossalmente, a volte sono proprio quelli piccoli e persino banali a essere più significativi. Nel settembre del 2011 una serie di intercettazioni colgono Formigoni e il suo segretario particolare Mauro «Willy» Villa discettare dell'«acquisto di una crema-viso che il primo chiedeva al secondo di acquistare. Nel premurarsi di reperire questa particolare crema, Villa evidenzia come Formigoni ne facesse un uso intensivo ("la usa come colla per i manifesti"), avendone acquistate due confezioni poco prima dell'estate e chiedendone l'acquisto di una nuova confezione nel settembre dello stesso anno». Ogni confezione «costa 50/200 euro, e anche di tali acquisti non vi è alcuna traccia» nella contabilità di Formigoni: «Apparentemente inconferenti con l'attività di indagine - scrivono gli inquirenti -, queste conversazioni assumono invece una particolare valenza: pur nella banalità del loro limitato contenuto, rivelano la dicotomia tra i contenuti dei conti correnti e la reale operatività finanziaria di Formigoni».
Fonte: corriere.it
Concorso per laureati, lo vincono con il diploma di terza media
Scandalo al Fatebenefratelli: per i vincitori del bando interno un aumento dello stipendio superiore ai cinquemila euro
Al Fatebenefratelli l'hanno definito il concorso della vergogna. L'hanno vinto sette dipendenti con in tasca solo la terza media, contro l'obbligo di avere una laurea o, in assenza, il diploma delle scuole superiori abbinato a cinque anni di esperienza professionale. È stata una promozione così maldestra - con l'ennesimo spreco di soldi pubblici - da spingere a intervenire perfino la presidenza del Consiglio dei ministri. I fatti. Sono stati dichiarati vincitori di un bando interno sette dipendenti, con un conseguente aumento di stipendio superiore ai cinquemila euro l'anno, senza avere i titoli di studio necessari.
Ovviamente non c'è stata nessuna svista: i requisiti previsti per legge sono stati modificati nel bando, equiparando la laurea richiesta a dieci anni di anzianità. Secondo chi ha denunciato l'accaduto è un tipico caso di concorso su misura per promuovere gli amici, appartenenti anche a sigle sindacali che può essere meglio tenersi buone. Un'interpretazione troppo malevola? Tutte cattiverie? Una cosa è certa: la promozione è stata illegittima e adesso il Fatebenefratelli dovrà correre ai ripari.
La presidenza del Consiglio dei ministri ha sollecitato spiegazioni e i vertici dell'ospedale non si sono potuti sottrarre dall'ammettere l'illecito. È quanto emerge da uno scambio di lettere tra l'Ispettorato per la funzione pubblica che «vigila sulla conformità dell'azione amministrativa ai principi di imparzialità e buon andamento» e l'attuale direttore generale del Fatebenefratelli, Giovanni Michiara (in quota Pdl). L'ultima lettera è di solo due giorni fa. «È emerso che i provvedimenti sono illegittimi nelle parti relative ai requisiti per la progressione verticale da assistente amministrativo categoria C a collaboratore amministrativo categoria D - scrive lo stesso Michiara -. Alcuni dipendenti sono stati dichiarati vincitori ancorché in carenza dei titoli di studio richiesti e previsti dalle norme di legge».
Il concorso risale a quasi quattro anni fa, il direttore generale che ha fatto il bando è stato Luigi Corradini (ora in pensione). I vincitori sono stati proclamati con un provvedimento del luglio 2009: da allora i sette dipendenti hanno ricevuto una busta paga più pesante senza averne nessun diritto. La richiesta di chiarimenti del governo è scattata su una denuncia anonima. «Nell'esposto si fa presente che nessuna norma contrattuale consente di partecipare a un concorso per la categoria D del ruolo amministrativo, solo con dieci anni di anzianità senza il possesso dello specifico titolo di studio, palesando che in tal modo si sia voluto favorire alcuni dipendenti a danno di altri», riassume il dirigente dell'Ispettorato Aldo Aldi.
Nell'esposto, arrivato nei mesi scorsi anche al Corriere , ci sono nomi e cognomi degli interessati, con i documenti sulla loro promozione. La presenza di sindacalisti nella lista è un dato di fatto che ha amareggiato ulteriormente chi ha presentato l'esposto. Michiara assicura: «Si procederà ad adottare ogni provvedimento volto all'annullamento degli atti contrari alla legge». Ora resta da capire in che modo e se la Corte dei conti avrà qualcosa da dire.
Fonte: corriere.it
Al Fatebenefratelli l'hanno definito il concorso della vergogna. L'hanno vinto sette dipendenti con in tasca solo la terza media, contro l'obbligo di avere una laurea o, in assenza, il diploma delle scuole superiori abbinato a cinque anni di esperienza professionale. È stata una promozione così maldestra - con l'ennesimo spreco di soldi pubblici - da spingere a intervenire perfino la presidenza del Consiglio dei ministri. I fatti. Sono stati dichiarati vincitori di un bando interno sette dipendenti, con un conseguente aumento di stipendio superiore ai cinquemila euro l'anno, senza avere i titoli di studio necessari.
Ovviamente non c'è stata nessuna svista: i requisiti previsti per legge sono stati modificati nel bando, equiparando la laurea richiesta a dieci anni di anzianità. Secondo chi ha denunciato l'accaduto è un tipico caso di concorso su misura per promuovere gli amici, appartenenti anche a sigle sindacali che può essere meglio tenersi buone. Un'interpretazione troppo malevola? Tutte cattiverie? Una cosa è certa: la promozione è stata illegittima e adesso il Fatebenefratelli dovrà correre ai ripari.
La presidenza del Consiglio dei ministri ha sollecitato spiegazioni e i vertici dell'ospedale non si sono potuti sottrarre dall'ammettere l'illecito. È quanto emerge da uno scambio di lettere tra l'Ispettorato per la funzione pubblica che «vigila sulla conformità dell'azione amministrativa ai principi di imparzialità e buon andamento» e l'attuale direttore generale del Fatebenefratelli, Giovanni Michiara (in quota Pdl). L'ultima lettera è di solo due giorni fa. «È emerso che i provvedimenti sono illegittimi nelle parti relative ai requisiti per la progressione verticale da assistente amministrativo categoria C a collaboratore amministrativo categoria D - scrive lo stesso Michiara -. Alcuni dipendenti sono stati dichiarati vincitori ancorché in carenza dei titoli di studio richiesti e previsti dalle norme di legge».
Il concorso risale a quasi quattro anni fa, il direttore generale che ha fatto il bando è stato Luigi Corradini (ora in pensione). I vincitori sono stati proclamati con un provvedimento del luglio 2009: da allora i sette dipendenti hanno ricevuto una busta paga più pesante senza averne nessun diritto. La richiesta di chiarimenti del governo è scattata su una denuncia anonima. «Nell'esposto si fa presente che nessuna norma contrattuale consente di partecipare a un concorso per la categoria D del ruolo amministrativo, solo con dieci anni di anzianità senza il possesso dello specifico titolo di studio, palesando che in tal modo si sia voluto favorire alcuni dipendenti a danno di altri», riassume il dirigente dell'Ispettorato Aldo Aldi.
Nell'esposto, arrivato nei mesi scorsi anche al Corriere , ci sono nomi e cognomi degli interessati, con i documenti sulla loro promozione. La presenza di sindacalisti nella lista è un dato di fatto che ha amareggiato ulteriormente chi ha presentato l'esposto. Michiara assicura: «Si procederà ad adottare ogni provvedimento volto all'annullamento degli atti contrari alla legge». Ora resta da capire in che modo e se la Corte dei conti avrà qualcosa da dire.
Fonte: corriere.it
14 nov 2012
Operazioni al cuore e tangenti: «Così facciamo un botto di soldi»
I colloqui tra i medici «Segnalateci le cavie»
MODENA - Il giochino, a sentire gli stessi protagonisti, funzionava alla grande: remunerativo e non particolarmente faticoso. Finché ha retto. «Sono soldini, facendo una cosa e n'altra, arrivo a portà cinquemila euro a casa, capito? Senza spremermi tanto, piglio i soldi sotto banco, un bordello di soldi, li fatturo ad una onlus, perché porto avanti studi clinici e c'ho le aziende che mi propongono contratti...» confida al telefono (intercettato) il 16 giugno 2011 il medico Alessandro Aprile, 37 anni, che all'epoca frequentava un master in quel reparto di cardiologia del Policlinico di Modena dove, secondo le indagini dei Nas e della Procura, aveva messo radici «un modello delinquenziale sperimentale» che, attraverso studi di natura cardiologica non autorizzati o totalmente inventati, falsificazioni di cartelle cliniche e utilizzo di materiale sanitario spesso difettoso, giocava di sponda con alcune aziende private italiane ed estere del biomedicale, che, in cambio dell'uso da parte dei medici dei dispositivi da loro prodotti, con conseguente pubblicità su riviste specializzate, hanno versato tra il 2009 e il 2011 su 3 onlus fittizie somme di denaro pari a un milione di euro (già sequestrati). La benzina che faceva girare questo sistema erano i tantissimi pazienti con problemi cardiaci, che, arruolati a decine, e sempre a loro insaputa, si trasformavano loro malgrado in una sorta di cavie per sperimentazioni che, secondo il quadro accusatorio, «sfuggivano a qualsiasi controllo da parte del competente Comitato etico».
Dei nove medici arrestati, alcuni dei quali da tempo non lavorano più al Policlinico, le due figure di spicco che emergono dall'ordinanza firmata dal gip Paola Losavio sono il primario Maria Grazia Modena, 60 anni, prima donna a presiedere la Società italiana di cardiologia, e Giuseppe Sangiorgi, 47 anni, all'epoca responsabile del laboratorio di emodinamica della cardiologia (l'unico finito in carcere). Il loro sodalizio, iniziato nel 2009, è l'origine di tutto, secondo gli inquirenti: «È la dottoressa Modena che, sapendo dei legami di Sangiorgi con le aziende farmaceutiche, gli mette a disposizione il reparto da lei diretto, dandogli piena delega a trattare con le imprese». I due mettono in piedi una squadra di «fidati collaboratori, facendo vincere loro concorsi e ammettendoli al Policlinico, pur se in alcuni casi privi di idoneo titolo». Tale è il legame tra Modena e Sangiorgi che, quando nel marzo 2011 quest'ultimo viene allontanato dal Policlinico sulla base delle «inadeguatezze e criticità» riscontrate e denunciate nel reparto di cardiologia dalla commissione scientifica inviata dalla Regione Emilia-Romagna, la Modena (è il 20 giugno 2011) non si vuole rassegnare: «Tu - dice, parlando al telefono con Sangiorgi - sei sempre nella mia mente, io voglio tornare al passato, non ti mollo». E aggiunge: «Io voglio che la facoltà ti chiami!».
In questo scenario, il rapporto con i pazienti resta sullo sfondo, assolutamente residuale e unicamente finalizzato all'arruolamento per poter effettuare il più alto numero possibile di sperimentazioni. Alcune, secondo il gip, contemplavano interventi invasivi all'insaputa dei malati. Sangiorgi, l'11 luglio 2011, parlando con Carlo Briguori, responsabile di emodinamica a Napoli, si lamenta delle difficoltà di convincere i pazienti a mettere il catetere, fondamentale per certi tipi di ricerche: «Mi dicono: perché mi devo cateterizzare? E tutte queste puttanate qui! Siamo riusciti a fare a 7 casi... si sono fatti cateterizzare...». Due giorni dopo, il medico Luigi Politi, 34 anni, ora ai domiciliari, sembra aver trovato una soluzione: «Sto aspettando di beccare un paziente che ha già il catetere - dice a Sangiorgi - e poi vado di nascosto a prendergli il piscio. Ho anche detto ai ragazzi di cui mi posso fidare: "Quando vedete uno con un catetere, mi fate uno squillo, segnali di fumo"...». Nell'assenza di controlli e protocolli, l'accusa punta anche il dito su alcune autopsie «illecite» effettuate durante una particolare ricerca, come emerge da un'email di Sangiorgi a un'impresa di biomedicale: «Perché è un casino per sezionare 'sti cazzi di arterie renali, vedere i nervi e cose varie...».
Alcune sperimentazioni sembrano essere del tutto finte: «Tanto alla ditta gli va bene, tanto lo pubblica...». Il primo luglio 2011, al telefono con la specializzanda Raffaella Marzullo, Sangiorgi afferma: «Adesso vedo, tanto qui bisogna inventarsi i dati...».
Fonte: corriere.it
MODENA - Il giochino, a sentire gli stessi protagonisti, funzionava alla grande: remunerativo e non particolarmente faticoso. Finché ha retto. «Sono soldini, facendo una cosa e n'altra, arrivo a portà cinquemila euro a casa, capito? Senza spremermi tanto, piglio i soldi sotto banco, un bordello di soldi, li fatturo ad una onlus, perché porto avanti studi clinici e c'ho le aziende che mi propongono contratti...» confida al telefono (intercettato) il 16 giugno 2011 il medico Alessandro Aprile, 37 anni, che all'epoca frequentava un master in quel reparto di cardiologia del Policlinico di Modena dove, secondo le indagini dei Nas e della Procura, aveva messo radici «un modello delinquenziale sperimentale» che, attraverso studi di natura cardiologica non autorizzati o totalmente inventati, falsificazioni di cartelle cliniche e utilizzo di materiale sanitario spesso difettoso, giocava di sponda con alcune aziende private italiane ed estere del biomedicale, che, in cambio dell'uso da parte dei medici dei dispositivi da loro prodotti, con conseguente pubblicità su riviste specializzate, hanno versato tra il 2009 e il 2011 su 3 onlus fittizie somme di denaro pari a un milione di euro (già sequestrati). La benzina che faceva girare questo sistema erano i tantissimi pazienti con problemi cardiaci, che, arruolati a decine, e sempre a loro insaputa, si trasformavano loro malgrado in una sorta di cavie per sperimentazioni che, secondo il quadro accusatorio, «sfuggivano a qualsiasi controllo da parte del competente Comitato etico».
Dei nove medici arrestati, alcuni dei quali da tempo non lavorano più al Policlinico, le due figure di spicco che emergono dall'ordinanza firmata dal gip Paola Losavio sono il primario Maria Grazia Modena, 60 anni, prima donna a presiedere la Società italiana di cardiologia, e Giuseppe Sangiorgi, 47 anni, all'epoca responsabile del laboratorio di emodinamica della cardiologia (l'unico finito in carcere). Il loro sodalizio, iniziato nel 2009, è l'origine di tutto, secondo gli inquirenti: «È la dottoressa Modena che, sapendo dei legami di Sangiorgi con le aziende farmaceutiche, gli mette a disposizione il reparto da lei diretto, dandogli piena delega a trattare con le imprese». I due mettono in piedi una squadra di «fidati collaboratori, facendo vincere loro concorsi e ammettendoli al Policlinico, pur se in alcuni casi privi di idoneo titolo». Tale è il legame tra Modena e Sangiorgi che, quando nel marzo 2011 quest'ultimo viene allontanato dal Policlinico sulla base delle «inadeguatezze e criticità» riscontrate e denunciate nel reparto di cardiologia dalla commissione scientifica inviata dalla Regione Emilia-Romagna, la Modena (è il 20 giugno 2011) non si vuole rassegnare: «Tu - dice, parlando al telefono con Sangiorgi - sei sempre nella mia mente, io voglio tornare al passato, non ti mollo». E aggiunge: «Io voglio che la facoltà ti chiami!».
In questo scenario, il rapporto con i pazienti resta sullo sfondo, assolutamente residuale e unicamente finalizzato all'arruolamento per poter effettuare il più alto numero possibile di sperimentazioni. Alcune, secondo il gip, contemplavano interventi invasivi all'insaputa dei malati. Sangiorgi, l'11 luglio 2011, parlando con Carlo Briguori, responsabile di emodinamica a Napoli, si lamenta delle difficoltà di convincere i pazienti a mettere il catetere, fondamentale per certi tipi di ricerche: «Mi dicono: perché mi devo cateterizzare? E tutte queste puttanate qui! Siamo riusciti a fare a 7 casi... si sono fatti cateterizzare...». Due giorni dopo, il medico Luigi Politi, 34 anni, ora ai domiciliari, sembra aver trovato una soluzione: «Sto aspettando di beccare un paziente che ha già il catetere - dice a Sangiorgi - e poi vado di nascosto a prendergli il piscio. Ho anche detto ai ragazzi di cui mi posso fidare: "Quando vedete uno con un catetere, mi fate uno squillo, segnali di fumo"...». Nell'assenza di controlli e protocolli, l'accusa punta anche il dito su alcune autopsie «illecite» effettuate durante una particolare ricerca, come emerge da un'email di Sangiorgi a un'impresa di biomedicale: «Perché è un casino per sezionare 'sti cazzi di arterie renali, vedere i nervi e cose varie...».
Alcune sperimentazioni sembrano essere del tutto finte: «Tanto alla ditta gli va bene, tanto lo pubblica...». Il primo luglio 2011, al telefono con la specializzanda Raffaella Marzullo, Sangiorgi afferma: «Adesso vedo, tanto qui bisogna inventarsi i dati...».
Fonte: corriere.it
8 ott 2012
Le nomine di Fiorito in ospedali e Asl
Il nefrologo richiamato nel 2010: il capogruppo Pdl ha creduto in me. Ai vertici degli uffici della Sanità a Frosinone anche il segretario comunale di Anagni
ROMA - «Sento il dovere di ringraziare il capogruppo del Pdl Fiorito per avere creduto nelle mie capacità»: il nefrologo Carlo Mirabella accoglie così, nel luglio del 2010, la nomina al vertice della Asl di Frosinone. Evviva la sincerità.
Ma in certi casi dare un riconoscimento pubblico allo sponsor non è soltanto una carineria. È un dovere. Per portare a casa quella nomina il peso massimo Franco Fiorito, «Er Batman» di Anagni, mette sul tavolo non solo tutto il volume delle sue 27 mila preferenze, ma anche la dolorosa rinuncia a un posto di assessore. All'Agricoltura, vuole andare.
Invece Renata Polverini gli preferisce un altro. Chi è? Smacco terribile: il suo nemico numero uno Francesco Battistoni da Montefiascone. Lo stesso che due anni e mezzo dopo gli farà le scarpe anche al partito, soffiandogli il posto da capogruppo, prima che tutto precipiti in un gorgo di ostriche e champagne. Un incubo, insomma.
Per digerire una botta del genere non basta la presidenza della commissione Bilancio. E neppure la nomina a capogruppo: che pure, a giudicare da bonifici e fatture, qualche piccolo vantaggio lo garantisce. Ci vuole qualcosa di più. Per esempio la direzione di un'azienda sanitaria, la Asl di Frosinone. Mirabella c'è già stato quando la giunta regionale era presieduta da Francesco Storace e Fiorito era «solo» il sindaco di Anagni. Poi arriva Piero Marrazzo e lui salta come un tappo di spumante.
Ricorsi, appelli e controricorsi, finché il Consiglio di stato lo reintegra. La motivazione è ripresa da una sentenza della Consulta: lo spoils system, pratica di cui Mirabella è stato vittima, non si può applicare alle aziende sanitarie perché «assolvono compiti di natura tecnica e lo sforzo di costituzione democratica deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato per avere un'amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un'amministrazione di partiti». Tenete bene a mente queste parole. Perché accade esattamente il contrario.
Mirabella resta fuori: non è messo nelle condizioni di rientrare. Finché Marrazzo va a casa e arriva Renata Polverini. La notte dei lunghi coltelli nella sanità laziale è il 30 giugno 2010, mercoledì. In meno che non si dica, la nuova governatrice commissaria le Asl piazzando al posto degli uomini scelti dal centrosinistra, i suoi. Meglio, quelli che sono espressione dei nuovi equilibri politici. E Mirabella torna alla Asl di Frosinone come il Conte di Montecristo, deciso a prendersi la rivincita. Da vittima dello spoils system, ne diventa protagonista e carnefice.
Ha le spalle copertissime: si capisce dai ringraziamenti, che oltre a Fiorito vanno anche a Mario Abbruzzese. È il presidente del consiglio regionale, nonché ras del Popolo della libertà a Cassino. Sul Tempo , Cristiano Ricci scrive che «a sostenere la campagna elettorale in perfetto stile berlusconiano dell'homo novus cassinate» è l'eurodeputato del Pdl Aldo Patriciello: incidentalmente esponente della famiglia che controlla la Neuromed di Pozzilli, una struttura medica della provincia di Isernia.
Chi è il direttore sanitario? Mirabella in persona. Renata Polverini sentenzia: «Mirabella è una persona capace». E il cerchio si chiude. Il cerchio politico, s'intende.
Alla Asl di Frosinone, invece, ci sono tante partite aperte. Appena scade il direttore amministrativo, ecco pronto il sostituto. Si chiama Luca Di Mario ed è stato segretario comunale di Anagni, di cui era sindaco Fiorito. Quando si dice la coincidenza.
Ma le norme non prescrivono che i direttori sanitari delle Asl devono aver svolto «per almeno cinque anni una qualificata attività di direzione tecnica o amministrativa in enti o strutture sanitarie pubbliche o private di media o grande dimensione»? Boh...
Poi si devono riempire i posti da primario. E subito partono gli avvisi interni per le selezioni, con la precisazione che ad affidare l'incarico sarà il direttore generale. Firmato: il direttore generale. A Ostetricia-Ginecologia di Frosinone arriva Giovan Battista Mansueto. Ex consigliere comunale di Frosinone con il centrosinistra, viene folgorato dal Popolo della libertà sulla via per il municipio ciociaro. Si presenta da primario alle elezioni e riconquista il seggio. Stavolta, però, sui banchi del centrodestra. Non più da peone: si guadagna i gradi da presidente della commissione Lavori pubblici. Per il reparto di Chirurgia di Cassino la spunta invece Ennio Manzi, consigliere comunale del centrodestra a San Vittore del Lazio. Piena zona d'influenza politica di Abbruzzese.
E il primario del Pronto soccorso di Frosinone? L'incarico viene affidato a Maurizio Plocco. Per riuscirci, il direttore della Asl protetto di Fiorito deve solo superare un piccolo ostacolo. Si partecipa alla selezione interna da primario soltanto essendo, appunto, «interni» alla struttura. Plocco invece è in servizio al Pronto soccorso di Alatri. In più, a Frosinone c'è già un collega in pole position vincitore di concorso, che guida il reparto con una specie di interim, essendo già primario ad Alatri e Anagni. Particolare che renderebbe addirittura inutile la nuova nomina. Che si fa, allora? Per prima cosa si rispedisce Fabrizio Cristofari, così si chiama il suddetto primario, ad Alatri. Poi però bisogna fare spazio a Frosinone.
Ecco allora che si trasferisce un medico dal Pronto soccorso di Frosinone a quello di Alatri e al suo posto si materializza Plocco. Il doppio salto mortale carpiato scatena lì una mezza rivolta dei medici, ma finisce lì.
Maurizio Plocco appartiene a una famiglia di imprenditori molto in vista a Frosinone. Fra le varie aziende di cui è azionista insieme ai suoi congiunti c'è anche il grande centro dialisi Euronefro srl. Convenzionato, ovviamente, con il servizio sanitario nazionale di cui ora è uno dei primari.
Fonte: roma.corriere.it
ROMA - «Sento il dovere di ringraziare il capogruppo del Pdl Fiorito per avere creduto nelle mie capacità»: il nefrologo Carlo Mirabella accoglie così, nel luglio del 2010, la nomina al vertice della Asl di Frosinone. Evviva la sincerità.
Ma in certi casi dare un riconoscimento pubblico allo sponsor non è soltanto una carineria. È un dovere. Per portare a casa quella nomina il peso massimo Franco Fiorito, «Er Batman» di Anagni, mette sul tavolo non solo tutto il volume delle sue 27 mila preferenze, ma anche la dolorosa rinuncia a un posto di assessore. All'Agricoltura, vuole andare.
Invece Renata Polverini gli preferisce un altro. Chi è? Smacco terribile: il suo nemico numero uno Francesco Battistoni da Montefiascone. Lo stesso che due anni e mezzo dopo gli farà le scarpe anche al partito, soffiandogli il posto da capogruppo, prima che tutto precipiti in un gorgo di ostriche e champagne. Un incubo, insomma.
Per digerire una botta del genere non basta la presidenza della commissione Bilancio. E neppure la nomina a capogruppo: che pure, a giudicare da bonifici e fatture, qualche piccolo vantaggio lo garantisce. Ci vuole qualcosa di più. Per esempio la direzione di un'azienda sanitaria, la Asl di Frosinone. Mirabella c'è già stato quando la giunta regionale era presieduta da Francesco Storace e Fiorito era «solo» il sindaco di Anagni. Poi arriva Piero Marrazzo e lui salta come un tappo di spumante.
Ricorsi, appelli e controricorsi, finché il Consiglio di stato lo reintegra. La motivazione è ripresa da una sentenza della Consulta: lo spoils system, pratica di cui Mirabella è stato vittima, non si può applicare alle aziende sanitarie perché «assolvono compiti di natura tecnica e lo sforzo di costituzione democratica deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato per avere un'amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un'amministrazione di partiti». Tenete bene a mente queste parole. Perché accade esattamente il contrario.
Mirabella resta fuori: non è messo nelle condizioni di rientrare. Finché Marrazzo va a casa e arriva Renata Polverini. La notte dei lunghi coltelli nella sanità laziale è il 30 giugno 2010, mercoledì. In meno che non si dica, la nuova governatrice commissaria le Asl piazzando al posto degli uomini scelti dal centrosinistra, i suoi. Meglio, quelli che sono espressione dei nuovi equilibri politici. E Mirabella torna alla Asl di Frosinone come il Conte di Montecristo, deciso a prendersi la rivincita. Da vittima dello spoils system, ne diventa protagonista e carnefice.
Ha le spalle copertissime: si capisce dai ringraziamenti, che oltre a Fiorito vanno anche a Mario Abbruzzese. È il presidente del consiglio regionale, nonché ras del Popolo della libertà a Cassino. Sul Tempo , Cristiano Ricci scrive che «a sostenere la campagna elettorale in perfetto stile berlusconiano dell'homo novus cassinate» è l'eurodeputato del Pdl Aldo Patriciello: incidentalmente esponente della famiglia che controlla la Neuromed di Pozzilli, una struttura medica della provincia di Isernia.
Chi è il direttore sanitario? Mirabella in persona. Renata Polverini sentenzia: «Mirabella è una persona capace». E il cerchio si chiude. Il cerchio politico, s'intende.
Alla Asl di Frosinone, invece, ci sono tante partite aperte. Appena scade il direttore amministrativo, ecco pronto il sostituto. Si chiama Luca Di Mario ed è stato segretario comunale di Anagni, di cui era sindaco Fiorito. Quando si dice la coincidenza.
Ma le norme non prescrivono che i direttori sanitari delle Asl devono aver svolto «per almeno cinque anni una qualificata attività di direzione tecnica o amministrativa in enti o strutture sanitarie pubbliche o private di media o grande dimensione»? Boh...
Poi si devono riempire i posti da primario. E subito partono gli avvisi interni per le selezioni, con la precisazione che ad affidare l'incarico sarà il direttore generale. Firmato: il direttore generale. A Ostetricia-Ginecologia di Frosinone arriva Giovan Battista Mansueto. Ex consigliere comunale di Frosinone con il centrosinistra, viene folgorato dal Popolo della libertà sulla via per il municipio ciociaro. Si presenta da primario alle elezioni e riconquista il seggio. Stavolta, però, sui banchi del centrodestra. Non più da peone: si guadagna i gradi da presidente della commissione Lavori pubblici. Per il reparto di Chirurgia di Cassino la spunta invece Ennio Manzi, consigliere comunale del centrodestra a San Vittore del Lazio. Piena zona d'influenza politica di Abbruzzese.
E il primario del Pronto soccorso di Frosinone? L'incarico viene affidato a Maurizio Plocco. Per riuscirci, il direttore della Asl protetto di Fiorito deve solo superare un piccolo ostacolo. Si partecipa alla selezione interna da primario soltanto essendo, appunto, «interni» alla struttura. Plocco invece è in servizio al Pronto soccorso di Alatri. In più, a Frosinone c'è già un collega in pole position vincitore di concorso, che guida il reparto con una specie di interim, essendo già primario ad Alatri e Anagni. Particolare che renderebbe addirittura inutile la nuova nomina. Che si fa, allora? Per prima cosa si rispedisce Fabrizio Cristofari, così si chiama il suddetto primario, ad Alatri. Poi però bisogna fare spazio a Frosinone.
Ecco allora che si trasferisce un medico dal Pronto soccorso di Frosinone a quello di Alatri e al suo posto si materializza Plocco. Il doppio salto mortale carpiato scatena lì una mezza rivolta dei medici, ma finisce lì.
Maurizio Plocco appartiene a una famiglia di imprenditori molto in vista a Frosinone. Fra le varie aziende di cui è azionista insieme ai suoi congiunti c'è anche il grande centro dialisi Euronefro srl. Convenzionato, ovviamente, con il servizio sanitario nazionale di cui ora è uno dei primari.
Fonte: roma.corriere.it
23 giu 2012
Inchiesta sanità, indagato Formigoni. La difesa «Non un euro pubblico dissipato, e Daccò non ha tratto indebiti vantaggi in Regione»
Le accuse: corruzione e finanziamento illecito di 500 mila euro alle elezioni 2010.
MILANO - Illecito finanziamento elettorale di oltre mezzo milione di euro nel 2010 da una azienda sanitaria privata in vista della campagna di Roberto Formigoni per le Regionali lombarde, e corruzione per la somma dei molteplici benefit di ingente valore patrimoniale (vacanze, soggiorni, utilizzo di yacht, cene di pubbliche relazioni a margine del Meeting di Rimini, termini della vendita di una villa in Sardegna a un coinquilino di Formigoni nella comunità laicale dei Memores Domini ) messi a disposizione del governatore lombardo dal mediatore Pierangelo Daccò: sono le due ipotesi di reato per le quali il presidente pdl della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, è indagato a Milano nell'inchiesta sui 70 milioni pagati negli anni a Daccò dalla Fondazione Maugeri per il suo ruolo di «facilitatore» nei rapporti tra questo importante polo privato della sanità italiana (con base a Pavia) e i meandri amministrativi del Pirellone.
«Apriporte in Regione»
È in questi meandri che si esprimeva la peculiare professionalità di Daccò nell'«aprire le porte in Regione Lombardia» e, anche «sfruttando la mia conoscenza personale con Formigoni per accreditarmi presso i miei clienti», muovere «nell'ente pubblico le leve della discrezionalità» cruciali per il riconoscimento agli ospedali delle «funzioni non coperte da tariffe predefinite», cioè del capitolo (pari al 7% del bilancio della sanità per quasi 1 miliardo l'anno) parametrato su attività d'eccellenza e di ricerca in aggiunta ai normali rimborsi delle prestazioni erogate ai pazienti.
Nell'inchiesta, gemmata da quella sul dissesto finanziario del San Raffaele di don Verzè dopo il suicidio nel luglio 2011 del vicepresidente Mario Cal, sono sinora state arrestate (per reati che a vario titolo vanno dall'appropriazione indebita al riciclaggio all'associazione a delinquere) sette persone, tra le quali due amici personali di Formigoni: Daccò, che è in cella dal 15 novembre scorso, e dal 13 aprile un ex assessore regionale democristiano (negli anni 90) poi riconvertitosi in imprenditore immobiliare e consulente nella sanità, il ciellino Antonio Simone.
Nuove contestazioni
Le due inedite contestazioni sono affiorate ora nell'ultimo giro di interrogatori, quando ad almeno quattro degli arrestati è stato via via comunicato che la Procura sta procedendo anche per i nuovi reati di corruzione e di finanziamento illecito. E contrariamente alle suggestioni determinate nei giorni scorsi dalla segretazione dei verbali ordinata dalla Procura, i pochi elementi disponibili fanno pensare che, alla base degli addebiti, vi sia qualcosa di diverso dalla circolata leggenda metropolitana di ammissioni da parte di Daccò e Simone. L'avvocato del mediatore, Giampiero Biancolella, che pur non vuole entrare nel merito dei fatti appunto perché gli ultimi due interrogatori di Daccò sono stati segretati, un solo aspetto ritiene ad esempio di rilevare: «Per quelle che sono le dichiarazioni di Daccò, il reato di corruzione non esiste, però vorrei che a questo punto, dopo oltre 7 mesi di carcere, i pm affrontassero una volta per tutte questo nodo. Se ritengono di possedere elementi per inquadrare nel reato di corruzione i comportamenti che Daccò ha avuto verso l'amico Formigoni, allora chiedano il rinvio a giudizio: ma escano dallo stallo di questa custodia cautelare incongrua e anomala, che neppure nel momento più acuto di Tangentopoli registrava un protrarsi così lungo». «Quello che ha avvicinato Simone a Daccò è stato il fatto che Daccò avesse clienti nella sanità del mondo cattolico», prospetta l'avvocato Giuseppe Lucibello, che dell'interrogatorio del suo assistito tre giorni fa si limita a osservare che «Simone ha spiegato, e anzi ha rivendicato, il proprio ruolo di promotore culturale e grande esperto della legislazione della sanità nel settore del no-profit».
Ancora di recente il presidente della giunta ha ribadito di considerare se stesso e la Regione estranei ad accertamenti giudiziari che a suo avviso riguardano «solo rapporti tra privati» come la Fondazione Maugeri e i consulenti Daccò-Simone, ha asserito che «non un euro di soldi pubblici è stato dissipato», e ha affermato che «Daccò non ha tratto qualche indebito vantaggio da Regione Lombardia per il fatto di conoscermi».
«Neppure un usciere»
All'inizio di questa vicenda Formigoni ha spiegato di aver solo fatto con Daccò «vacanze di gruppo» ai Caraibi, anche se tra «agende da controllare» e «ricevute buttate» dei ventilati rimborsi. In un secondo tempo ha precisato che «non c'era stato bisogno di alcun conguaglio» con l'amico generoso. E infine da ultimo ha detto di aver «potuto accumulare risparmi per un milione di euro che ho prestato a un amico» (Alberto Perego) «per acquistare una casetta in Sardegna», cioè la villa venduta per 3 milioni a Perego da Daccò due settimane prima del suo arresto. «Nessuno di Regione Lombardia è sottoposto a indagine, non un assessore e neppure un usciere», aveva spesso rimarcato Formigoni, anche se in questa inchiesta era stata già indagata per l'ipotesi di riciclaggio la ex dirigente regionale nell'unità organizzativa di Programmazione sanitaria, Alessandra Massei. In un'altra e diversa indagine la settimana scorsa è stato perquisito e indagato per l'ipotesi di associazione a delinquere e di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente il direttore generale dell'assessorato regionale alla Sanità, Carlo Lucchina, al quale Formigoni sabato ha voluto rendere «onore» ed esprimere «solidarietà».
Fonte: corriere.it
MILANO - Illecito finanziamento elettorale di oltre mezzo milione di euro nel 2010 da una azienda sanitaria privata in vista della campagna di Roberto Formigoni per le Regionali lombarde, e corruzione per la somma dei molteplici benefit di ingente valore patrimoniale (vacanze, soggiorni, utilizzo di yacht, cene di pubbliche relazioni a margine del Meeting di Rimini, termini della vendita di una villa in Sardegna a un coinquilino di Formigoni nella comunità laicale dei Memores Domini ) messi a disposizione del governatore lombardo dal mediatore Pierangelo Daccò: sono le due ipotesi di reato per le quali il presidente pdl della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, è indagato a Milano nell'inchiesta sui 70 milioni pagati negli anni a Daccò dalla Fondazione Maugeri per il suo ruolo di «facilitatore» nei rapporti tra questo importante polo privato della sanità italiana (con base a Pavia) e i meandri amministrativi del Pirellone.
«Apriporte in Regione»
È in questi meandri che si esprimeva la peculiare professionalità di Daccò nell'«aprire le porte in Regione Lombardia» e, anche «sfruttando la mia conoscenza personale con Formigoni per accreditarmi presso i miei clienti», muovere «nell'ente pubblico le leve della discrezionalità» cruciali per il riconoscimento agli ospedali delle «funzioni non coperte da tariffe predefinite», cioè del capitolo (pari al 7% del bilancio della sanità per quasi 1 miliardo l'anno) parametrato su attività d'eccellenza e di ricerca in aggiunta ai normali rimborsi delle prestazioni erogate ai pazienti.
Nell'inchiesta, gemmata da quella sul dissesto finanziario del San Raffaele di don Verzè dopo il suicidio nel luglio 2011 del vicepresidente Mario Cal, sono sinora state arrestate (per reati che a vario titolo vanno dall'appropriazione indebita al riciclaggio all'associazione a delinquere) sette persone, tra le quali due amici personali di Formigoni: Daccò, che è in cella dal 15 novembre scorso, e dal 13 aprile un ex assessore regionale democristiano (negli anni 90) poi riconvertitosi in imprenditore immobiliare e consulente nella sanità, il ciellino Antonio Simone.
Nuove contestazioni
Le due inedite contestazioni sono affiorate ora nell'ultimo giro di interrogatori, quando ad almeno quattro degli arrestati è stato via via comunicato che la Procura sta procedendo anche per i nuovi reati di corruzione e di finanziamento illecito. E contrariamente alle suggestioni determinate nei giorni scorsi dalla segretazione dei verbali ordinata dalla Procura, i pochi elementi disponibili fanno pensare che, alla base degli addebiti, vi sia qualcosa di diverso dalla circolata leggenda metropolitana di ammissioni da parte di Daccò e Simone. L'avvocato del mediatore, Giampiero Biancolella, che pur non vuole entrare nel merito dei fatti appunto perché gli ultimi due interrogatori di Daccò sono stati segretati, un solo aspetto ritiene ad esempio di rilevare: «Per quelle che sono le dichiarazioni di Daccò, il reato di corruzione non esiste, però vorrei che a questo punto, dopo oltre 7 mesi di carcere, i pm affrontassero una volta per tutte questo nodo. Se ritengono di possedere elementi per inquadrare nel reato di corruzione i comportamenti che Daccò ha avuto verso l'amico Formigoni, allora chiedano il rinvio a giudizio: ma escano dallo stallo di questa custodia cautelare incongrua e anomala, che neppure nel momento più acuto di Tangentopoli registrava un protrarsi così lungo». «Quello che ha avvicinato Simone a Daccò è stato il fatto che Daccò avesse clienti nella sanità del mondo cattolico», prospetta l'avvocato Giuseppe Lucibello, che dell'interrogatorio del suo assistito tre giorni fa si limita a osservare che «Simone ha spiegato, e anzi ha rivendicato, il proprio ruolo di promotore culturale e grande esperto della legislazione della sanità nel settore del no-profit».
Ancora di recente il presidente della giunta ha ribadito di considerare se stesso e la Regione estranei ad accertamenti giudiziari che a suo avviso riguardano «solo rapporti tra privati» come la Fondazione Maugeri e i consulenti Daccò-Simone, ha asserito che «non un euro di soldi pubblici è stato dissipato», e ha affermato che «Daccò non ha tratto qualche indebito vantaggio da Regione Lombardia per il fatto di conoscermi».
«Neppure un usciere»
All'inizio di questa vicenda Formigoni ha spiegato di aver solo fatto con Daccò «vacanze di gruppo» ai Caraibi, anche se tra «agende da controllare» e «ricevute buttate» dei ventilati rimborsi. In un secondo tempo ha precisato che «non c'era stato bisogno di alcun conguaglio» con l'amico generoso. E infine da ultimo ha detto di aver «potuto accumulare risparmi per un milione di euro che ho prestato a un amico» (Alberto Perego) «per acquistare una casetta in Sardegna», cioè la villa venduta per 3 milioni a Perego da Daccò due settimane prima del suo arresto. «Nessuno di Regione Lombardia è sottoposto a indagine, non un assessore e neppure un usciere», aveva spesso rimarcato Formigoni, anche se in questa inchiesta era stata già indagata per l'ipotesi di riciclaggio la ex dirigente regionale nell'unità organizzativa di Programmazione sanitaria, Alessandra Massei. In un'altra e diversa indagine la settimana scorsa è stato perquisito e indagato per l'ipotesi di associazione a delinquere e di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente il direttore generale dell'assessorato regionale alla Sanità, Carlo Lucchina, al quale Formigoni sabato ha voluto rendere «onore» ed esprimere «solidarietà».
Fonte: corriere.it
4 mar 2012
Giacomo Frati, il primario che operava i manichini. Chirurgo e figlio del rettore della Sapienza..
Da ricercatore a professore ordinario: l'ascesa di Giacomo Frati La carriera del primario che operava i manichini
Chirurgo e figlio del rettore della Sapienza
Vi fareste operare al cuore da chi non ha «mai visto la cardiochirurgia» e si è impratichito solo con i manichini? Se la domanda vi sembra demenziale, sappiate che è già successo . O almeno così dice, in un'intervista stupefacente, il figlio del rettore della Sapienza. Che con una sfolgorante carriera si è ritrovato giovanissimo a fare il professore nella facoltà del papà, della mamma e della sorella.
Che per essere un grandissimo chirurgo si debba avere necessariamente un curriculum scientifico universitario, per carità, non è detto. Ambroise Paré, il fondatore della moderna chirurgia, pare fosse figlio di una peripatetica e cominciò nella scia del padre facendo insieme il chirurgo e il barbiere. E il capo-chirurgo dell'«équipe 2» del primo trapianto di cuore in Sud Africa, nel 1967, al fianco di Christiaan Barnard, pare sia stato Hamilton Naki, che era un autodidatta con la terza media che essendo nero figurava assunto come giardiniere ma aveva le mani d'oro al punto di ricevere, finita l'apartheid, una laurea ad honorem e il riconoscimento di Barnard: «Tecnicamente era meglio di me». Detto questo, il modo in cui Giacomo Frati si è ritrovato alla guida di un'Unità Programmatica di (teorica) avanguardia al Policlinico di Roma appare sempre più sbalorditivo. Ricordate? Ne parlammo due settimane fa, dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria. Riassumendo, il giovanotto riesce in una manciata di anni (ricercatore a 28, professore associato a 31, in cattedra a 36) a diventare ordinario nella stessa facoltà di medicina in cui il padre, il potentissimo rettore Luigi, è stato per una vita il preside e ha già piazzato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, storia della medicina) e la figlia Paola, laureata in legge e accasata a Medicina Legale.
Un genio tra tanti «sfigati»? Sarà... Ma certo gli ultimi passaggi della vertiginosa carriera di Giacomo sono sconcertanti. Prima l'esame da cardiochirurgo vinto grazie al giudizio di una commissione di due igienisti e tre dentisti: «Giusto? Forse no però questo non è un problema mio...». Poi la chiamata a Latina dove era stata aperta una «succursale» di cardiologia della Sapienza presso la casa di cura Icot. Poi il ritorno a Roma appena in tempo prima che le nuove regole contro il nepotismo della riforma Gelmini impedissero l'agognato ricongiungimento familiare. Poi la creazione su misura per lui, togliendo un po' di letti a un altro reparto, di un'«Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» che gli consente di avere un ruolo equiparato a quello di primario, novità decisa dal direttore generale Antonio Capparelli. Nominato poche settimane prima ai vertici del Policlinico proprio da Luigi Frati, il premuroso papà. Troppo anche per un ateneo storicamente abituato a una certa dose di nepotismo. Eppure, neanche un verdetto del Tar che dà ragione a quanti avevano presentato un esposto contro gli esiti della «gara» vinta da Giacomo («illogicità del criterio adottato», «irragionevole penalizzazione degli idonei», «danno grave e irreparabile») è riuscito a frenare l'irrefrenabile ascesa del giovanotto. Anzi, il giorno dopo avere perso il ricorso in appello contro quella sentenza, l'università gli ha fatto fare un nuovo passo in avanti.
Né sono riusciti a bagnare l'impermeabile scorza di Luigi Frati (dominus assoluto di un sistema trasversale alla destra e alla sinistra che sta benissimo a molti baroni) alcune contestazioni nel Senato accademico o una miriade di mugugni sul Web. Né poteva infastidirlo, pochi giorni fa, il professor Antonio Sili Scavalli, segretario regionale della Fials e responsabile aziendale dello stesso sindacato, che ha mandato una diffida a Renata Polverini chiedendo come fosse possibile che Giacomo Frati, chiamato al Policlinico per attivare una guardia medica di cardiochirurgia, sia stato quattro mesi dopo promosso e contestualmente abbia chiesto, da primario, di essere esentato dalle noiose guardie notturne. Ma le domande più fastidiose poste dal sindacato, che preannuncia un esposto alla magistratura, sono altre. È vero che in un anno e mezzo i dati sulla produttività dell'unità di Giacomo Frati «fornirebbero un numero pari a zero»? Ed è vero che in questo periodo il giovine chirurgo ha fatto in tutto 5 interventi «peraltro di cardiochirurgia classica» che dunque non c'entrano niente con la creazione su misura del reparto di «avanguardia»? E soprattutto: qual era la mortalità di quella dependance di cardiochirurgia a Latina dove si era impratichito? Il punto più delicato è questo. Lo dicono nemici di Frati come il senatore Claudio Fazzone, che mesi fa ironizzò sull'«alta qualità portata a Latina» dal rettore: «Penso si riferisca alla cardiochirurgia che ha effettuato 44 interventi in un anno, di basso profilo, col più alto indice di mortalità del Lazio». Ma lo dice soprattutto un decreto della Regione del 29 settembre 2010. Dove si legge che nonostante a Latina fossero stati fatti «zero» interventi chirurgici «di alta complessità, i risultati all'Icot erano pessimi.
Tanto da spingere la Regione Lazio a chiudere la dependance universitaria, a costo di dover pagare alla casa di cura dove stava un risarcimento milionario: «La disattivazione dei posti letto di cardiochirurgia dell'Icot di Latina è sostenuta da valutazioni relative ai volumi di attività estremamente ridotti e alla bassa performance. Nel 2009, la struttura ha effettuato 44 interventi cardiochirurgici (pari all'1% del totale regionale) ed è ultima nel Lazio per capacità di attrazione, con una percentuale di ricoveri a carico di residenti fuori regione intorno al 2% (valore medio regionale del 9%). L'indice di inappropriatezza d'uso dei posti letto è 3 volte più elevato rispetto alla media regionale». Quanto «bassa» fosse la performance, lo dice una tabella riservata del «PReValE», il Programma regionale di valutazione degli esiti, recuperata da Sabrina Giannini, di «Report». Tabella dove, alla voce «Bypass aorto-coronarico» per il 2008-2009 sulla mortalità nei primi 30 giorni dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, risulta che non ce la fece il 2,25% degli operati (su 356) al Gemelli, lo 0,46% (su 656) al San Camillo-Forlanini, il 2,67% (su 225) all'Umberto I, il 3,01 (su 632) all'European hospital e via così. Risultato finale: una media di mortalità, per quanto queste statistiche vadano prese con le pinze, intorno al 2,5%.
Bene: in un servizio per «Reportime» di Milena Gabanelli, servizio da questa mattina su Corriere.it , Sabrina Giannini mostra quella tabella a Giacomo Frati: come mai all'Icot c'era una mortalità del 6% e cioè più che doppia? Il giovane «astro nascente» della famiglia del rettore sbanda. E si avvita in una risposta strabiliante: «Cioè, la cardiochirurgia qui è partita da zero. Faccio presente che quando noi abbiamo iniziato tutto il personale, anche infermieristico, era un personale che non aveva mai visto la cardiochirurgia. Abbiamo fatto simulazione in sala anche con i manichini. Anche per il posizionamento dei devices della circolazione extracorporea». Fateci capire: «tutto il personale» (tutto, compresi dunque i chirurghi) era così a digiuno di cardiochirurgia che prima di operare dei pazienti si era addestrato coi manichini? Che storia è questa? Si sono impratichiti via via sui malati che avevano affidato loro la vita? Per difendere quel reparto, mentre la Regione decideva (troppi reparti) di rinunciare ad aprire nuove cardiochirurgie a Viterbo, Frosinone e Rieti, Luigi Frati disse in un'intervista a «La Provincia»: «Mi chiedo perché mai uno di Latina non abbia il diritto di farsi operare nella sua città». Ma da chi, signor rettore? A che prezzo? In quale altro paese del mondo, dopo tutto ciò che è emerso, potrebbe restare ancora imbullonato al suo posto?
Fonte: corriere.it
Chirurgo e figlio del rettore della Sapienza
Vi fareste operare al cuore da chi non ha «mai visto la cardiochirurgia» e si è impratichito solo con i manichini? Se la domanda vi sembra demenziale, sappiate che è già successo . O almeno così dice, in un'intervista stupefacente, il figlio del rettore della Sapienza. Che con una sfolgorante carriera si è ritrovato giovanissimo a fare il professore nella facoltà del papà, della mamma e della sorella.
Che per essere un grandissimo chirurgo si debba avere necessariamente un curriculum scientifico universitario, per carità, non è detto. Ambroise Paré, il fondatore della moderna chirurgia, pare fosse figlio di una peripatetica e cominciò nella scia del padre facendo insieme il chirurgo e il barbiere. E il capo-chirurgo dell'«équipe 2» del primo trapianto di cuore in Sud Africa, nel 1967, al fianco di Christiaan Barnard, pare sia stato Hamilton Naki, che era un autodidatta con la terza media che essendo nero figurava assunto come giardiniere ma aveva le mani d'oro al punto di ricevere, finita l'apartheid, una laurea ad honorem e il riconoscimento di Barnard: «Tecnicamente era meglio di me». Detto questo, il modo in cui Giacomo Frati si è ritrovato alla guida di un'Unità Programmatica di (teorica) avanguardia al Policlinico di Roma appare sempre più sbalorditivo. Ricordate? Ne parlammo due settimane fa, dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria. Riassumendo, il giovanotto riesce in una manciata di anni (ricercatore a 28, professore associato a 31, in cattedra a 36) a diventare ordinario nella stessa facoltà di medicina in cui il padre, il potentissimo rettore Luigi, è stato per una vita il preside e ha già piazzato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, storia della medicina) e la figlia Paola, laureata in legge e accasata a Medicina Legale.
Un genio tra tanti «sfigati»? Sarà... Ma certo gli ultimi passaggi della vertiginosa carriera di Giacomo sono sconcertanti. Prima l'esame da cardiochirurgo vinto grazie al giudizio di una commissione di due igienisti e tre dentisti: «Giusto? Forse no però questo non è un problema mio...». Poi la chiamata a Latina dove era stata aperta una «succursale» di cardiologia della Sapienza presso la casa di cura Icot. Poi il ritorno a Roma appena in tempo prima che le nuove regole contro il nepotismo della riforma Gelmini impedissero l'agognato ricongiungimento familiare. Poi la creazione su misura per lui, togliendo un po' di letti a un altro reparto, di un'«Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» che gli consente di avere un ruolo equiparato a quello di primario, novità decisa dal direttore generale Antonio Capparelli. Nominato poche settimane prima ai vertici del Policlinico proprio da Luigi Frati, il premuroso papà. Troppo anche per un ateneo storicamente abituato a una certa dose di nepotismo. Eppure, neanche un verdetto del Tar che dà ragione a quanti avevano presentato un esposto contro gli esiti della «gara» vinta da Giacomo («illogicità del criterio adottato», «irragionevole penalizzazione degli idonei», «danno grave e irreparabile») è riuscito a frenare l'irrefrenabile ascesa del giovanotto. Anzi, il giorno dopo avere perso il ricorso in appello contro quella sentenza, l'università gli ha fatto fare un nuovo passo in avanti.
Né sono riusciti a bagnare l'impermeabile scorza di Luigi Frati (dominus assoluto di un sistema trasversale alla destra e alla sinistra che sta benissimo a molti baroni) alcune contestazioni nel Senato accademico o una miriade di mugugni sul Web. Né poteva infastidirlo, pochi giorni fa, il professor Antonio Sili Scavalli, segretario regionale della Fials e responsabile aziendale dello stesso sindacato, che ha mandato una diffida a Renata Polverini chiedendo come fosse possibile che Giacomo Frati, chiamato al Policlinico per attivare una guardia medica di cardiochirurgia, sia stato quattro mesi dopo promosso e contestualmente abbia chiesto, da primario, di essere esentato dalle noiose guardie notturne. Ma le domande più fastidiose poste dal sindacato, che preannuncia un esposto alla magistratura, sono altre. È vero che in un anno e mezzo i dati sulla produttività dell'unità di Giacomo Frati «fornirebbero un numero pari a zero»? Ed è vero che in questo periodo il giovine chirurgo ha fatto in tutto 5 interventi «peraltro di cardiochirurgia classica» che dunque non c'entrano niente con la creazione su misura del reparto di «avanguardia»? E soprattutto: qual era la mortalità di quella dependance di cardiochirurgia a Latina dove si era impratichito? Il punto più delicato è questo. Lo dicono nemici di Frati come il senatore Claudio Fazzone, che mesi fa ironizzò sull'«alta qualità portata a Latina» dal rettore: «Penso si riferisca alla cardiochirurgia che ha effettuato 44 interventi in un anno, di basso profilo, col più alto indice di mortalità del Lazio». Ma lo dice soprattutto un decreto della Regione del 29 settembre 2010. Dove si legge che nonostante a Latina fossero stati fatti «zero» interventi chirurgici «di alta complessità, i risultati all'Icot erano pessimi.
Tanto da spingere la Regione Lazio a chiudere la dependance universitaria, a costo di dover pagare alla casa di cura dove stava un risarcimento milionario: «La disattivazione dei posti letto di cardiochirurgia dell'Icot di Latina è sostenuta da valutazioni relative ai volumi di attività estremamente ridotti e alla bassa performance. Nel 2009, la struttura ha effettuato 44 interventi cardiochirurgici (pari all'1% del totale regionale) ed è ultima nel Lazio per capacità di attrazione, con una percentuale di ricoveri a carico di residenti fuori regione intorno al 2% (valore medio regionale del 9%). L'indice di inappropriatezza d'uso dei posti letto è 3 volte più elevato rispetto alla media regionale». Quanto «bassa» fosse la performance, lo dice una tabella riservata del «PReValE», il Programma regionale di valutazione degli esiti, recuperata da Sabrina Giannini, di «Report». Tabella dove, alla voce «Bypass aorto-coronarico» per il 2008-2009 sulla mortalità nei primi 30 giorni dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, risulta che non ce la fece il 2,25% degli operati (su 356) al Gemelli, lo 0,46% (su 656) al San Camillo-Forlanini, il 2,67% (su 225) all'Umberto I, il 3,01 (su 632) all'European hospital e via così. Risultato finale: una media di mortalità, per quanto queste statistiche vadano prese con le pinze, intorno al 2,5%.
Bene: in un servizio per «Reportime» di Milena Gabanelli, servizio da questa mattina su Corriere.it , Sabrina Giannini mostra quella tabella a Giacomo Frati: come mai all'Icot c'era una mortalità del 6% e cioè più che doppia? Il giovane «astro nascente» della famiglia del rettore sbanda. E si avvita in una risposta strabiliante: «Cioè, la cardiochirurgia qui è partita da zero. Faccio presente che quando noi abbiamo iniziato tutto il personale, anche infermieristico, era un personale che non aveva mai visto la cardiochirurgia. Abbiamo fatto simulazione in sala anche con i manichini. Anche per il posizionamento dei devices della circolazione extracorporea». Fateci capire: «tutto il personale» (tutto, compresi dunque i chirurghi) era così a digiuno di cardiochirurgia che prima di operare dei pazienti si era addestrato coi manichini? Che storia è questa? Si sono impratichiti via via sui malati che avevano affidato loro la vita? Per difendere quel reparto, mentre la Regione decideva (troppi reparti) di rinunciare ad aprire nuove cardiochirurgie a Viterbo, Frosinone e Rieti, Luigi Frati disse in un'intervista a «La Provincia»: «Mi chiedo perché mai uno di Latina non abbia il diritto di farsi operare nella sua città». Ma da chi, signor rettore? A che prezzo? In quale altro paese del mondo, dopo tutto ciò che è emerso, potrebbe restare ancora imbullonato al suo posto?
Fonte: corriere.it
5 ago 2011
San Raffaele, in Procura l'archivio segreto di Cal
I documenti sulle attività di don Verzé, il ruolo del manager Valsecchi
Le carte in una villa in Brianza. In cantina dodici scatoloni la contabilità del gruppo e delle società estere
MILANO - Dodici scatoloni nella cantina di una villetta in Brianza, a Bernareggio, provincia di Monza. È stato trovato l'archivio segreto di Mario Cal. Il vicepresidente dell'ospedale San Raffaele si era suicidato il 18 luglio sotto l'ufficio di don Luigi Verzé, fondatore del polo sanitario milanese. Le carte pochi giorni fa sono state prelevate dalla villa a due piani, in cui la moglie di Cal aveva una mansarda, e portate alla Procura della Repubblica di Milano, dove i pm Luigi Orsi e Laura Pedio hanno aperto un'inchiesta sull'insolvenza del San Raffaele (un miliardo di debiti).
Ora quei documenti potrebbero rappresentare una svolta per le indagini. Potrebbero aprire nuovi orizzonti perché il braccio destro di don Verzé si occupava della gestione diretta, e se c'era da sporcarsi le mani era lui a farlo. Aveva le chiavi di tutti gli affari, teneva le fila (e la cassa) dei rapporti con il mondo politico. Ce ne sarà traccia nelle carte sequestrate?
La spunta è lunga, molte operazioni dovranno essere ricostruite e riscontrate. Anche per questo, probabilmente, è stato più volte sentito dai pm il direttore finanziario Mario Valsecchi, in qualità di testimone. La natura delle operazioni in esame e le ipotesi di reato sottese (false fatturazioni e appropriazione indebita) dovrebbero trasformare Valsecchi, a sua garanzia, da testimone a indagato già dai prossimi interrogatori.
Se Cal era il vice di don Verzé, Valsecchi era il vice di Cal. Conosce molto bene le dinamiche dei rapporti con i fornitori ma anche i flussi finanziari con le controllate estere. Per dirlo chiaro: se esiste il «nero», cioè una sistema contabile parallelo e coperto, come hanno riferito al Corriere fonti vicine a Cal e don Verzé, Valsecchi lo dovrebbe sapere. Tra le relazioni «chiacchierate» (e quindi da approfondire per diradare le ombre) c'è quella con la Metodo Costruzioni che ha diversi appalti in essere (tra Milano e Olbia) con la Fondazione Monte Tabor, la holding del San Raffaele. Metodo è posseduta dal figlio di Pierino Zammarchi, ex socio di don Verzé nella Edilraf da cui è uscito con modalità (e soldi) che sono oggetto di indagine.
Quanto alla scoperta dell'archivio un fatto è certo e significativo: Cal ha messo insieme gli scatoloni con un certo criterio, non raccogliendo alla rinfusa documentazione dall'ufficio. Pare abbia selezionato gli argomenti. Sapeva di essere al centro della bufera, sentiva che tutte le colpe stavano ricadendo sulle sue spalle. Percepiva l'isolamento verso cui stava dirigendosi. Probabilmente intuiva che sarebbero finiti sotto i riflettori anche gli affari di sua moglie (pompe funebri) con l'ospedale.
Fin lì era stato il garante di un sistema che si teneva insieme grazie al feeling con i fornitori, a molti equilibrismi contabili e alle pubbliche relazioni di don Verzé, amico di potenti e politici, Silvio Berlusconi in primis.
Temeva, Cal, di non potersi difendere. Così ha caricato gli scatoloni con razionalità, ha avuto tempo per farlo. Era un manager vecchia maniera: pile (di carta) più che file . La memoria di anni di lavoro la si misura in chili di cellulosa più che in byte di memoria. Aveva il telefonino ma non lo usava quasi mai. Si procurò un pc portatile, prima di lasciare l'ufficio, nel quale scaricò la posta elettronica. Ma questo è normale per chi abbandona un incarico, in un'azienda in crisi e con la magistratura alle calcagna.
Meno normale che in casa Mario Cal avesse le fotografie dei faldoni dell'ufficio con l'intestazione di alcune società del gruppo. Qual era il senso? Un manager, per quanto affezionato all'ufficio, non va in giro con le foto dei raccoglitori. Segnali? Messaggi? Tra le foto c'è sicuramente quella del dossier Airviaggi, ovvero la società titolare del jet acquistato in Nuova Zelanda. Un costo esagerato e un buco clamoroso dietro il quale, in realtà, vi sarebbe il finanziamento a un politico lombardo.
Fonte: corriere.it
Le carte in una villa in Brianza. In cantina dodici scatoloni la contabilità del gruppo e delle società estere
MILANO - Dodici scatoloni nella cantina di una villetta in Brianza, a Bernareggio, provincia di Monza. È stato trovato l'archivio segreto di Mario Cal. Il vicepresidente dell'ospedale San Raffaele si era suicidato il 18 luglio sotto l'ufficio di don Luigi Verzé, fondatore del polo sanitario milanese. Le carte pochi giorni fa sono state prelevate dalla villa a due piani, in cui la moglie di Cal aveva una mansarda, e portate alla Procura della Repubblica di Milano, dove i pm Luigi Orsi e Laura Pedio hanno aperto un'inchiesta sull'insolvenza del San Raffaele (un miliardo di debiti).
Ora quei documenti potrebbero rappresentare una svolta per le indagini. Potrebbero aprire nuovi orizzonti perché il braccio destro di don Verzé si occupava della gestione diretta, e se c'era da sporcarsi le mani era lui a farlo. Aveva le chiavi di tutti gli affari, teneva le fila (e la cassa) dei rapporti con il mondo politico. Ce ne sarà traccia nelle carte sequestrate?
La spunta è lunga, molte operazioni dovranno essere ricostruite e riscontrate. Anche per questo, probabilmente, è stato più volte sentito dai pm il direttore finanziario Mario Valsecchi, in qualità di testimone. La natura delle operazioni in esame e le ipotesi di reato sottese (false fatturazioni e appropriazione indebita) dovrebbero trasformare Valsecchi, a sua garanzia, da testimone a indagato già dai prossimi interrogatori.
Se Cal era il vice di don Verzé, Valsecchi era il vice di Cal. Conosce molto bene le dinamiche dei rapporti con i fornitori ma anche i flussi finanziari con le controllate estere. Per dirlo chiaro: se esiste il «nero», cioè una sistema contabile parallelo e coperto, come hanno riferito al Corriere fonti vicine a Cal e don Verzé, Valsecchi lo dovrebbe sapere. Tra le relazioni «chiacchierate» (e quindi da approfondire per diradare le ombre) c'è quella con la Metodo Costruzioni che ha diversi appalti in essere (tra Milano e Olbia) con la Fondazione Monte Tabor, la holding del San Raffaele. Metodo è posseduta dal figlio di Pierino Zammarchi, ex socio di don Verzé nella Edilraf da cui è uscito con modalità (e soldi) che sono oggetto di indagine.
Quanto alla scoperta dell'archivio un fatto è certo e significativo: Cal ha messo insieme gli scatoloni con un certo criterio, non raccogliendo alla rinfusa documentazione dall'ufficio. Pare abbia selezionato gli argomenti. Sapeva di essere al centro della bufera, sentiva che tutte le colpe stavano ricadendo sulle sue spalle. Percepiva l'isolamento verso cui stava dirigendosi. Probabilmente intuiva che sarebbero finiti sotto i riflettori anche gli affari di sua moglie (pompe funebri) con l'ospedale.
Fin lì era stato il garante di un sistema che si teneva insieme grazie al feeling con i fornitori, a molti equilibrismi contabili e alle pubbliche relazioni di don Verzé, amico di potenti e politici, Silvio Berlusconi in primis.
Temeva, Cal, di non potersi difendere. Così ha caricato gli scatoloni con razionalità, ha avuto tempo per farlo. Era un manager vecchia maniera: pile (di carta) più che file . La memoria di anni di lavoro la si misura in chili di cellulosa più che in byte di memoria. Aveva il telefonino ma non lo usava quasi mai. Si procurò un pc portatile, prima di lasciare l'ufficio, nel quale scaricò la posta elettronica. Ma questo è normale per chi abbandona un incarico, in un'azienda in crisi e con la magistratura alle calcagna.
Meno normale che in casa Mario Cal avesse le fotografie dei faldoni dell'ufficio con l'intestazione di alcune società del gruppo. Qual era il senso? Un manager, per quanto affezionato all'ufficio, non va in giro con le foto dei raccoglitori. Segnali? Messaggi? Tra le foto c'è sicuramente quella del dossier Airviaggi, ovvero la società titolare del jet acquistato in Nuova Zelanda. Un costo esagerato e un buco clamoroso dietro il quale, in realtà, vi sarebbe il finanziamento a un politico lombardo.
Fonte: corriere.it
19 lug 2011
Quegli strani affari all'estero dietro il buco
Dopo il suicidio di Mario Cal, braccio destro di don Verzè
MILANO - «Su invito del presidente relaziona sull'argomento il vicepresidente dott. Mario Cal...». Si alza l'uomo dei conti. È il manager del San Raffaele che ha le chiavi della cassaforte. Dentro ci sono più debiti che soldi. Ma anche molti segreti. Quel giorno e quel consiglio di amministrazione hanno cambiato la vita dell'ex ciclista che è stato braccio destro, amico e «voce» di don Luigi Verzé. Forse è lì che la luce ha cominciato a spegnersi. Il colpo di pistola è l'ultima scintilla prima del buio.
Alle 10 di mattina del 23 marzo 2011, nell'Aula consiliare dell'Istituto scientifico San Raffaele al settimo piano di via Olgettina 60 a Milano, Mario Cal doveva relazionare il consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor sul piano di ristrutturazione dei debiti. La Fondazione governa il gruppo. È il momento in cui la crisi dell'ospedale diventa pubblica. È il giorno in cui Mario Cal, 72 anni, esce dall'ombra di don Verzé, 91 anni, amico da 35 anni. Cal è vicepresidente con ampi poteri, il bilancio è in rosso profondo. All'inizio i messaggi sono rassicuranti: «Mancanza di liquidità passeggera». La realtà è ben più drammatica. Non è ristrutturazione ma salvataggio. Quasi un miliardo di debiti su 660 milioni di ricavi. I fornitori premono, i decreti ingiuntivi si susseguono.
Cal è l'interfaccia con banche e fornitori. Aveva elaborato un piano di rientro a inizio 2011: bocciato dalle banche. Gli argini erano già rotti. Di colpo il San Raffaele si trova nella tempesta. Sembra che i debiti siano emersi improvvisamente. Ma non è così. Don Verzé con le sue relazioni ad altissimo livello (Silvio Berlusconi su tutti) e con quella grande abilità nel mescolare scienza e sanità, no profit e business, biotecnologie e jet personali, ha tenuto a distanza banche creditrici e fornitori.
Cal intanto dava una veste contabile minimamente dignitosa agli slanci spesso visionari dell'onnipotente prete-manager. Come la cupola di 60 metri d'altezza sovrastata da una statua di 8 metri dell'angelo San Raffaele. Megalomania allo stato puro che però richiede liquidità. Ed evidentemente c'era. O si trovava. Curare le persone che cos'ha da spartire con gli hotel in Sardegna? O le piantagioni di manghi e meloni in Brasile? E quanti milioni sono stati buttati nella società neozelandese proprietaria del jet su cui viaggiava don Verzé? Era Cal a gestire i «capricci». Quando il coperchio è stato appena un po' sollevato, la «spazzatura» estera è piovuta sui bilanci.
Adesso ci sono gli uomini della Santa Sede. Strana operazione: si sono insediati prima ancora di aver tirato fuori un euro, senza aver fatto una valutazione accurata del gruppo e per questo assumendosi rischi elevati. Perché? Per convenienza dell'affare? Per bloccare il concorrente Giuseppe Rotelli? Per salvare l'Opera? Per evitare lo scandalo di un fallimento e l'irruzione dei pm? Entro fine mese, secondo alcune valutazioni, finiranno i soldi. Il concordato preventivo sembra l'unica strada.
Ma che fine farà la «consorteria» dei Sigilli? Sono i fedelissimi di don Verzé riuniti nell'Associazione Monte Tabor, la super holding semisegreta dove si contano i «soci dedicati» (quelli con più poteri) e i «soci ordinari». Qui, nell'ombra, per anni hanno governato uno dei più grandi e protetti imperi della sanità.
La cassaforte adesso ha perso il suo custode. E forse non è un caso che ieri mattina, subito dopo il suicidio, nell'ufficio di Cal si siano presentati, a caccia di carte contabili, Luigi Orsi e Laura Pedio, i due pm che si occupano dell'inchiesta conoscitiva sulla situazione debitoria del gruppo. Tra quelle carte dovrebbe esserci un documento datato 29 giugno 2011: c'è scritto che don Verzé e Mario Cal avranno per tre anni tutti i poteri sulle attività estere e su altre società. Un colpo di coda. Poi il colpo di pistola.
Fonte: corriere.it
MILANO - «Su invito del presidente relaziona sull'argomento il vicepresidente dott. Mario Cal...». Si alza l'uomo dei conti. È il manager del San Raffaele che ha le chiavi della cassaforte. Dentro ci sono più debiti che soldi. Ma anche molti segreti. Quel giorno e quel consiglio di amministrazione hanno cambiato la vita dell'ex ciclista che è stato braccio destro, amico e «voce» di don Luigi Verzé. Forse è lì che la luce ha cominciato a spegnersi. Il colpo di pistola è l'ultima scintilla prima del buio.
Alle 10 di mattina del 23 marzo 2011, nell'Aula consiliare dell'Istituto scientifico San Raffaele al settimo piano di via Olgettina 60 a Milano, Mario Cal doveva relazionare il consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor sul piano di ristrutturazione dei debiti. La Fondazione governa il gruppo. È il momento in cui la crisi dell'ospedale diventa pubblica. È il giorno in cui Mario Cal, 72 anni, esce dall'ombra di don Verzé, 91 anni, amico da 35 anni. Cal è vicepresidente con ampi poteri, il bilancio è in rosso profondo. All'inizio i messaggi sono rassicuranti: «Mancanza di liquidità passeggera». La realtà è ben più drammatica. Non è ristrutturazione ma salvataggio. Quasi un miliardo di debiti su 660 milioni di ricavi. I fornitori premono, i decreti ingiuntivi si susseguono.
Cal è l'interfaccia con banche e fornitori. Aveva elaborato un piano di rientro a inizio 2011: bocciato dalle banche. Gli argini erano già rotti. Di colpo il San Raffaele si trova nella tempesta. Sembra che i debiti siano emersi improvvisamente. Ma non è così. Don Verzé con le sue relazioni ad altissimo livello (Silvio Berlusconi su tutti) e con quella grande abilità nel mescolare scienza e sanità, no profit e business, biotecnologie e jet personali, ha tenuto a distanza banche creditrici e fornitori.
Cal intanto dava una veste contabile minimamente dignitosa agli slanci spesso visionari dell'onnipotente prete-manager. Come la cupola di 60 metri d'altezza sovrastata da una statua di 8 metri dell'angelo San Raffaele. Megalomania allo stato puro che però richiede liquidità. Ed evidentemente c'era. O si trovava. Curare le persone che cos'ha da spartire con gli hotel in Sardegna? O le piantagioni di manghi e meloni in Brasile? E quanti milioni sono stati buttati nella società neozelandese proprietaria del jet su cui viaggiava don Verzé? Era Cal a gestire i «capricci». Quando il coperchio è stato appena un po' sollevato, la «spazzatura» estera è piovuta sui bilanci.
Adesso ci sono gli uomini della Santa Sede. Strana operazione: si sono insediati prima ancora di aver tirato fuori un euro, senza aver fatto una valutazione accurata del gruppo e per questo assumendosi rischi elevati. Perché? Per convenienza dell'affare? Per bloccare il concorrente Giuseppe Rotelli? Per salvare l'Opera? Per evitare lo scandalo di un fallimento e l'irruzione dei pm? Entro fine mese, secondo alcune valutazioni, finiranno i soldi. Il concordato preventivo sembra l'unica strada.
Ma che fine farà la «consorteria» dei Sigilli? Sono i fedelissimi di don Verzé riuniti nell'Associazione Monte Tabor, la super holding semisegreta dove si contano i «soci dedicati» (quelli con più poteri) e i «soci ordinari». Qui, nell'ombra, per anni hanno governato uno dei più grandi e protetti imperi della sanità.
La cassaforte adesso ha perso il suo custode. E forse non è un caso che ieri mattina, subito dopo il suicidio, nell'ufficio di Cal si siano presentati, a caccia di carte contabili, Luigi Orsi e Laura Pedio, i due pm che si occupano dell'inchiesta conoscitiva sulla situazione debitoria del gruppo. Tra quelle carte dovrebbe esserci un documento datato 29 giugno 2011: c'è scritto che don Verzé e Mario Cal avranno per tre anni tutti i poteri sulle attività estere e su altre società. Un colpo di coda. Poi il colpo di pistola.
Fonte: corriere.it
Mario Cal lascia due lettere, una alla moglie e una alla segretaria. E spunta il «giallo» della pistola
«Era molto preoccupato per il S. Raffaele»
L'avvocato di Cal: «Sapeva che non c'erano i mezzi per far fronte ai debiti». Spostata l'arma del suicidio
MILANO - Non conosce i motivi del suicidio. Ma conosceva bene lo stato d'animo di Mario Cal l'ex vicepresidente della Fondazione San Raffaele che si è ucciso con un colpo di pistola oggi a Milano. «Cal era molto preoccupato, non tanto per l'inchiesta, quanto per la situazione del San Raffaele» ha detto il suo avvocato, Rosario Minniti, che segue la vicenda del noto ospedale milanese e che questa mattina si trovava in Procura a Milano. «Era preoccupato per la situazione del San Raffaele perché non c'era più la liquidità per pagare i fornitori» ha aggiunto Minniti. Cal era stato sentito tempo fa solo come persona informata sui fatti dal pubblico ministero Luigi Orsi nell'ambito di un procedimento conoscitivo sui conti in rosso dell'istituto di ricovero e cura a carattere scientifico milanese. Il gruppo ospedaliero, indebitato per circa 900 milioni di euro, è alle prese con un nuovo piano industriale, una ristrutturazione finanziaria e una contemporanea riorganizzazione aziendale con una probabile apertura a nuovi soci, in particolare il Vaticano, che si è offerto di ripianare i debiti. Lo scorso 7 luglio sono entrati nel consiglio di amministrazione della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, il docente dell'università Bocconi Maurizio Pini, il preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell'università Vita-Salute San Raffaele Massimo Clementi, l'ex ministro Giovanni Maria Flick, l'imprenditore Vittorio Malacalza e il presidente dell'ospedale Bambin Gesù di Roma Giuseppe Profiti, diventato una settimana dopo vice-presidente, «delegato con tutti i poteri».
PREOCCUPATO - Secondo Minniti a preoccupare Cal non era quindi tanto la situazione debitoria, quanto il fatto che i crediti contratti dal nosocomio, della cui Fondazione era stato vicepresidente, non rientrassero. Di fatto, spiega il legale «non c'erano i mezzi per far fronte al pagamento dei debiti». L'avvocato si è detto «molto dispiaciuto per la perdita di un caro cliente e un amico a cui sono stato vicino nei momenti di difficoltà, ma questa volta non mi è stato possibile».
LA DINAMICA DEL SUICIDIO - Cal si era presentato nel suo ex ufficio intorno alle 10.30, ha salutato la segretaria e si è chiuso dentro per alcuni minuti per raccogliere i suoi effetti personali dato che era dimissionario dalla settimana scorsa. Alcuni minuti dopo è risuonato il colpo di pistola. La segretaria, ancora in stato di choc, ha sentito un’esplosione provenire dall’interno della stanza, ha aperto la porta e ha trovato l’uomo steso a terra in una pozza di sangue. Cal si è sparato con una pistola a tamburo Smith and Wesson regolarmente detenuta che portava sempre con sè per paura di aggressioni.
LE LETTERE - Mario Cal ha lasciato due lettere. Una è indirizzata alla moglie, l'altra, stando alla prime informazioni, alla segretaria. Da quanto si è saputo le due lettere, di poche righe, sono state scritte a mano probabilmente poco prima che l'ex amministratore si togliesse la vita. Le due missive avrebbero più che altro un contenuto affettivo e, da quanto è stato riferito, non conterrebbero alcun riferimento alla grave situazione economica del San Raffaele. La moglie di Cal ha detto di non avere avuto «nei giorni scorsi sentore né avvisaglie, anche perché era un uomo forte». Neppure le più strette collaboratrici di Cal avevano avuto la percezione di quanto stava per accadere.
IL «GIALLO» DELLA PISTOLA - Nell'inchiesta aperta come di prassi dalla procura, spunta anche «il giallo» della pistola. L'arma con cui l'ex vice presidente del San Raffaele, Mario Cal, è stata infatti spostata e infilata in un sacchetto da una persona che deve essere ancora identificata, probabilmente una delle prime ad entrare nella stanza dove l'ex braccio destro di Don Verzè si è ucciso. Inoltre il pm di turno, Maurizio Ascione, ha disposto accertamenti sulla pistola usata da Cal per appurare il perchè sia stata spostata da un dipendente e infilata in un sacchetto, anche se qualcuno sostiene che l'arma sia stata spostata durante l'intervento per soccorrere Cal che è morto poco dopo in rianimazione.
PIANO DI SALVATAGGIO - Sulla morte dell'ex vice Don Verzè è intervenuto anche Giovanni La Croce , l'attestatore del piano di salvataggio del gruppo ospedaliero per il quale la scomparsa di Cal, «è un evento tragico che rende ancor più improcrastinabile il deposito della domanda di concordato preventivo (l'intesa con i creditori che evita il fallimento, ndr) in tribunale».
IL VATICANO- La Santa Sede ha preso in mano la questione del salvataggio del San Raffaele, insediando nel consiglio d'amministrazione il nuovo vice presidente Giuseppe Profiti. Da Oltretevere però nessun commento. E soprattutto i media legati al Vaticano non hanno dato notizia del suicidio di Cal. Una notizia che ha ha sicuramente suscitato dolore e sgomento.
Fonte: corriere.it
L'avvocato di Cal: «Sapeva che non c'erano i mezzi per far fronte ai debiti». Spostata l'arma del suicidio
MILANO - Non conosce i motivi del suicidio. Ma conosceva bene lo stato d'animo di Mario Cal l'ex vicepresidente della Fondazione San Raffaele che si è ucciso con un colpo di pistola oggi a Milano. «Cal era molto preoccupato, non tanto per l'inchiesta, quanto per la situazione del San Raffaele» ha detto il suo avvocato, Rosario Minniti, che segue la vicenda del noto ospedale milanese e che questa mattina si trovava in Procura a Milano. «Era preoccupato per la situazione del San Raffaele perché non c'era più la liquidità per pagare i fornitori» ha aggiunto Minniti. Cal era stato sentito tempo fa solo come persona informata sui fatti dal pubblico ministero Luigi Orsi nell'ambito di un procedimento conoscitivo sui conti in rosso dell'istituto di ricovero e cura a carattere scientifico milanese. Il gruppo ospedaliero, indebitato per circa 900 milioni di euro, è alle prese con un nuovo piano industriale, una ristrutturazione finanziaria e una contemporanea riorganizzazione aziendale con una probabile apertura a nuovi soci, in particolare il Vaticano, che si è offerto di ripianare i debiti. Lo scorso 7 luglio sono entrati nel consiglio di amministrazione della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, il docente dell'università Bocconi Maurizio Pini, il preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell'università Vita-Salute San Raffaele Massimo Clementi, l'ex ministro Giovanni Maria Flick, l'imprenditore Vittorio Malacalza e il presidente dell'ospedale Bambin Gesù di Roma Giuseppe Profiti, diventato una settimana dopo vice-presidente, «delegato con tutti i poteri».
PREOCCUPATO - Secondo Minniti a preoccupare Cal non era quindi tanto la situazione debitoria, quanto il fatto che i crediti contratti dal nosocomio, della cui Fondazione era stato vicepresidente, non rientrassero. Di fatto, spiega il legale «non c'erano i mezzi per far fronte al pagamento dei debiti». L'avvocato si è detto «molto dispiaciuto per la perdita di un caro cliente e un amico a cui sono stato vicino nei momenti di difficoltà, ma questa volta non mi è stato possibile».
LA DINAMICA DEL SUICIDIO - Cal si era presentato nel suo ex ufficio intorno alle 10.30, ha salutato la segretaria e si è chiuso dentro per alcuni minuti per raccogliere i suoi effetti personali dato che era dimissionario dalla settimana scorsa. Alcuni minuti dopo è risuonato il colpo di pistola. La segretaria, ancora in stato di choc, ha sentito un’esplosione provenire dall’interno della stanza, ha aperto la porta e ha trovato l’uomo steso a terra in una pozza di sangue. Cal si è sparato con una pistola a tamburo Smith and Wesson regolarmente detenuta che portava sempre con sè per paura di aggressioni.
LE LETTERE - Mario Cal ha lasciato due lettere. Una è indirizzata alla moglie, l'altra, stando alla prime informazioni, alla segretaria. Da quanto si è saputo le due lettere, di poche righe, sono state scritte a mano probabilmente poco prima che l'ex amministratore si togliesse la vita. Le due missive avrebbero più che altro un contenuto affettivo e, da quanto è stato riferito, non conterrebbero alcun riferimento alla grave situazione economica del San Raffaele. La moglie di Cal ha detto di non avere avuto «nei giorni scorsi sentore né avvisaglie, anche perché era un uomo forte». Neppure le più strette collaboratrici di Cal avevano avuto la percezione di quanto stava per accadere.
IL «GIALLO» DELLA PISTOLA - Nell'inchiesta aperta come di prassi dalla procura, spunta anche «il giallo» della pistola. L'arma con cui l'ex vice presidente del San Raffaele, Mario Cal, è stata infatti spostata e infilata in un sacchetto da una persona che deve essere ancora identificata, probabilmente una delle prime ad entrare nella stanza dove l'ex braccio destro di Don Verzè si è ucciso. Inoltre il pm di turno, Maurizio Ascione, ha disposto accertamenti sulla pistola usata da Cal per appurare il perchè sia stata spostata da un dipendente e infilata in un sacchetto, anche se qualcuno sostiene che l'arma sia stata spostata durante l'intervento per soccorrere Cal che è morto poco dopo in rianimazione.
PIANO DI SALVATAGGIO - Sulla morte dell'ex vice Don Verzè è intervenuto anche Giovanni La Croce , l'attestatore del piano di salvataggio del gruppo ospedaliero per il quale la scomparsa di Cal, «è un evento tragico che rende ancor più improcrastinabile il deposito della domanda di concordato preventivo (l'intesa con i creditori che evita il fallimento, ndr) in tribunale».
IL VATICANO- La Santa Sede ha preso in mano la questione del salvataggio del San Raffaele, insediando nel consiglio d'amministrazione il nuovo vice presidente Giuseppe Profiti. Da Oltretevere però nessun commento. E soprattutto i media legati al Vaticano non hanno dato notizia del suicidio di Cal. Una notizia che ha ha sicuramente suscitato dolore e sgomento.
Fonte: corriere.it
Si spara il braccio destro di don Verzè. Mario Cal era il vice del fondatore dell'ospedale San Raffaele di Milano.
Era stato ascoltato dai magistrati
MILANO - Il vice di don Verzè all'ospedale San Raffaele di Milano, Mario Cal, si è sparato nel suo studio nello stesso ospedale ed è morto dopo il ricovero d'urgenza nel reparto di rianimazione. La notizia si è appresa in tribunale, dove l'avvocato Rosario Minniti ha partecipato a una riunione nell'ufficio del procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati insieme al capo del pool reati finanziari Francesco Greco e al pm Luigi Orsi.
IL «BUCO» - Cal era stato ascoltato negli scorsi giorni dalla Procura della Repubblica, come testimone, per vedere di definire i contorni e le dimensioni del maxi buco dell'istituto di don Verzè, prima che il Vaticano aggregasse alcuni soggetti economici intorno a un piano di salvataggio. Cal ha lasciato una lettera di cui si ignora il contenuto. Secondo quanto si apprende, la Procura di Milano non aveva in corso alcun tipo di iniziativa giudiziaria nei suoi confronti.
Fonte: corriere.it
MILANO - Il vice di don Verzè all'ospedale San Raffaele di Milano, Mario Cal, si è sparato nel suo studio nello stesso ospedale ed è morto dopo il ricovero d'urgenza nel reparto di rianimazione. La notizia si è appresa in tribunale, dove l'avvocato Rosario Minniti ha partecipato a una riunione nell'ufficio del procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati insieme al capo del pool reati finanziari Francesco Greco e al pm Luigi Orsi.
IL «BUCO» - Cal era stato ascoltato negli scorsi giorni dalla Procura della Repubblica, come testimone, per vedere di definire i contorni e le dimensioni del maxi buco dell'istituto di don Verzè, prima che il Vaticano aggregasse alcuni soggetti economici intorno a un piano di salvataggio. Cal ha lasciato una lettera di cui si ignora il contenuto. Secondo quanto si apprende, la Procura di Milano non aveva in corso alcun tipo di iniziativa giudiziaria nei suoi confronti.
Fonte: corriere.it
L'ex ufficiale della Finanza nell'ex impero di don Verzé. Chi è Profiti, le ambizioni e la fiducia di Bertone.
Dal Galliera al Bambin Gesù alla Cattolica. carriera folgorante, con intoppo a Genova
CITTÀ DEL VATICANO - Nel 2009, per capire il tipo, spiegò all'Osservatore Romano: «L'obiettivo del Bambin Gesù è diventare il centro di riferimento della ricerca pediatrica e dell'assistenza in Europa. E, perché no, anche uno dei centri mondiali di riferimento. Può sembrare ambizioso, ma io credo sia un obiettivo ragionato e razionale».
Giuseppe Profiti, nuovo vicepresidente con pieni poteri del San Raffaele, anche Oltretevere ha la fama di un uomo capace, prudente e riservato, uno che si fa vedere poco, parla ancora meno e sgobba tantissimo, la pausa pranzo ridotta a un caffè. Tenace, magari un po' freddo, però non è il tipo del secchione né gli difetta l'ironia: a maggio di tre anni fa, agli arresti domiciliari per qualche giorno nell'inchiesta genovese sugli appalti delle mense comunali, attese imperturbabile l'interrogatorio del gip leggendo «Il processo» di Franz Kafka, tanto per chiarire - con discrezione - come si sentiva: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato»
Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, lo aveva voluto da pochi mesi, gennaio 2008, alla presidenza dell'ospedale Bambin Gesù. E, poiché nella Chiesa i segnali sono importanti, fece colpo l'udienza privata dal Papa che gli fu concessa il 19 maggio 2008, durante la visita di Benedetto XVI a Genova e nel pieno dell'indagine nella quale Profiti sarebbe stato coinvolto di lì a poco. La «piena solidarietà» della Santa Sede, con nota ufficiale, fu immediata, la fiducia non gli è mai mancata in seguito. Le cronache giudiziarie parlano di un coinvolgimento tutto sommato marginale (l'accusa si riferiva a quando era direttore delle Risorse finanziarie in Regione), nel frattempo è arrivata una condanna a sei mesi con la condizionale per concorso in turbativa d'asta, nel 2010, confermata il mese scorso in appello. E lui, che ha un fratello magistrato, non ha mormorato una parola polemica contro i giudici: si è sempre detto estraneo, ricorrerà in Cassazione, tutto qui. «Nei cinque anni in cui ho collaborato con il cardinale Bertone prima e con il cardinale Bagnasco poi, tutti i nostri colloqui non hanno mai fatto riferimento direttamente o indirettamente ad attività commerciali», si limitò a precisare uscito dal gip.
Disciplinato, riservato, abituato a gestire il potere con cautela. E stimatissimo dal cardinale Bertone che, da arcivescovo di Genova, lo aveva chiamato alla fine del 2004 per guidare l'ospedale Galliera. Il professor Profiti - docente di contabilità degli enti pubblici all'università di Genova - era già stato direttore amministrativo al Gaslini. Ma fu allora che la sua carriera decollò: divenuto segretario di Stato, Bertone lo chiama in Vaticano al Bambin Gesù, nel 2010 Profiti entra pure nel Cda dell'università Cattolica, ora si aggiunge il San Raffaele.
Un'accelerazione folgorante, per il manager nato a Catanzaro nel 1961, ufficiale della Guardia di Finanza dall'85 all'87 e poi, tra l'altro, consigliere alla Ragioneria generale dello Stato e vice commissario straordinario dell'istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova. La fama di competenza si è consolidata negli ospedali della Chiesa genovese e al Bambin Gesù. Sotto la regia del Segretario di Stato Vaticano, l'operazione San Raffaele è affidata a un gruppo calibratissimo: impostata dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e con un luminare del diritto (Giovanni Maria Flick), un imprenditore (Vittorio Malacalza) più, appunto, un esperto di sanità: di qui il compito di Profiti, mentre il superconsulente Enrico Bondi lavorerà al risanamento.
Fonte: corriere.it
CITTÀ DEL VATICANO - Nel 2009, per capire il tipo, spiegò all'Osservatore Romano: «L'obiettivo del Bambin Gesù è diventare il centro di riferimento della ricerca pediatrica e dell'assistenza in Europa. E, perché no, anche uno dei centri mondiali di riferimento. Può sembrare ambizioso, ma io credo sia un obiettivo ragionato e razionale».
Giuseppe Profiti, nuovo vicepresidente con pieni poteri del San Raffaele, anche Oltretevere ha la fama di un uomo capace, prudente e riservato, uno che si fa vedere poco, parla ancora meno e sgobba tantissimo, la pausa pranzo ridotta a un caffè. Tenace, magari un po' freddo, però non è il tipo del secchione né gli difetta l'ironia: a maggio di tre anni fa, agli arresti domiciliari per qualche giorno nell'inchiesta genovese sugli appalti delle mense comunali, attese imperturbabile l'interrogatorio del gip leggendo «Il processo» di Franz Kafka, tanto per chiarire - con discrezione - come si sentiva: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato»
Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, lo aveva voluto da pochi mesi, gennaio 2008, alla presidenza dell'ospedale Bambin Gesù. E, poiché nella Chiesa i segnali sono importanti, fece colpo l'udienza privata dal Papa che gli fu concessa il 19 maggio 2008, durante la visita di Benedetto XVI a Genova e nel pieno dell'indagine nella quale Profiti sarebbe stato coinvolto di lì a poco. La «piena solidarietà» della Santa Sede, con nota ufficiale, fu immediata, la fiducia non gli è mai mancata in seguito. Le cronache giudiziarie parlano di un coinvolgimento tutto sommato marginale (l'accusa si riferiva a quando era direttore delle Risorse finanziarie in Regione), nel frattempo è arrivata una condanna a sei mesi con la condizionale per concorso in turbativa d'asta, nel 2010, confermata il mese scorso in appello. E lui, che ha un fratello magistrato, non ha mormorato una parola polemica contro i giudici: si è sempre detto estraneo, ricorrerà in Cassazione, tutto qui. «Nei cinque anni in cui ho collaborato con il cardinale Bertone prima e con il cardinale Bagnasco poi, tutti i nostri colloqui non hanno mai fatto riferimento direttamente o indirettamente ad attività commerciali», si limitò a precisare uscito dal gip.
Disciplinato, riservato, abituato a gestire il potere con cautela. E stimatissimo dal cardinale Bertone che, da arcivescovo di Genova, lo aveva chiamato alla fine del 2004 per guidare l'ospedale Galliera. Il professor Profiti - docente di contabilità degli enti pubblici all'università di Genova - era già stato direttore amministrativo al Gaslini. Ma fu allora che la sua carriera decollò: divenuto segretario di Stato, Bertone lo chiama in Vaticano al Bambin Gesù, nel 2010 Profiti entra pure nel Cda dell'università Cattolica, ora si aggiunge il San Raffaele.
Un'accelerazione folgorante, per il manager nato a Catanzaro nel 1961, ufficiale della Guardia di Finanza dall'85 all'87 e poi, tra l'altro, consigliere alla Ragioneria generale dello Stato e vice commissario straordinario dell'istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova. La fama di competenza si è consolidata negli ospedali della Chiesa genovese e al Bambin Gesù. Sotto la regia del Segretario di Stato Vaticano, l'operazione San Raffaele è affidata a un gruppo calibratissimo: impostata dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e con un luminare del diritto (Giovanni Maria Flick), un imprenditore (Vittorio Malacalza) più, appunto, un esperto di sanità: di qui il compito di Profiti, mentre il superconsulente Enrico Bondi lavorerà al risanamento.
Fonte: corriere.it
Al San Raffaele finita l'era don Verzé. I poteri al Vaticano
Profiti alla guida con Enrico Bondi
MILANO - Con quasi un miliardo di debiti finisce l’era di per il San Raffaele di Milano. Tutti i poteri sono stati conferiti a Giuseppe Profiti, presidente dell’ospedale Bambin Gesù di Roma e uomo di fiducia del cardinale Bertone. Come super consulente per il risanamento arriva, invece, il grande esperto Enrico Bondi, che oltre a Parmalat, appena conclusa, vanta in carriera operazioni come Montedison e Lucchini.
E alla fine la svolta storica all'ospedale San Raffaele è arrivata, don Luigi Verzé rinuncia a tutti i poteri. Le redini del colosso sanitario da ieri le tiene in mano la Santa Sede. Le deleghe operative vanno a Giuseppe Profiti, presidente del Bambin Gesù e uomo di fiducia del cardinale Tarcisio Bertone. Come super consulente per il risanamento è stato chiamato, invece, Enrico Bondi. Via libera anche alla cordata guidata dall'Università Vita Salute, con i finanziamenti di una charity internazionale.
Così, sotto i colpi di quasi un miliardo di debiti, finisce l'era di don Luigi Verzé, il prete manager che in 42 anni di sfide ha creato un polo di ricerca e cura, nonché una galassia di business paralleli con jet, hotel, coltivazioni di mango e meloni in Brasile. Il nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, che guida il gruppo ospedaliero, è durato quattro ore: oltre a Profiti (vicepresidente operativo), hanno debuttato ufficialmente in rappresentanza della Santa Sede, il presidente dello Ior (la banca vaticana) Ettore Gotti Tedeschi, il giurista ex ministro Giovanni Maria Flick, l'imprenditore Vittorio Malacalza. Confermati i consiglieri di amministrazione della charity internazionale, Massimo Clementi (Università Vita e Salute del San Raffaele) e Maurizio Pini (Bocconi).
In gioco non c'è solo il salvataggio del San Raffaele: quello di ieri virtualmente è anche il primo passo per la nascita di un mega polo sanitario cattolico tra l'ospedale di Milano, il Bambin Gesù e il Gemelli di Roma e l'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo. Un progetto importante che ha convinto don Verzé a fare un passo indietro, anche se formalmente rimane presidente. «Con l'espressa volontà del presidente sac. prof. Luigi Maria Verzé, il consiglio di amministrazione ha deliberato il conferimento al consiglio stesso di tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione - si legge nel comunicato di ieri del San Raffaele -. Il presidente ha delegato al vicepresidente prof. Giuseppe Profiti e al consiglio tutti i poteri, rinunciando all'esercizio degli stessi».
Tra i primi obiettivi dichiarati dal nuovo cda, quello di operare una ricognizione precisa della situazione aziendale e contabile della Fondazione Monte Tabor. Di qui il compito affidato al super advisor Enrico Bondi, chiamato con ogni probabilità dallo stesso presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, per mettere a punto un piano di risanamento. Rinviate le due decisioni clou. Appare rimandata, almeno per il momento, la richiesta di concordato preventivo di continuità. È l'accordo in Tribunale con i fornitori, previsto dal piano dell'advisor Arnaldo Borghesi, ma che per ora sembra congelato. Il tempo, in ogni caso, stringe: i decreti ingiuntivi dei fornitori non pagati incombono. Slittata, per adesso, anche la nascita della newco dove dovrebbero confluire i finanziamenti necessari a saldare i debiti (almeno 200/250 milioni di euro) più urgenti. «Il consiglio di amministrazione è fiducioso di avere il tempo e di essere in grado di portare avanti con serenità l'attività di risanamento al fine di salvaguardare le risorse umane impegnate nell'Opera San Raffaele e gli interessi di tutti gli interlocutori coinvolti nell'attuale crisi - si legge nel comunicato -. È altresì convinto che il San Raffaele continuerà ad esercitare il ruolo internazionalmente riconosciutogli nelle attività di clinica e di ricerca».
Soddisfazione dal mondo scientifico del San Raffaele che aveva fatto quadrato intorno al progetto Vaticano-charity internazionale. Del resto, il risultato raggiunto è anche frutto dei mesi di lavoro dello stesso Massimo Clementi (preside della facoltà di Medicina) e di Alberto Zangrillo, alla guida del dipartimento di Anestesia e Rianimazione, nonché medico personale del premier. Uno strenuo lavoro di contatti e diplomazia che segna l'inizio di una nuova epoca per il San Raffaele.
Fonte: corriere.it
MILANO - Con quasi un miliardo di debiti finisce l’era di per il San Raffaele di Milano. Tutti i poteri sono stati conferiti a Giuseppe Profiti, presidente dell’ospedale Bambin Gesù di Roma e uomo di fiducia del cardinale Bertone. Come super consulente per il risanamento arriva, invece, il grande esperto Enrico Bondi, che oltre a Parmalat, appena conclusa, vanta in carriera operazioni come Montedison e Lucchini.
E alla fine la svolta storica all'ospedale San Raffaele è arrivata, don Luigi Verzé rinuncia a tutti i poteri. Le redini del colosso sanitario da ieri le tiene in mano la Santa Sede. Le deleghe operative vanno a Giuseppe Profiti, presidente del Bambin Gesù e uomo di fiducia del cardinale Tarcisio Bertone. Come super consulente per il risanamento è stato chiamato, invece, Enrico Bondi. Via libera anche alla cordata guidata dall'Università Vita Salute, con i finanziamenti di una charity internazionale.
Così, sotto i colpi di quasi un miliardo di debiti, finisce l'era di don Luigi Verzé, il prete manager che in 42 anni di sfide ha creato un polo di ricerca e cura, nonché una galassia di business paralleli con jet, hotel, coltivazioni di mango e meloni in Brasile. Il nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, che guida il gruppo ospedaliero, è durato quattro ore: oltre a Profiti (vicepresidente operativo), hanno debuttato ufficialmente in rappresentanza della Santa Sede, il presidente dello Ior (la banca vaticana) Ettore Gotti Tedeschi, il giurista ex ministro Giovanni Maria Flick, l'imprenditore Vittorio Malacalza. Confermati i consiglieri di amministrazione della charity internazionale, Massimo Clementi (Università Vita e Salute del San Raffaele) e Maurizio Pini (Bocconi).
In gioco non c'è solo il salvataggio del San Raffaele: quello di ieri virtualmente è anche il primo passo per la nascita di un mega polo sanitario cattolico tra l'ospedale di Milano, il Bambin Gesù e il Gemelli di Roma e l'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo. Un progetto importante che ha convinto don Verzé a fare un passo indietro, anche se formalmente rimane presidente. «Con l'espressa volontà del presidente sac. prof. Luigi Maria Verzé, il consiglio di amministrazione ha deliberato il conferimento al consiglio stesso di tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione - si legge nel comunicato di ieri del San Raffaele -. Il presidente ha delegato al vicepresidente prof. Giuseppe Profiti e al consiglio tutti i poteri, rinunciando all'esercizio degli stessi».
Tra i primi obiettivi dichiarati dal nuovo cda, quello di operare una ricognizione precisa della situazione aziendale e contabile della Fondazione Monte Tabor. Di qui il compito affidato al super advisor Enrico Bondi, chiamato con ogni probabilità dallo stesso presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, per mettere a punto un piano di risanamento. Rinviate le due decisioni clou. Appare rimandata, almeno per il momento, la richiesta di concordato preventivo di continuità. È l'accordo in Tribunale con i fornitori, previsto dal piano dell'advisor Arnaldo Borghesi, ma che per ora sembra congelato. Il tempo, in ogni caso, stringe: i decreti ingiuntivi dei fornitori non pagati incombono. Slittata, per adesso, anche la nascita della newco dove dovrebbero confluire i finanziamenti necessari a saldare i debiti (almeno 200/250 milioni di euro) più urgenti. «Il consiglio di amministrazione è fiducioso di avere il tempo e di essere in grado di portare avanti con serenità l'attività di risanamento al fine di salvaguardare le risorse umane impegnate nell'Opera San Raffaele e gli interessi di tutti gli interlocutori coinvolti nell'attuale crisi - si legge nel comunicato -. È altresì convinto che il San Raffaele continuerà ad esercitare il ruolo internazionalmente riconosciutogli nelle attività di clinica e di ricerca».
Soddisfazione dal mondo scientifico del San Raffaele che aveva fatto quadrato intorno al progetto Vaticano-charity internazionale. Del resto, il risultato raggiunto è anche frutto dei mesi di lavoro dello stesso Massimo Clementi (preside della facoltà di Medicina) e di Alberto Zangrillo, alla guida del dipartimento di Anestesia e Rianimazione, nonché medico personale del premier. Uno strenuo lavoro di contatti e diplomazia che segna l'inizio di una nuova epoca per il San Raffaele.
Fonte: corriere.it
1 giu 2011
Buco sanità, Vendola aumenta le tasse. Cento milioni rastrellati dal caro-Irpef
La manovra necessaria per coprire il deficit di bilancio
Rincaro dello 0,5%. Per i redditi più bassi è dello 0,3%
BARI - Diventano più salate le tasse in Puglia. Da oggi, e a valere su tutto il periodo di imposta 2011, aumenta l’addizionale regionale sull’Irpef. La manovra fiscale serve a colmare la parte non coperta del disavanzo sanitario maturato nel 2010. Stamattina Nichi Vendola, in qualità di commissario ad acta e come comunicato ieri a Cgil Cisl e Uil, firmerà un apposito decreto perché sia pubblicato tempestivamente in Gazzetta ufficiale (entro il 31 maggio, a pena di altre severe sanzioni). Il provvedimento, grazie all’insistenza dei sindacati, sarà modulato e non farà gravare l’inasprimento fiscale su tutte le fasce di reddito. In particolare: l’aumento sarà dello 0,30% per i redditi fino a 28mila euro; sarà dello 0,50% sui redditi superiori. Considerata la base ordinaria dello 0,90 prevista dalle norme statali, in definitiva l’addizionale Irpef risulterà dell’1,20% per i redditi fino a 28mila e dell’1,40 per quelli superiori. Qualche esempio concreto. Chi ha un reddito da 15mila euro annui passa da un’addizionale di 135 a 180 euro. A 28mila euro si passa da 252 a 336. A 50mila euro da 450 a 644 euro annui.
I sindacati avrebbero voluto che le fasce di reddito più basse fossero integralmente esentate dall’aumento dell’addizionale. Non è stato possibile, come è stato spiegato da Vendola, dagli assessori Michele Pelillo (Bilancio), Tommaso Fiore (Salute) e Nicola Fratoianni (Programma) e dal dirigente Mario Aulenta. Aumentare l’Irpef solo sulle fasce più alte (per esempio superiori a 28mila euro) non avrebbe consentito di colmare la parte non coperta del disavanzo sanitario. Si tratta di una cifra pari a 93,6 milioni, cui si aggiungono 8,4 milioni a scopo prudenziale, per un totale di 102 milioni (il disavanzo complessivo è di 335,5 milioni). Tuttavia, il fatto di aver «modulato» l’inasprimento accoglie in parte i suggerimenti di parte sindacale. Finora, le Regioni che come la Puglia sono in Piano di rientro, sono state costrette ad aumentare l’Irpef in maniera indiscriminata e al massimo (ossia lo 0,50%, ma in qualche caso lo 0,65 per le situazioni più gravi).
La Puglia, dopo una trattativa intensa con il governo sull’applicazione delle norme, ha ottenuto una sorta di deroga e l’applicazione della modulazione per fasce. Inoltre, e questa è una novità rispetto al recente passato, l’addizionale regionale si pagherà in relazione agli scaglioni. Ossia: 1,20% per il reddito o la quota di reddito fino a 28mila e 1,40 solo per la parte eccedente quel tetto. Quando aumentò per il 2008 e 2009, il meccanismo fu differente: furono considerati esenti i contribuenti sotto i 28mila euro e quelli con guadagni superiori pagarono l’addizionale su tutto il reddito. Ultima annotazione: i lavoratori autonomi (o coloro che percepiscono redditi di impresa soggetti a Irpef) dovranno tener conto della nuova addizionale già in queste settimane, per gli acconti di imposta 2011. Per i dipendenti non ci sono problemi: il prelievo avverrà direttamente in busta paga, a partire dal primo gennaio 2012, visto che l’addizionale si paga con un anno di ritardo. La legge di assestamento correggerà il bilancio e le relative entrate.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
Rincaro dello 0,5%. Per i redditi più bassi è dello 0,3%
BARI - Diventano più salate le tasse in Puglia. Da oggi, e a valere su tutto il periodo di imposta 2011, aumenta l’addizionale regionale sull’Irpef. La manovra fiscale serve a colmare la parte non coperta del disavanzo sanitario maturato nel 2010. Stamattina Nichi Vendola, in qualità di commissario ad acta e come comunicato ieri a Cgil Cisl e Uil, firmerà un apposito decreto perché sia pubblicato tempestivamente in Gazzetta ufficiale (entro il 31 maggio, a pena di altre severe sanzioni). Il provvedimento, grazie all’insistenza dei sindacati, sarà modulato e non farà gravare l’inasprimento fiscale su tutte le fasce di reddito. In particolare: l’aumento sarà dello 0,30% per i redditi fino a 28mila euro; sarà dello 0,50% sui redditi superiori. Considerata la base ordinaria dello 0,90 prevista dalle norme statali, in definitiva l’addizionale Irpef risulterà dell’1,20% per i redditi fino a 28mila e dell’1,40 per quelli superiori. Qualche esempio concreto. Chi ha un reddito da 15mila euro annui passa da un’addizionale di 135 a 180 euro. A 28mila euro si passa da 252 a 336. A 50mila euro da 450 a 644 euro annui.
I sindacati avrebbero voluto che le fasce di reddito più basse fossero integralmente esentate dall’aumento dell’addizionale. Non è stato possibile, come è stato spiegato da Vendola, dagli assessori Michele Pelillo (Bilancio), Tommaso Fiore (Salute) e Nicola Fratoianni (Programma) e dal dirigente Mario Aulenta. Aumentare l’Irpef solo sulle fasce più alte (per esempio superiori a 28mila euro) non avrebbe consentito di colmare la parte non coperta del disavanzo sanitario. Si tratta di una cifra pari a 93,6 milioni, cui si aggiungono 8,4 milioni a scopo prudenziale, per un totale di 102 milioni (il disavanzo complessivo è di 335,5 milioni). Tuttavia, il fatto di aver «modulato» l’inasprimento accoglie in parte i suggerimenti di parte sindacale. Finora, le Regioni che come la Puglia sono in Piano di rientro, sono state costrette ad aumentare l’Irpef in maniera indiscriminata e al massimo (ossia lo 0,50%, ma in qualche caso lo 0,65 per le situazioni più gravi).
La Puglia, dopo una trattativa intensa con il governo sull’applicazione delle norme, ha ottenuto una sorta di deroga e l’applicazione della modulazione per fasce. Inoltre, e questa è una novità rispetto al recente passato, l’addizionale regionale si pagherà in relazione agli scaglioni. Ossia: 1,20% per il reddito o la quota di reddito fino a 28mila e 1,40 solo per la parte eccedente quel tetto. Quando aumentò per il 2008 e 2009, il meccanismo fu differente: furono considerati esenti i contribuenti sotto i 28mila euro e quelli con guadagni superiori pagarono l’addizionale su tutto il reddito. Ultima annotazione: i lavoratori autonomi (o coloro che percepiscono redditi di impresa soggetti a Irpef) dovranno tener conto della nuova addizionale già in queste settimane, per gli acconti di imposta 2011. Per i dipendenti non ci sono problemi: il prelievo avverrà direttamente in busta paga, a partire dal primo gennaio 2012, visto che l’addizionale si paga con un anno di ritardo. La legge di assestamento correggerà il bilancio e le relative entrate.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
15 nov 2010
Assenteismo alla Asl: per visitare pazienti "privati" e a pagamento
Ventiquattro arrestati e 45 indagati. Provocavano lunghe liste d'attesa nel servizio pubblico
MILANO - I Carabinieri del NAS di Taranto stanno eseguendo 24 provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di medici, infermieri, tecnici di radiologia, impiegati amministrativi ed addetti alle pulizie, tutti dipendenti o convenzionati con la ASL di Brindisi, responsabili di truffa aggravata e continuata in danno del Servizio Sanitario Nazionale. I destinatari delle misure facevano smarcare il proprio cartellino marcatempo ai colleghi o a persone estranee, assentandosi arbitrariamente dal luogo di lavoro, per dedicarsi ad incombenze personali ovvero per svolgere attività sanitaria privata. Nella stessa operazione sono indagate altre 45 persone per analoghi reati.
LE ASSENZE CONTAGIOSE - Le assenze dei dipendenti dell'Asl di Brindisi assenteisti si sono riflesse «sull' efficienza di quel presidio pubblico». Lo rilevano gli investigatori sottolineando che la struttura sanitaria, «nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli». Ciò ha determinato «la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul Servizio sanitario nazionale, ovvero il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti». Le persone raggiunte dalle misure cautelari sono quattro medici, nove infermieri, un tecnico radiologo, otto impiegati e due addetti alle pulizie. Successivamente alla prima fase dell'indagine, sono state eseguite ulteriori verifiche che hanno permesso di accertare, oltre alla persistenza delle condotte illecite, il propagarsi delle violazioni ad altri dipendenti per nulla dissuasi dalla pubblicazione sulla stampa locale di alcune notizie riguardanti casi di assenteismo. Il malcostume ha di fatto inciso sull'efficienza del presidio pubblico che, nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli, determinando la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul sistema sanitario nazionale, o il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti.
Fonte: corriere.it
MILANO - I Carabinieri del NAS di Taranto stanno eseguendo 24 provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di medici, infermieri, tecnici di radiologia, impiegati amministrativi ed addetti alle pulizie, tutti dipendenti o convenzionati con la ASL di Brindisi, responsabili di truffa aggravata e continuata in danno del Servizio Sanitario Nazionale. I destinatari delle misure facevano smarcare il proprio cartellino marcatempo ai colleghi o a persone estranee, assentandosi arbitrariamente dal luogo di lavoro, per dedicarsi ad incombenze personali ovvero per svolgere attività sanitaria privata. Nella stessa operazione sono indagate altre 45 persone per analoghi reati.
LE ASSENZE CONTAGIOSE - Le assenze dei dipendenti dell'Asl di Brindisi assenteisti si sono riflesse «sull' efficienza di quel presidio pubblico». Lo rilevano gli investigatori sottolineando che la struttura sanitaria, «nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli». Ciò ha determinato «la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul Servizio sanitario nazionale, ovvero il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti». Le persone raggiunte dalle misure cautelari sono quattro medici, nove infermieri, un tecnico radiologo, otto impiegati e due addetti alle pulizie. Successivamente alla prima fase dell'indagine, sono state eseguite ulteriori verifiche che hanno permesso di accertare, oltre alla persistenza delle condotte illecite, il propagarsi delle violazioni ad altri dipendenti per nulla dissuasi dalla pubblicazione sulla stampa locale di alcune notizie riguardanti casi di assenteismo. Il malcostume ha di fatto inciso sull'efficienza del presidio pubblico che, nel disattendere le alte funzioni socio-assistenziali demandate, ha progressivamente eluso le richieste di esami diagnostici in tempi ragionevoli, determinando la migrazione degli utenti verso strutture convenzionate con conseguenti incidenze finanziarie sul sistema sanitario nazionale, o il ricorso a professionisti privati con aggravi economici per i singoli pazienti.
Fonte: corriere.it
23 set 2010
Due senatori Pdl indagati per corruzione. Arrestato l'assessore regionale alla Sanità.
Documenti e prove grazie a intercettazioni. Migliaia di euro per le campagne dei sindaci di Teramo e Mascia.
MILANO - Due onorevoli del Pdl iscritti nel registro degli indagati della Procura di Pescara. I senatori Paolo Tancredi e Fabrizio Di Stefano risulterebbero coinvolti nell'inchiesta che ha portato all'arresto dell'assessore alla Sanità della Regione Abruzzo, Lamberto Venturoni (Pdl), e dell'imprenditore Rodolfo Valentino Di Zio, proprietario della Deco, azienda del settore rifiuti. Entrambi sono stati messi agli arresti domiciliari.
AVVISI DI GARANZIA
Gli indagati sono in tutto 12. Tra i destinatari degli avvisi di garanzia ci sono i senatori del Pdl Paolo Tancredi e Fabrizio Di Stefano, il sindaco di Teramo Maurizio Brucchi (ai tre viene contesta la corruzione) e l'ex assessore Daniela Stati che deve rispondere di favoreggiamento. Tra le accuse ipotizzate a vario titolo dalla Procura c'è anche l'istigazione alla corruzione. Venturoni è coinvolto nell'inchiesta in qualità di presidente del Consiglio di amministrazione della Team spa, società a prevalente partecipazione pubblica per la gestione dei servizi ambientali municipali del Comune di Teramo. Insieme ai fratelli Rodolfo Di Zio (amministratore delegato della Deco Spa) e Ferdinando Di Zio (presidente del Consiglio di amministrazione della Deco), che sono soci e proprietari della Deco spa, Venturoni avrebbe messo in atto un piano di svuotamento della Team spa per favorire la Deco spa e far ottenere a quest'ultima società, senza la gara d'appalto, l'affidamento della costruzione e gestione di un impianto di bioessiccazione dei rifiuti a Teramo. Senza mandato del consiglio di amministrazione della Team Spa, Venturoni avrebbe deliberato l'acquisto del 60 per cento delle quote della società Tecnogyl srl, costituita il 12 luglio 2007 dai fratelli Di Zio con capitale conferito interamente dalla Deco (poi trasformata in Team tecnologie Ambientali il 19 luglio 2007).
L'ACCUSA
L'obiettivo, per l'accusa, era di attribuire al privato un partenariato in società pubblica sapendo che di lì a poco sarebbe stata autorizzata a costruire e gestire un impianto di bioessiccazione. Come corrispettivo per l'acquisto di queste quote societarie Venturoni si sarebbe appropriato di 30mila euro derivanti dal patrimonio della Team spa e li avrebbe versati alla Deco. L'unico obiettivo era quello di favorire la Deco nella realizzazione dell'impianto. Sempre Venturoni si sarebbe appropriato del progetto per la costruzione dell'impianto (presentato dalla Team Spa alla Regione Abruzzo) per attribuirlo alla Deco, dietro pagamento forfettario dei costi di realizzazione del progetto (76mila euro).
INTERCETTAZIONI
L'inchiesta, si apprende a palazzo di giustizia, è basata su intercettazioni dalle quali con acquisizioni mirate si è arrivati al sequestro di documenti e prove documentali.
TENTACOLI MILANESI
Nell'inchiesta è citata anche la Ecodeco di Milano, alla quale sia Venturoni sia Di Zio avrebbero offerto, in cambio della cessione gratuita della tecnologia per l'impianto teramano, di essere «ammessa a partecipare della realizzazione di un impianto di incenerimento di rifiuti in Abruzzo», con l'affidamento diretto dell'appalto «ad una società a cui avrebbero partecipato tanto i Di Zio quanto la Ecodeco».
CONTRIBUTI ELETTORALI
I senatori Tancredi e Di Stefano (vice coordinatore abruzzese) sarebbero indagati per corruzione. Secondo i Pm avrebbero chiesto e ottenuto dall'imprenditore Di Zio il versamento di alcune decine di migliaia di euro a favore dei candidati a sindaco, poi eletti il 6 giugno 2009, di Teramo, Maurizio Brucchi, e Pescara, Luigi Albore Mascia, contributi elettorali versati una decina di giorni prima delle elezioni. Mentre la Deco, proprietaria dei locali della sede regionale del Pdl a Pescara non avrebbe fatto pagare per un certo periodo l'affitto. A ciò si aggiunge che Fabrizio Di Stefano avrebbe chiesto e ricevuto da Rodolfo Di Zio «20 mila euro», con due bonifici distinti «accreditati in Napoli il 29 maggio e il 3 giugno 2009, al candidato al parlamento Europeo Crescenzio Rivellini, che ne girava 5 mila con proprio assegno a Di Stefano». Questo assegno risulta incassato da Di Stefano «in Chieti il 4 giugno 2009, su proprio conto corrente».
DUE ANNI DI INDAGINI
Le indagini sono durate circa due anni. Secondo gli inquirenti si tratta di una delle più grosse indagini mai fatte in materia sul territorio nazionale e certamente la più importante condotta dalla Procura di Pescara in merito ai rifiuti. Gli indagati stavano cercando di realizzare un inceneritore in Abruzzo. Gli arresti sono parte dell'inchiesta madre dalla quale è stato stralciato il provvedimento che nello scorso agosto mise agli arresti domiciliari l'ex assessore all'Ambiente della regione, Daniela Stati.
Fonte: corriere.it
MILANO - Due onorevoli del Pdl iscritti nel registro degli indagati della Procura di Pescara. I senatori Paolo Tancredi e Fabrizio Di Stefano risulterebbero coinvolti nell'inchiesta che ha portato all'arresto dell'assessore alla Sanità della Regione Abruzzo, Lamberto Venturoni (Pdl), e dell'imprenditore Rodolfo Valentino Di Zio, proprietario della Deco, azienda del settore rifiuti. Entrambi sono stati messi agli arresti domiciliari.
AVVISI DI GARANZIA
Gli indagati sono in tutto 12. Tra i destinatari degli avvisi di garanzia ci sono i senatori del Pdl Paolo Tancredi e Fabrizio Di Stefano, il sindaco di Teramo Maurizio Brucchi (ai tre viene contesta la corruzione) e l'ex assessore Daniela Stati che deve rispondere di favoreggiamento. Tra le accuse ipotizzate a vario titolo dalla Procura c'è anche l'istigazione alla corruzione. Venturoni è coinvolto nell'inchiesta in qualità di presidente del Consiglio di amministrazione della Team spa, società a prevalente partecipazione pubblica per la gestione dei servizi ambientali municipali del Comune di Teramo. Insieme ai fratelli Rodolfo Di Zio (amministratore delegato della Deco Spa) e Ferdinando Di Zio (presidente del Consiglio di amministrazione della Deco), che sono soci e proprietari della Deco spa, Venturoni avrebbe messo in atto un piano di svuotamento della Team spa per favorire la Deco spa e far ottenere a quest'ultima società, senza la gara d'appalto, l'affidamento della costruzione e gestione di un impianto di bioessiccazione dei rifiuti a Teramo. Senza mandato del consiglio di amministrazione della Team Spa, Venturoni avrebbe deliberato l'acquisto del 60 per cento delle quote della società Tecnogyl srl, costituita il 12 luglio 2007 dai fratelli Di Zio con capitale conferito interamente dalla Deco (poi trasformata in Team tecnologie Ambientali il 19 luglio 2007).
L'ACCUSA
L'obiettivo, per l'accusa, era di attribuire al privato un partenariato in società pubblica sapendo che di lì a poco sarebbe stata autorizzata a costruire e gestire un impianto di bioessiccazione. Come corrispettivo per l'acquisto di queste quote societarie Venturoni si sarebbe appropriato di 30mila euro derivanti dal patrimonio della Team spa e li avrebbe versati alla Deco. L'unico obiettivo era quello di favorire la Deco nella realizzazione dell'impianto. Sempre Venturoni si sarebbe appropriato del progetto per la costruzione dell'impianto (presentato dalla Team Spa alla Regione Abruzzo) per attribuirlo alla Deco, dietro pagamento forfettario dei costi di realizzazione del progetto (76mila euro).
INTERCETTAZIONI
L'inchiesta, si apprende a palazzo di giustizia, è basata su intercettazioni dalle quali con acquisizioni mirate si è arrivati al sequestro di documenti e prove documentali.
TENTACOLI MILANESI
Nell'inchiesta è citata anche la Ecodeco di Milano, alla quale sia Venturoni sia Di Zio avrebbero offerto, in cambio della cessione gratuita della tecnologia per l'impianto teramano, di essere «ammessa a partecipare della realizzazione di un impianto di incenerimento di rifiuti in Abruzzo», con l'affidamento diretto dell'appalto «ad una società a cui avrebbero partecipato tanto i Di Zio quanto la Ecodeco».
CONTRIBUTI ELETTORALI
I senatori Tancredi e Di Stefano (vice coordinatore abruzzese) sarebbero indagati per corruzione. Secondo i Pm avrebbero chiesto e ottenuto dall'imprenditore Di Zio il versamento di alcune decine di migliaia di euro a favore dei candidati a sindaco, poi eletti il 6 giugno 2009, di Teramo, Maurizio Brucchi, e Pescara, Luigi Albore Mascia, contributi elettorali versati una decina di giorni prima delle elezioni. Mentre la Deco, proprietaria dei locali della sede regionale del Pdl a Pescara non avrebbe fatto pagare per un certo periodo l'affitto. A ciò si aggiunge che Fabrizio Di Stefano avrebbe chiesto e ricevuto da Rodolfo Di Zio «20 mila euro», con due bonifici distinti «accreditati in Napoli il 29 maggio e il 3 giugno 2009, al candidato al parlamento Europeo Crescenzio Rivellini, che ne girava 5 mila con proprio assegno a Di Stefano». Questo assegno risulta incassato da Di Stefano «in Chieti il 4 giugno 2009, su proprio conto corrente».
DUE ANNI DI INDAGINI
Le indagini sono durate circa due anni. Secondo gli inquirenti si tratta di una delle più grosse indagini mai fatte in materia sul territorio nazionale e certamente la più importante condotta dalla Procura di Pescara in merito ai rifiuti. Gli indagati stavano cercando di realizzare un inceneritore in Abruzzo. Gli arresti sono parte dell'inchiesta madre dalla quale è stato stralciato il provvedimento che nello scorso agosto mise agli arresti domiciliari l'ex assessore all'Ambiente della regione, Daniela Stati.
Fonte: corriere.it
29 ago 2010
Lite in sala parto: le rivalità tra Antonio De Vivo e Vincenzo Benedetto per i pazienti privati. E la contesa per i megamacchinari negli studi personali.
MESSINA — C'è alla base una caccia ai pazienti considerati clienti, merce privata, roba propria, dietro i pugni in sala parto con le mani di un ginecologo sul collo di un collega, una vetrina in frantumi, la rissa fra camici bianchi, l'arrivo dei carabinieri, il rischio vita per la partoriente e il futuro incerto per il bimbo che nasce in ritardo, asfissiato, in coma. Brutta, orrenda pagina con cui si supera una nuova soglia della malasanità. Ancora una volta nella scandalosa Messina dove un neolaureato bucò il polmone a una ragazzina durante l'anestesia. Stavolta un assegnista di ricerca, vincitore di una borsa di studio, Antonio De Vivo, pretendeva di escludere dal parto cesareo il medico strutturato, un ricercatore, Vincenzo Benedetto, titolare del turno di guardia. Per la semplice ragione che la «cliente» l'aveva seguita lui, nel suo studio, il megalaboratorio superpubblicizzato di via Ugo Bassi, ormai famoso nella città del ponte che non c'è per una megamacchina in 3d d'ultima generazione, «meglio di Avatar», come sussurravano sbeffeggiando alcuni suoi colleghi, indispettiti dalla intraprendenza del giovane collega. A non sopportarlo era anche il dottor, pardon, il professore Benedetto, come si legge sui biglietti da visita, pure lui con studio privato, in via Garibaldi, ma non «mega» e privo di quel richiamo «tridimensionale» che fra le gestanti di Messina trasformava il giovane De Vivo in uno dei professionisti più gettonati della città.
Perché lì, assicura un certo tam tam di interviste, convegni e conviviali in circoli che contano, si eseguono le cosiddette «morfologiche», si studia l'anatomia fetale, si usa la metodica X-ray, si accerta lo sviluppo morfologico dell'embrione e così via echeggiando. Roba normale. Roba probabilmente comune a tanti laboratori, ma in quello studio a 3d il rampante De Vivo aveva trovato la chiave per comunicare e catturare pazienti. A insinuare che sotto ci fosse un «bluff» ecco le chiacchiere percorrere i corridoi di questa ginecologia trasformata in arena, buco nero del Policlinico, diretta da un primario anche lui con studio privato dalle parti di viale Italia, Mimmo Granese, non ordinario perché qui il titolo non è riuscito a guadagnarselo nessuno, ma professore associato, pronto a dividersi fra reparto, studenti e laboratorio personale. Adesso giura che l'esito devastante dell'intervento concluso con l'asportazione dell'utero e il bimbo in rianimazione sarebbe stato lo stesso anche se non si fosse persa un'ora e mezza nella rissa: «Nessuna relazione, le complicazioni ci sarebbero state comunque come possono confermare i due aiuti intervenuti...».
Ma proprio su questo punto evitano di pronunciarsi i due colleghi che ha chiamato in soccorso, Alfredo Mancuso e Vittorio Palmara, anche loro titolari di studi privati. No, meglio non parlare delle tensioni accumulate nei mesi precedenti. Meglio escluderle come fa il professore Mancuso: «Non ricordo agitazioni e nervosismi in un reparto dal clima assolutamente normale. Ma essendo intervenuto solo dopo la lite, posso solo dire che resta una cosa difficile da spiegare. Stop». Ma è pronto a essere più chiaro con la commissione istituita dal direttore generale del Policlinico, Giuseppe Pecoraro, stanco di una tendenza elevata a sistema: «Purtroppo anche i ginecologi che frequentano i nostri reparti hanno pazienti personali seguiti fuori dalle mura ospedaliere, gestanti che spesso partoriscono nelle cliniche private, se possono, ovvero che arrivano qui sperando di trovare in sala parto il "loro" medico». È così che l'altra mattina a De Vivo è sembrato scontato accogliere la «sua» paziente, pronto con il gel per l'ecografia, avviando poi la stimolazione per una accelerazione del parto e decidendo infine per il cesareo con una convocazione immediata dell'anestesista per la sala operatoria. Cosa che al piano di sopra ha fatto impazzire «Benedetto il professore» arrivato come una furia davanti al giovane famoso per la storiella del tridimensionale: «Ma chi seiii tuuu?».
E giù botte da orbi alla prima reazione. Mani al collo, parolacce, dita insanguinate e inseguimenti conclusi con grida e telefonate accorate per chiamare da una parte e dall'altra i carabinieri. Come ha fatto pure il marito della povera gestante impietrita in quel ring. Con l'effetto di vedere arrivare fra pazienti e infermieri terrorizzati tre diverse pattuglie di militari. Ce n'è voluto per capire cosa stava accadendo, come ha ricostruito Angela Fattori, 34 anni di servizio nel reparto adesso sotto i riflettori, in pensione dal primo agosto, ovvero come dice lei «rottamata dal ministro Brunetta»: «Mi sono ritrovata lì per caso il giorno dopo, angosciata come tutti perché così diamo un'immagine devastante di una clinica dove adesso sembra diventare reato il rapporto personale con i pazienti. E non è così. Certe frizioni fra di noi non sono però tollerabili. E quando si personalizza troppo il rapporto con la paziente si sbaglia. Perché ci sono delle regole da rispettare». A queste regole si richiama Francesco Tomasello, il rettore tornato in sella dopo una inchiesta giudiziaria e una sospensione, adesso deciso a tuonare invocando «una relazione immediata» a Pecoraro per potere prendere «decisioni immediate». E già aleggia il verdetto della punizione sui due contendenti che avranno qualche difficoltà a difendersi. A cominciare da De Vivo, a meno che decida di cavalcare la tesi (non infondata) del così fan tutti.
Fonte: corriere.it
Perché lì, assicura un certo tam tam di interviste, convegni e conviviali in circoli che contano, si eseguono le cosiddette «morfologiche», si studia l'anatomia fetale, si usa la metodica X-ray, si accerta lo sviluppo morfologico dell'embrione e così via echeggiando. Roba normale. Roba probabilmente comune a tanti laboratori, ma in quello studio a 3d il rampante De Vivo aveva trovato la chiave per comunicare e catturare pazienti. A insinuare che sotto ci fosse un «bluff» ecco le chiacchiere percorrere i corridoi di questa ginecologia trasformata in arena, buco nero del Policlinico, diretta da un primario anche lui con studio privato dalle parti di viale Italia, Mimmo Granese, non ordinario perché qui il titolo non è riuscito a guadagnarselo nessuno, ma professore associato, pronto a dividersi fra reparto, studenti e laboratorio personale. Adesso giura che l'esito devastante dell'intervento concluso con l'asportazione dell'utero e il bimbo in rianimazione sarebbe stato lo stesso anche se non si fosse persa un'ora e mezza nella rissa: «Nessuna relazione, le complicazioni ci sarebbero state comunque come possono confermare i due aiuti intervenuti...».
Ma proprio su questo punto evitano di pronunciarsi i due colleghi che ha chiamato in soccorso, Alfredo Mancuso e Vittorio Palmara, anche loro titolari di studi privati. No, meglio non parlare delle tensioni accumulate nei mesi precedenti. Meglio escluderle come fa il professore Mancuso: «Non ricordo agitazioni e nervosismi in un reparto dal clima assolutamente normale. Ma essendo intervenuto solo dopo la lite, posso solo dire che resta una cosa difficile da spiegare. Stop». Ma è pronto a essere più chiaro con la commissione istituita dal direttore generale del Policlinico, Giuseppe Pecoraro, stanco di una tendenza elevata a sistema: «Purtroppo anche i ginecologi che frequentano i nostri reparti hanno pazienti personali seguiti fuori dalle mura ospedaliere, gestanti che spesso partoriscono nelle cliniche private, se possono, ovvero che arrivano qui sperando di trovare in sala parto il "loro" medico». È così che l'altra mattina a De Vivo è sembrato scontato accogliere la «sua» paziente, pronto con il gel per l'ecografia, avviando poi la stimolazione per una accelerazione del parto e decidendo infine per il cesareo con una convocazione immediata dell'anestesista per la sala operatoria. Cosa che al piano di sopra ha fatto impazzire «Benedetto il professore» arrivato come una furia davanti al giovane famoso per la storiella del tridimensionale: «Ma chi seiii tuuu?».
E giù botte da orbi alla prima reazione. Mani al collo, parolacce, dita insanguinate e inseguimenti conclusi con grida e telefonate accorate per chiamare da una parte e dall'altra i carabinieri. Come ha fatto pure il marito della povera gestante impietrita in quel ring. Con l'effetto di vedere arrivare fra pazienti e infermieri terrorizzati tre diverse pattuglie di militari. Ce n'è voluto per capire cosa stava accadendo, come ha ricostruito Angela Fattori, 34 anni di servizio nel reparto adesso sotto i riflettori, in pensione dal primo agosto, ovvero come dice lei «rottamata dal ministro Brunetta»: «Mi sono ritrovata lì per caso il giorno dopo, angosciata come tutti perché così diamo un'immagine devastante di una clinica dove adesso sembra diventare reato il rapporto personale con i pazienti. E non è così. Certe frizioni fra di noi non sono però tollerabili. E quando si personalizza troppo il rapporto con la paziente si sbaglia. Perché ci sono delle regole da rispettare». A queste regole si richiama Francesco Tomasello, il rettore tornato in sella dopo una inchiesta giudiziaria e una sospensione, adesso deciso a tuonare invocando «una relazione immediata» a Pecoraro per potere prendere «decisioni immediate». E già aleggia il verdetto della punizione sui due contendenti che avranno qualche difficoltà a difendersi. A cominciare da De Vivo, a meno che decida di cavalcare la tesi (non infondata) del così fan tutti.
Fonte: corriere.it
Messina, lite tra medici in sala parto: gravissimi la mamma e il bambino. I sanitari si stavano picchiando quando sono iniziate le complicazioni.
Aperta un'inchiesta. La donna ha avuto un'emorragia, il piccolo due arresti cardiaci
Il marito: intervento in ritardo
Il travaglio è cominciato, la gestante è stata portata in sala parto, quando all'improvviso i medici cominciano a litigare. Scoppia una rissa: uno prende l'altro per il collo, l'altro dà un pugno contro la finestra e si ferisce a una mano. Intanto le condizioni del bambino diventano critiche: occorre un cesareo d'emergenza. Ma tutto va storto: il piccolo va due volte in arresto cardiaco, la mamma un'ora dopo il parto ha un'emorragia e deve essere operata una seconda volta, per l'asportazione dell'utero. Ha dell'incredibile l'episodio di malasanità accaduto giovedì al Policlinico di Messina. La donna, messinese di 30 anni, adesso è ricoverata in gravi condizioni e solo nella giornata di domenica i sanitari hanno sciolto la prognosi e annunciato che potrà essere dimessa nei prossimi giorni. Il piccolo Antonio, il neonato, ha invece iniziato a respirare meglio e, fanno sapere i medici, il coma farmacologico cui è stato sottoposto potrebbe essere tolto in giornata. Sui presunti danni cerebrali riportati durante il parto saranno invece effettuati esami specifici nelle prossime ore. Il marito 37enne della paziente, Matteo Molonia, ha intanto presentato una denuncia ai carabinieri, la Procura ha già aperto un'inchiesta. I due medici sono stati sospesi dal servizio.
LA RISSA - La donna è entrata in sala parto giovedì scorso, accompagnata dal marito e dal giovane ginecologo che l'aveva seguita durante la gravidanza, per dare alla luce il suo primo figlio. A innescare il litigio tra i due medici. Per la direzione dell'ospedale la scintilla sarebbe stata «un trattamento terapeutico iniziato dal medico più giovane, all'insaputa del collega più anziano». Secondo il marito della donna, a scatenare il diverbio degenerato in zuffa, sarebbe stata la proposta del medico curante che riteneva necessario un cesareo, mentre l'ospedaliera propendeva per il parto naturali. In pochi minuti è successo il finimondo. Il medico di turno in ospedale si è scagliato verbalmente contro il ginecologo della signora urlando: «Tu non sei nessuno, fino a quando ci sono io, non ti puoi permettere di operare nessuno senza il mio consenso». Dalle minacce i due sono arrivati alle mani, il medico ha preso per il collo il collega e lo ha sbattuto contro il muro. Il ginecologo ha reagito sferrando un pugno contro una vetrata che è andata in frantumi, e si è ferito alla mano sinistra. Intanto la donna attendeva di partorire, mentre altri medici ed infermieri tentavano di riportare la calma. Il tracciato cardiaco del bambino ha mostrato un preoccupante abbassamento della frequenza cardiaca, e i medici hanno deciso di effettuare il taglio cesareo per tentare di salvarlo. Al papà i medici hanno detto che era tutto a posto, che moglie e figlio stavano bene, ma un'ora dopo il parto il ginecologo di famiglia lo ha avvertito che le condizioni della moglie erano peggiorate per via di una copiosa emorragia. La donna è stata operata d'urgenza per l'asportazione dell'utero. Il neonato è stato trasferito in Terapia intensiva: entrambi sono in prognosi riservata, anche se le condizioni della donna sarebbero in miglioramento.
SOSPESI DALL'ATTIVITA' - «Siamo molto rammaricati, ho sospeso i due medici dall'attività ambulatoriale». Lo dice il prof. Domenico Granese, direttore dell'unità operativa di ostetricia e ginecologia del Policlinico di Messina, che però esclude un nesso tra quanto accaduto e le condizioni della paziente e del neonato. «Ho inviato - prosegue Granese - una lettera alla direzione sanitaria per comunicare la sospensione dei medici che torneranno al lavoro solo quando la direzione lo riterrà opportuno». Per Granese «quello che hanno fatto è grave, ma ci tengo a precisare che la donna è stata male non per la lite o per un eventuale ritardo negli interventi da parte dei medici». «Tutto si è svolto regolarmente - assicura il direttore del reparto di ginecologia - L'intervento dei sanitari visto le complicazioni della donna è stato tempestivo. Non c'è alcun rapporto tra la lite e le complicazioni della donna che sono sorte a prescindere da quello che è accaduto». Tuttavia sono stati sospesi: «Il loro comportamento è stato comunque inqualificabile. Come si fa a prendersi a pugni in un reparto di ospedale?». Intanto il Policlinico di Messina ha aperto un'indagine interna sul gravissimo episodio che ha coinvolto due medici in sala parto.
LE INDAGINI - Il sostituto procuratore di Messina, Francesca Rende, sta ascoltando il personale del Policlinico per ricostruire quanto accaduto nella sala parto del reparto di ginecologia e ostetricia. «Sebbene ancora non ci siano riscontri oggettivi al racconto fornito dall’uomo - fanno sapere i militari dell’Arma incaricati delle indagini - stiamo cercando di capire se effettivamente la lite tra i due sanitari sia direttamente connessa con le complicazioni e i danni subiti dalla moglie e dal bambino». «È necessario fare chiarezza al più presto. Disporrò subito una verifica per far luce sui fatti. Chiederò una relazione per capire cosa è accaduto in quella sala parto del Policlinico di Messina. Certo, se le cose sono andate davvero come sono riportate dai media i fatti sono estremamente gravi», afferma l'assessore regionale alla Sanità della Sicilia, Massimo Russo. «È assolutamente inaccettabile quanto accaduto al Policlinico di Messina. È incredibile che vengano messe a rischio vite umane per alcune azioni irresponsabili di professionisti che non svolgono il proprio dovere», afferma il vice presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla Sanità, Giovanni Burtone. «Come commissione d'inchiesta - aggiunge l'esponente del Partito democratico - abbiamo immediatamente chiesto all'assessore regionale alla Sanità e al direttore generale del Policlinico di Messina una dettagliata relazione sui fatti e su eventuali iniziative adottate o da adottare».
IL MINISTRO - «Non deve più accadere, abbiamo già attivato gli ispettori». Questo il primo commento del ministro della Salute, Ferruccio Fazio, intervisto dal Tg2 sulla vicenda della lite avvenuta in sala parto a Messina che avrebbe ritardato l'intervento e su cui è stata aperta un'inchiesta. «Questo - ha detto Fazio - è chiaramente non solo un episodio di malasanità, ma un episodio assolutamente indecoroso: non deve più succedere. Certe cose - ha aggiunto - succedono purtroppo, prevalentemente, anche se non unicamente, in regioni in cui c'è, diciamo, un lassismo della sanità. Abbiamo attivato gli ispettori, d'intesa con l'assessore Russo, che ha anche lui attivato un'inchiesta amministrativa». Riguardo ai due medici al centro della vicenda, «il problema - ha osservato Fazio - non sono queste due persone. Sono, evidentemente, anche queste due persone. Ma il problema reale è mettere in essere dei meccanismi per cui questo non succeda più e quindi dare un sistema alle Regioni che ancora non ce l'hanno e che sono, combinazione, quelle in deficit economico. La sanità cattiva, lo abbiamo detto tante volte - ha concluso - è quella che costa di più».
IL SINDACO - Il giudizio di Fazio non è però piaciuto al sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca: «Il pur deprecabile gesto dei due medici che, all'interno delle sala operatoria, hanno litigato non può autorizzare il ministro della Salute ad affermare che certe cose possono accadere solo in determinate Regioni». «Che la sanità in Sicilia non funzioni - ha aggiunto Buzzanca - è fin troppo evidente, ma spalmare la colpa su tutti significa non volere individuare i veri responsabili. Bisogna correggere gli errori che partono dalla cattiva organizzazione dell'assessorato alla Sanità siciliana che pensa solo a fare proclami piuttosto che porre in essere concreti interventi di rilancio della sanità in Sicilia». «Sono dispiaciuto - ha concluso - perchè, per colpa di qualcuno, si finisce col gettare ombre sulla qualificata opera dei tanti medici messinesi che, con spirito di servizio, abnegazione e passione, ogni giorno, nel contesto difficile nel quale operano, riescono a garantire la salute dei cittadini messinesi».
LA COMMISSIONE PARLAMENTARE MANDA I NAS - La Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale invierà i Nas al Policlinico di Messina. «Ho giá predisposto una richiesta di relazione su quanto accaduto al Policlinico di Messina, da inviare all'assessore regionale alla Sanitá della Sicilia e al direttore generale del Policlinico messinese. Serve fare luce al più presto, perchè se quello che sta emergendo è la verità ci troviamo di fronte a un caso di malaciviltà. Altro che malasanitá». A chiedere una relazione dettagliata urgente è il presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori sanitari, Leoluca Orlando, dopo quanto è successo al Policlinico messinese, dove una lite tra due medici in sala parto avrebbe ritardato l'intervento sanitario con conseguenti complicazioni per una donna di 30 anni e per il bambino. «Famiglia - aggiunge Orlando - a cui va la mia solidarietà». «Intanto, in attesa che la magistratura faccia luce sui fatti - conclude il presidente della Commissione - è bene che i due medici siano stati immediatamente sospesi. Era quello che la Commissione chiedeva».
Fonte: corriere.it
Il marito: intervento in ritardo
Il travaglio è cominciato, la gestante è stata portata in sala parto, quando all'improvviso i medici cominciano a litigare. Scoppia una rissa: uno prende l'altro per il collo, l'altro dà un pugno contro la finestra e si ferisce a una mano. Intanto le condizioni del bambino diventano critiche: occorre un cesareo d'emergenza. Ma tutto va storto: il piccolo va due volte in arresto cardiaco, la mamma un'ora dopo il parto ha un'emorragia e deve essere operata una seconda volta, per l'asportazione dell'utero. Ha dell'incredibile l'episodio di malasanità accaduto giovedì al Policlinico di Messina. La donna, messinese di 30 anni, adesso è ricoverata in gravi condizioni e solo nella giornata di domenica i sanitari hanno sciolto la prognosi e annunciato che potrà essere dimessa nei prossimi giorni. Il piccolo Antonio, il neonato, ha invece iniziato a respirare meglio e, fanno sapere i medici, il coma farmacologico cui è stato sottoposto potrebbe essere tolto in giornata. Sui presunti danni cerebrali riportati durante il parto saranno invece effettuati esami specifici nelle prossime ore. Il marito 37enne della paziente, Matteo Molonia, ha intanto presentato una denuncia ai carabinieri, la Procura ha già aperto un'inchiesta. I due medici sono stati sospesi dal servizio.
LA RISSA - La donna è entrata in sala parto giovedì scorso, accompagnata dal marito e dal giovane ginecologo che l'aveva seguita durante la gravidanza, per dare alla luce il suo primo figlio. A innescare il litigio tra i due medici. Per la direzione dell'ospedale la scintilla sarebbe stata «un trattamento terapeutico iniziato dal medico più giovane, all'insaputa del collega più anziano». Secondo il marito della donna, a scatenare il diverbio degenerato in zuffa, sarebbe stata la proposta del medico curante che riteneva necessario un cesareo, mentre l'ospedaliera propendeva per il parto naturali. In pochi minuti è successo il finimondo. Il medico di turno in ospedale si è scagliato verbalmente contro il ginecologo della signora urlando: «Tu non sei nessuno, fino a quando ci sono io, non ti puoi permettere di operare nessuno senza il mio consenso». Dalle minacce i due sono arrivati alle mani, il medico ha preso per il collo il collega e lo ha sbattuto contro il muro. Il ginecologo ha reagito sferrando un pugno contro una vetrata che è andata in frantumi, e si è ferito alla mano sinistra. Intanto la donna attendeva di partorire, mentre altri medici ed infermieri tentavano di riportare la calma. Il tracciato cardiaco del bambino ha mostrato un preoccupante abbassamento della frequenza cardiaca, e i medici hanno deciso di effettuare il taglio cesareo per tentare di salvarlo. Al papà i medici hanno detto che era tutto a posto, che moglie e figlio stavano bene, ma un'ora dopo il parto il ginecologo di famiglia lo ha avvertito che le condizioni della moglie erano peggiorate per via di una copiosa emorragia. La donna è stata operata d'urgenza per l'asportazione dell'utero. Il neonato è stato trasferito in Terapia intensiva: entrambi sono in prognosi riservata, anche se le condizioni della donna sarebbero in miglioramento.
SOSPESI DALL'ATTIVITA' - «Siamo molto rammaricati, ho sospeso i due medici dall'attività ambulatoriale». Lo dice il prof. Domenico Granese, direttore dell'unità operativa di ostetricia e ginecologia del Policlinico di Messina, che però esclude un nesso tra quanto accaduto e le condizioni della paziente e del neonato. «Ho inviato - prosegue Granese - una lettera alla direzione sanitaria per comunicare la sospensione dei medici che torneranno al lavoro solo quando la direzione lo riterrà opportuno». Per Granese «quello che hanno fatto è grave, ma ci tengo a precisare che la donna è stata male non per la lite o per un eventuale ritardo negli interventi da parte dei medici». «Tutto si è svolto regolarmente - assicura il direttore del reparto di ginecologia - L'intervento dei sanitari visto le complicazioni della donna è stato tempestivo. Non c'è alcun rapporto tra la lite e le complicazioni della donna che sono sorte a prescindere da quello che è accaduto». Tuttavia sono stati sospesi: «Il loro comportamento è stato comunque inqualificabile. Come si fa a prendersi a pugni in un reparto di ospedale?». Intanto il Policlinico di Messina ha aperto un'indagine interna sul gravissimo episodio che ha coinvolto due medici in sala parto.
LE INDAGINI - Il sostituto procuratore di Messina, Francesca Rende, sta ascoltando il personale del Policlinico per ricostruire quanto accaduto nella sala parto del reparto di ginecologia e ostetricia. «Sebbene ancora non ci siano riscontri oggettivi al racconto fornito dall’uomo - fanno sapere i militari dell’Arma incaricati delle indagini - stiamo cercando di capire se effettivamente la lite tra i due sanitari sia direttamente connessa con le complicazioni e i danni subiti dalla moglie e dal bambino». «È necessario fare chiarezza al più presto. Disporrò subito una verifica per far luce sui fatti. Chiederò una relazione per capire cosa è accaduto in quella sala parto del Policlinico di Messina. Certo, se le cose sono andate davvero come sono riportate dai media i fatti sono estremamente gravi», afferma l'assessore regionale alla Sanità della Sicilia, Massimo Russo. «È assolutamente inaccettabile quanto accaduto al Policlinico di Messina. È incredibile che vengano messe a rischio vite umane per alcune azioni irresponsabili di professionisti che non svolgono il proprio dovere», afferma il vice presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla Sanità, Giovanni Burtone. «Come commissione d'inchiesta - aggiunge l'esponente del Partito democratico - abbiamo immediatamente chiesto all'assessore regionale alla Sanità e al direttore generale del Policlinico di Messina una dettagliata relazione sui fatti e su eventuali iniziative adottate o da adottare».
IL MINISTRO - «Non deve più accadere, abbiamo già attivato gli ispettori». Questo il primo commento del ministro della Salute, Ferruccio Fazio, intervisto dal Tg2 sulla vicenda della lite avvenuta in sala parto a Messina che avrebbe ritardato l'intervento e su cui è stata aperta un'inchiesta. «Questo - ha detto Fazio - è chiaramente non solo un episodio di malasanità, ma un episodio assolutamente indecoroso: non deve più succedere. Certe cose - ha aggiunto - succedono purtroppo, prevalentemente, anche se non unicamente, in regioni in cui c'è, diciamo, un lassismo della sanità. Abbiamo attivato gli ispettori, d'intesa con l'assessore Russo, che ha anche lui attivato un'inchiesta amministrativa». Riguardo ai due medici al centro della vicenda, «il problema - ha osservato Fazio - non sono queste due persone. Sono, evidentemente, anche queste due persone. Ma il problema reale è mettere in essere dei meccanismi per cui questo non succeda più e quindi dare un sistema alle Regioni che ancora non ce l'hanno e che sono, combinazione, quelle in deficit economico. La sanità cattiva, lo abbiamo detto tante volte - ha concluso - è quella che costa di più».
IL SINDACO - Il giudizio di Fazio non è però piaciuto al sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca: «Il pur deprecabile gesto dei due medici che, all'interno delle sala operatoria, hanno litigato non può autorizzare il ministro della Salute ad affermare che certe cose possono accadere solo in determinate Regioni». «Che la sanità in Sicilia non funzioni - ha aggiunto Buzzanca - è fin troppo evidente, ma spalmare la colpa su tutti significa non volere individuare i veri responsabili. Bisogna correggere gli errori che partono dalla cattiva organizzazione dell'assessorato alla Sanità siciliana che pensa solo a fare proclami piuttosto che porre in essere concreti interventi di rilancio della sanità in Sicilia». «Sono dispiaciuto - ha concluso - perchè, per colpa di qualcuno, si finisce col gettare ombre sulla qualificata opera dei tanti medici messinesi che, con spirito di servizio, abnegazione e passione, ogni giorno, nel contesto difficile nel quale operano, riescono a garantire la salute dei cittadini messinesi».
LA COMMISSIONE PARLAMENTARE MANDA I NAS - La Commissione parlamentare di inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale invierà i Nas al Policlinico di Messina. «Ho giá predisposto una richiesta di relazione su quanto accaduto al Policlinico di Messina, da inviare all'assessore regionale alla Sanitá della Sicilia e al direttore generale del Policlinico messinese. Serve fare luce al più presto, perchè se quello che sta emergendo è la verità ci troviamo di fronte a un caso di malaciviltà. Altro che malasanitá». A chiedere una relazione dettagliata urgente è il presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori sanitari, Leoluca Orlando, dopo quanto è successo al Policlinico messinese, dove una lite tra due medici in sala parto avrebbe ritardato l'intervento sanitario con conseguenti complicazioni per una donna di 30 anni e per il bambino. «Famiglia - aggiunge Orlando - a cui va la mia solidarietà». «Intanto, in attesa che la magistratura faccia luce sui fatti - conclude il presidente della Commissione - è bene che i due medici siano stati immediatamente sospesi. Era quello che la Commissione chiedeva».
Fonte: corriere.it
8 ago 2010
Ecco i falsi invalidi, cancellati 40 mila assegni
Umbria al primo posto come assegni erogati rispetto alla popolazione. In Basilicata uno su tre, in Lombardia uno ogni dieci verifiche. Le Asl frenano i controlli
MILANO - La regione con la quota più alta di falsi invalidi? La Basilicata, stando ai campioni delle verifiche Inps: al 29%, quasi uno su tre degli invalidi da Potenza a Matera passati sotto i controlli dell'istituto nel 2009, è stata revocata la prestazione. La quota vale quasi quattro volte tanto, in termini percentuali, l'8% della Toscana. Al secondo posto la Campania con il 25% e al terzo la Sardegna con il 18%. I numeri sono stati calcolati sul campione di duecentomila prestazioni passate al setaccio l'anno scorso in tutta Italia dall'Inps, che eroga 2,7 milioni di pensioni di invalidità civile e indennità di «accompagno». Non considerando Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige, fuori classifica per i numeri giudicati poco significativi dai tecnici, la media nazionale è del 17%: un invalido su sei, in altre parole, non aveva le carte in regola. In un anno e mezzo vuol dire oltre 40 mila falsi assegni cancellati grazie ai controlli.
Alle 200 mila verifiche del 2009 si aggiungono le 100 mila di quest'anno più le altre 500 mila complessive previste dalla nuova manovra finanziaria per 2011 e 2012: in totale sono 800 mila in quattro anni, quasi un terzo di tutti gli invalidi civili da Bolzano a Ragusa. E' un numero consistente, che si scontra però con un'altra delle statistiche «snocciolate» dall'Inps: nelle verifiche 2009 solo l'8% delle Asl ha trasferito le cartelle sanitarie all'istituto. A volte quindi, a quanto sembra, non avendo l'Inps in mano la storia clinica del paziente, sono state organizzate visite di controllo anche su persone palesemente disabili. E nelle verifiche 2010, statistiche alla mano, solo il 3% delle Asl ha consegnato le cartelle sanitarie richieste.
Sono numeri arrivati fino alla scrivania dell'ufficio più importante dell'Inps, quello del presidente Antonio Mastrapasqua. Il quale ha deciso di prendere in mano carta e penna. Non adesso, ma a settembre, quando «è mia intenzione scrivere ai governatori delle Regioni per chiedere se possono aiutarci ad arrivare a una maggiore collaborazione da parte delle Asl», spiega lo stesso Mastrapasqua, che si dichiara «fiducioso in una migliore cooperazione in futuro» con le aziende sanitarie locali.
L'obiettivo, aggiunge, è quello di «dare le giuste pensioni nei giusti tempi agli invalidi e revocare nel tempo più veloce possibile e con il minor fastidio possibile (per i veri invalidi) le pensioni ai falsi invalidi». Il tutto mentre negli ultimi sette anni, dal 1 gennaio 2003 al 1 gennaio 2010, il totale delle pensioni di invalidità e indennità di accompagnamento erogate è passato da 1,8 a 2,7 milioni: un buon 50% in più, a fronte di un aumento della popolazione residente di un ben più contenuto 4,7%. Anche se, rispetto al 2009, dal 1 gennaio 2010 le domande di invalidità sono diminuite di circa il 25%, da 1,1 milioni a poco più di 800 mila. Per le visite relative a queste 800 mila domande, solo 13 mila pratiche, secondo i dati Inps, sono state processate e chiuse in via telematica dalle Asl, mentre le altre si trasformano in più «lenti» fogli e moduli di carta.
Se la Basilicata ha vinto la «palma d'oro» (si fa per dire) dei falsi invalidi, non è tuttavia la regione con il più alto numero di prestazioni erogate a riguardo dall'Inps. In testa, ragionando in termini percentuali, c'è l'Umbria (dati 2010): da Perugia a Terni il numero delle prestazioni vale il 6,8% del totale dei residenti nella regione: il 5,3% in indennità e l'1,5% in pensioni. Attenzione, però, questo non vuol dire che gli invalidi siano il 6,8% del totale: c'è chi può essere titolare contemporaneamente di tutte e due le prestazioni, indennità e pensione.
All'Umbria seguono la Sardegna (6,6%), la Calabria (6,5%), la Campania (5,9%) e l'Abruzzo (5,8%). Fanalini di coda, più «in salute», sono Lombardia e Veneto con il 3,5%: quasi la metà dell'Umbria. Mentre restano sempre fuori classifica Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta. La media nazionale? Il 4,7%, contro il 3,3% di sette anni prima. Se in questi sette anni le percentuali sono cresciute, l'ordine in classifica è invece cambiato poco: in testa Sardegna, Umbria, Abruzzo, Calabria e Sicilia. E in coda, solitaria, la Lombardia, con una quota di prestazioni erogate pari al 3,5% della popolazione residente. Mentre la percentuale delle revoche degli assegni di invalidità falsi è meno dell metà, pari al 12% sul totale delle verifiche effettuate dall'Istituto nazionale di previdenza sociale.
Fonte: corriere.it
MILANO - La regione con la quota più alta di falsi invalidi? La Basilicata, stando ai campioni delle verifiche Inps: al 29%, quasi uno su tre degli invalidi da Potenza a Matera passati sotto i controlli dell'istituto nel 2009, è stata revocata la prestazione. La quota vale quasi quattro volte tanto, in termini percentuali, l'8% della Toscana. Al secondo posto la Campania con il 25% e al terzo la Sardegna con il 18%. I numeri sono stati calcolati sul campione di duecentomila prestazioni passate al setaccio l'anno scorso in tutta Italia dall'Inps, che eroga 2,7 milioni di pensioni di invalidità civile e indennità di «accompagno». Non considerando Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige, fuori classifica per i numeri giudicati poco significativi dai tecnici, la media nazionale è del 17%: un invalido su sei, in altre parole, non aveva le carte in regola. In un anno e mezzo vuol dire oltre 40 mila falsi assegni cancellati grazie ai controlli.
Alle 200 mila verifiche del 2009 si aggiungono le 100 mila di quest'anno più le altre 500 mila complessive previste dalla nuova manovra finanziaria per 2011 e 2012: in totale sono 800 mila in quattro anni, quasi un terzo di tutti gli invalidi civili da Bolzano a Ragusa. E' un numero consistente, che si scontra però con un'altra delle statistiche «snocciolate» dall'Inps: nelle verifiche 2009 solo l'8% delle Asl ha trasferito le cartelle sanitarie all'istituto. A volte quindi, a quanto sembra, non avendo l'Inps in mano la storia clinica del paziente, sono state organizzate visite di controllo anche su persone palesemente disabili. E nelle verifiche 2010, statistiche alla mano, solo il 3% delle Asl ha consegnato le cartelle sanitarie richieste.
Sono numeri arrivati fino alla scrivania dell'ufficio più importante dell'Inps, quello del presidente Antonio Mastrapasqua. Il quale ha deciso di prendere in mano carta e penna. Non adesso, ma a settembre, quando «è mia intenzione scrivere ai governatori delle Regioni per chiedere se possono aiutarci ad arrivare a una maggiore collaborazione da parte delle Asl», spiega lo stesso Mastrapasqua, che si dichiara «fiducioso in una migliore cooperazione in futuro» con le aziende sanitarie locali.
L'obiettivo, aggiunge, è quello di «dare le giuste pensioni nei giusti tempi agli invalidi e revocare nel tempo più veloce possibile e con il minor fastidio possibile (per i veri invalidi) le pensioni ai falsi invalidi». Il tutto mentre negli ultimi sette anni, dal 1 gennaio 2003 al 1 gennaio 2010, il totale delle pensioni di invalidità e indennità di accompagnamento erogate è passato da 1,8 a 2,7 milioni: un buon 50% in più, a fronte di un aumento della popolazione residente di un ben più contenuto 4,7%. Anche se, rispetto al 2009, dal 1 gennaio 2010 le domande di invalidità sono diminuite di circa il 25%, da 1,1 milioni a poco più di 800 mila. Per le visite relative a queste 800 mila domande, solo 13 mila pratiche, secondo i dati Inps, sono state processate e chiuse in via telematica dalle Asl, mentre le altre si trasformano in più «lenti» fogli e moduli di carta.
Se la Basilicata ha vinto la «palma d'oro» (si fa per dire) dei falsi invalidi, non è tuttavia la regione con il più alto numero di prestazioni erogate a riguardo dall'Inps. In testa, ragionando in termini percentuali, c'è l'Umbria (dati 2010): da Perugia a Terni il numero delle prestazioni vale il 6,8% del totale dei residenti nella regione: il 5,3% in indennità e l'1,5% in pensioni. Attenzione, però, questo non vuol dire che gli invalidi siano il 6,8% del totale: c'è chi può essere titolare contemporaneamente di tutte e due le prestazioni, indennità e pensione.
All'Umbria seguono la Sardegna (6,6%), la Calabria (6,5%), la Campania (5,9%) e l'Abruzzo (5,8%). Fanalini di coda, più «in salute», sono Lombardia e Veneto con il 3,5%: quasi la metà dell'Umbria. Mentre restano sempre fuori classifica Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta. La media nazionale? Il 4,7%, contro il 3,3% di sette anni prima. Se in questi sette anni le percentuali sono cresciute, l'ordine in classifica è invece cambiato poco: in testa Sardegna, Umbria, Abruzzo, Calabria e Sicilia. E in coda, solitaria, la Lombardia, con una quota di prestazioni erogate pari al 3,5% della popolazione residente. Mentre la percentuale delle revoche degli assegni di invalidità falsi è meno dell metà, pari al 12% sul totale delle verifiche effettuate dall'Istituto nazionale di previdenza sociale.
Fonte: corriere.it
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