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25 ott 2015

Tangenti per appalti Anas: 10 arresti. Coinvolto ex sottosegretario Meduri

Si tratta Luigi Giuseppe Meduri, alle Infrastrutture nel governo Prodi. Nelle intercettazioni si parla di «stringere ai fianchi» gli imprenditori che non pagano. Lavori affidati anche a ditte contigue alla ‘ndrangheta

Una «cellula criminale» che aveva un «diffuso rapporto di connivenza in tutta Italia» e che, come nei contesti mafiosi, utilizzava i pizzini per scambiarsi le informazioni «in modo da non lasciare traccia degli accordi corruttivi». Era ciò che accadeva, secondo la Guardia di finanza, all’interno della direzione generale dell’Anas, la più grande stazione appaltante pubblica d’Italia, oggi scossa dal terremoto generato dall’inchiesta «Dama nera»: dieci ordinanze di custodia cautelare, 31 indagati, un giro di tangenti di 200 mila euro utilizzate per «muovere» appalti del valore di centinaia di milioni. Insomma, «un sistema collaudato, tutt’altro che episodico», sfociato nell’arresto di un ex sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Prodi, cinque dirigenti e funzionari dell’Anas, un avvocato e tre imprenditori che si sono aggiudicati le gare. Associazione a delinquere, corruzione e voto di scambio sono le accuse contestate dalla Procura di Roma all’organizzazione in cui i dipendenti pubblici infedeli «prendevano soldi da tutto ciò che poteva essere trasformato in denaro». Mazzette che, stando alle intercettazioni, erano state ribattezzate con nomi innocui come «ciliegie», «libri», «topolini», «medicinali antinfiammatori».

I nomi
Luigi Giuseppe Meduri, 73 anni, cresciuto politicamente con la Dc, poi deputato di centrosinistra, tuttora iscritto al Pd (e sospeso dopo la notizia dell’arresto dalla commissione di garanzia del Partito democratico), presidente della Regione Calabria dal gennaio 1999 all’aprile 2000 e dal maggio 2006 al maggio 2008, è l’ex sottosegretario del ministero delle Infrastrutture finito ai domiciliari.
In carcere anche la «dama nera», cioè la dirigente dell’Anas Antonella Accroglianò , 54 anni, considerata al vertice dell’organizzazione. Il gip Giulia Proto ha disposto la stessa misura nei confronti dei suoi colleghi Oreste De Grossi, 59 anni, e Sergio Serafino Lagrotteria, 48 anni, e dei funzionari Giovanni Parlato, 48 anni, e Antonino Ferrante, 54 anni. Ai domiciliari, oltre a Meduri, l’avvocato del Foro di Catanzaro Eugenio Battaglia, 53 anni, e gli imprenditori Concetto Albino Bosco Lo Giudice, 52 anni, Francesco Domenico Costanzo, 53 anni, e Giuliano Vidoni, 70 anni.

Posti in cambio di voti
Per gli investigatori del Nucleo tributario Meduri, «oscuro faccendiere», era l’interfaccia politica della Accroglianò. L’ex sottosegretario da un lato si sarebbe adoperato per mettere a disposizione il suo pacchetto di voti a favore del fratello della dirigente, Galdino, candidato nelle liste dell’Udc in in Calabria a novembre 2014; dall’altro si sarebbe dato da fare per procurargli una poltrona all’interno di una società della Regione dopo il fallimento alle elezioni: in cambio Meduri avrebbe chiesto alla Accroglianò due posti da geometri all’Anas. E per far eleggere il fratello la «dama nera» si sarebbe spesa anche in prima persona, cercando di far assumere in una società legata all’Anas un certo Pasquale Perri, calabrese, che avrebbe sponsorizzato la candidatura di Galdino con parenti e amici.

La mazzetta da 150 mila euro
Ma l’ex presidente della Regione Calabria avrebbe anche fatto da intermediario tra la dirigente e gli imprenditori catanesi Bosco Lo Giudice e Costanzo, colpevoli di aver ritardato il pagamento di una tangente relativa alla gara da 145 milioni per la realizzazione della variante di Morbegno, in Lombardia. I due, attraverso Meduri, avrebbero chiesto alla Accroglianò la cessione del contratto d’appalto, pratica vietata dalla legge. Gli investigatori del Gico hanno documentato almeno sei passaggi di denaro, dal dicembre 2014 all’agosto 2015, per un totale di circa 150 mila euro. «Meduri ha certamente una funzione di supporto non indifferente - scrive il gip nelle oltre cento pagine di misura cautelare - dal momento che lui stesso richiama gli imprenditori ai loro illeciti doveri ove gli stessi versino in ritardo sui pagamenti» Ed è «la stessa Antonella Accroglianò che dice di aver recuperato una delle tranche corruttive grazie a Meduri, al quale lei si rivolge quando “quelli” spariscono. E d’altra parte il suggerimento di stringerli ai fianchi per recuperare il denaro proviene proprio dal politico».
I lavori alla ‘ndrangheta

In un’altra gara a Palizzi (Reggio Calabria) la «dama nera» avrebbe «consigliato» ai titolari dell’impresa aggiudicataria di subappaltare alcune opere a ditte contigue ai clan. La dirigente infatti da una parte avrebbe chiesto l’assunzione di operai e geometri; dall’altra avrebbe esercitato «pressioni inequivoche affinché la fornitura del calcestruzzo e il movimento terra, attività notoriamente di interesse quasi esclusivo delle cosche della `ndrangheta in quei territori, venisse affidato ad una persona di sua fiducia».
I gioielli dalla mamma

Il blitz delle Fiamme gialle è scattato all’alba: circa 300 finanzieri del Gico hanno eseguito, oltre alle ordinanze di custodia, più di 90 perquisizioni in dieci Regioni e 23 città: Lazio, Calabria (Catanzaro e Cosenza), Puglia (Bari), Campania, Sicilia(Catania, Messina e Siracusa), Friuli Venezia Giulia (Udine e Gorizia), Toscana (Arezzo), Umbria, Piemonte (Torino e Vercelli), Veneto (Venezia e Padova) e Abruzzo. Sequestrati per equivalente 200 mila euro, 70 mila dei quali in contanti e gioielli a casa della madre della Accroglianò.
«Sensazione deprimente»

«La sensazione è deprimente vista proprio la quotidianità della corruzione», ha detto sconsolato il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, nella conferenza stampa con il comandante provinciale della Finanza Giuseppe Magliocco, quello del Nucleo tributario Cosimo Di Gesù e quello del Gico Gerardo Mastrodomenico. La «dama nera», ha spiegato il magistrato, «ha sempre la borsa aperta, tratta male chi ritarda i pagamenti e anche i suoi collaboratori che fanno male non le pratiche, ma la riscossione delle mazzette dagli imprenditori». Pignatone ha anche sottolineato l’importanza delle intercettazioni nelle indagini per corruzione, sostenendo che senza di esse «i processi per corruzione non si possono fare». E infine il procuratore ha precisato che il nuovo presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, «non ha assolutamente nulla a che vedere con la vicenda ed è parte offesa».

Fonte: corriere.it

24 ott 2015

Anas, i contatti della "Dama nera". La donna e i legami con la ‘ndrangheta. Pressioni sugli imprenditori, scadenze e buste piene di contanti.

«Solo 10 mila euro, s’è sprecato..E gli ho fatto incontrare il ministro»
I soldi nascosti dalla madre della donna che non aveva capito

ROMA — Le regole di Antonella Accroglianò, 54 anni, la «dama nera» dell’Anas, erano chiare: «Speriamo di tenerci forte come abbiamo fatto fino ad adesso e di fare un saltino in avanti per poterci aiutare. Perché quello è lo scopo: chi cresce fa un salto in avanti e si porta gli altri dietro. Chi ha cercato di viaggiare da solo poi l’hanno azzoppato». E allora per viaggiare con lei bisognava elargire buste piene di contanti, rispettare le scadenze dei versamenti di tangenti e soddisfare ogni sua richiesta, compreso il voto alle amministrative calabresi oppure un posto alla Regione per il fratello. È tutto documentato.

L’indagine degli investigatori della Guardia di finanza guidati dai colonnelli Cosimo Di Gesù e Gerardo Mastrodomenico fornisce la ricostruzione perfetta di quanto avveniva negli uffici dell’azienda di Stato grazie ai filmati della consegna delle «mazzette» per ottenere i lavori e soprattutto lo sblocco dei pagamenti, la registrazione degli accordi illeciti con gli imprenditori e delle minacce pesantissime contro chi non rispettava i patti. Delinea il ruolo chiave dell’ex sottosegretario Luigi Giuseppe Meduri. Ma anche l’esistenza di «talpe» nella stessa Finanza, la ricerca di sponsor «politici» con il tentativo di coinvolgere un ministro. E la richiesta, fin troppo esplicita, di coinvolgere imprenditori vicini alla ‘ndrangheta nella lista dei subappaltatori.

Farmaci e buste

Con i suoi sodali Accroglianò parla in codice, ma l’argomento è chiaro. Il primo affare che gestisce è l’esproprio di un terreno per il quale i proprietari Saverio e Giuseppe Silvagni devono percepire oltre 500mila euro. Lei ne chiede 50mila. A ritirare i soldi ci pensa il collaboratore Giovanni Parlato che quando parla della spartizione le dice: «Le cose sono così, 5 davano domani, 25 più quando chiude, 20 e sono 50. 15 te li do a te così arriviamo a 30 e abbiamo fatto 15 e 15». Il 12 maggio è fissato l’appuntamento con l’avvocato Eugenio Battaglia in una strada del quartiere Trastevere. I finanzieri seguono Parlato e dopo l’incontro lo fermano per un controllo. Poi annotano: «Sul sedile passeggero si rinveniva una busta di colore giallo contenente tre buste di colore bianco con denaro contante per un importo complessivo di 25mila euro suddiviso in tre quote da 10mila, 10mila e 5mila euro». Quando viene avvisata la «Dama nera» sembra impazzita. Convoca persone, fa telefonate, fino a che decide «di recarsi presso la propria abitazione, facendo intendere che avrebbe provveduto a occultare tracce compromettenti per il timore di subire perquisizioni. Poi chiama la madre: «Stavo a casa che ti ero venuta un attimo, che il dottore mi aveva dato il Lorazepam e quindi te l’avevo portato». L’anziana donna sembra non capire: «Sei matta, io sto benissimo». Ieri nel suo appartamento sono stati trovati 70mila euro.

Il progetto e il ministro

Con i titolari della Tecnis spa e della Cogip Infrastrutture che tardano nel versamento di una tangente «non inferiore ai 150mila euro» è ancora più agguerrita: «Tutto quello che gli abbiamo preparato cessioni e caz... vari sono andati in porto... Io ho fatto l’incontro apposta! Adesso vanno chiamati». E il 6 luglio, parlando con il dirigente Oreste De Grossi si infervora: «Gliel’ho detto: cercate di chiudere adesso, non vi fate chiamare più!». Annotano i finanzieri: «La Accroglianò sottolineava come tra l’altro gli imprenditori avessero risolto diversi problemi, non meglio precisati nella conversazione, con l’intermediazione dell’ex sottosegretario Luigi Meduri, il quale li aveva agevolati attraverso l’organizzazione di un incontro con un non meglio individuato ministro: “Perché mo’ dottore stanno messi bene... perché poi Meduri li ha fatti incontrare anche con il ministro... gli hanno fatto vedere il progetto... nuove cose, eh!». Il 23 luglio scorso, quando le dicono che Bosco ha versato 10mila euro lei inveisce: «S’è sprecato! Non me poi porta’ le ciliegie smozzicate!».

Gli accordi politici

Ci sono tangenti, ma anche assunzioni, favori, voti alle elezioni. Tra Accroglianò e il politico Meduri c’è un vero e proprio accordo. Lui indica le imprese e le persone da assumere, lei cerca di sistemare il fratello Galdino. Prima chiede il voto alle amministrative, poi un incarico. Il 1° gennaio 2014 Meduri le spiega: «Se c’è accordo politico tra il centrosinistra e l’Ncd c’è un percorso da fare per le nomine successive... Si saprà perché stanno premendo su Guerini, Alfano con Guerini». A marzo la rassicura spiegandole di aver parlato con Mario «che potrebbe identificarsi con ragionevole certezza in Mario Oliverio, governatore della Calabria: “Mercoledì ci dobbiamo vedere, viene Mario e poi ti dico”».

Le "talpe"

Sospettando di essere sotto controllo la «Dama nera» aveva fatto bonificare l’ufficio. Il sospetto è che qualcuno l’avesse avvertita delle indagini in corso. Quando Parlato viene controllato in macchina lei contatta un dipendente dell’Anas, genero del generale della Guardia di Finanza Walter Cretella e chiede aiuto. Poco dopo il funzionario le riferisce la risposta dell’alto ufficiale: «Dice che la questione è molto strana... l’ha fermato una pattuglia normale...». Un altro «contatto» è il colonnello Gallerano perché, spiega Accroglianò, «per quelli della Finanza è sufficiente fare un controllo sul computer. Però basta, ci siamo capiti».


Fonte: roma.corriere.it

21 mar 2014

Lombardia, inchiesta appalti, il gip: «I vertici della Regione sapevano»


Lunedì l’interrogatorio di Antonio Rognoni. Formigoni su Twitter: «Il corvo Pisapia si dice lieto degli arresti! Milanesi, chi avete eletto!»


Dagli atti dell’inchiesta su Infrastrutture Lombarde emerge «la piena consapevolezza di tutte le parti in causa di agire in un ambito di diffusa illegalità, compresi i vertici della Regione Lombardia». Lo scrive il Gip del tribunale di Milano Andrea Ghinetti, nell’ordinanza di misura cautelare nei confronti di Antonio Rognoni, direttore generale dimissionario della società controllata dal Pirellone, e altre sette persone, accusate - a vario titolo - di associazione per delinquere, truffa, turbativa d’asta e falso. Dall’analisi di alcune email tra gli indagati, il Gip sostiene che «si ottiene la definitiva conferma che i conferimenti dei contratti legali erano viziati».

La mail di Perez a Rognoni

In particolare il giudice inserisce integralmente una mail inviata il 12 dicembre 2008 a Rognoni da Pier Paolo Perez, uno degli arrestati - altro dirigente delle società regionali coinvolte - nella quale si parla di una riunione a cui partecipa Perez insieme a quattro dirigenti della Regione Lombardia, degli uffici dell’Avvocatura, della struttura rapporti istituzionali e dell’unità organizzativa normativa e amministrativa. Da quanto riportato nella mail circa lo svolgimento dell’incontro sull’assegnazione delle consulenze legali, il Gip deduce la «consapevolezza» di come era gestita la vicenda e che le misure adottate per dare una parvenza di legalità sono definitive come «soltanto dall’ennesimo malizioso espediente per poter continuare a gestire tranquillamente gli affidamenti a favore dei medesimi professionisti con l’uso di accorgimenti formali apparentemente ineccepibili».

Formigoni: «Pisapia corvo»

«Il corvo Pisapia si dice lieto degli arresti! Milanesi, chi avete eletto!»: Roberto Formigoni, ex presidente della Regione, ha commentato così su Twitter le parole del sindaco di Milano che, interpellato sulla vicenda di Infrastrutture Lombarde, aveva detto: «La mafia cerca di infilarsi dove ci sono appalti, ricchezza, possibilità di lavoro. Sarei preoccupato se non ci fossero indagini e arresti».

Gli interrogatori

Antonio Rognoni, il dg dimissionario di Infrastrutture Lombarde finito in carcere giovedì con le accuse di associazione per delinquere, turbativa d’asta, truffa alla Regione Lombardia e falso, sarà interrogato all’inizio della prossima settimana, verosimilmente lunedì 24 marzo. L’inchiesta della Procura di Milano riguarda una serie di presunti appalti truccati in modo da essere aggiudicati sistematicamente a «una ristretta cerchia di professionisti». Tra lunedì e martedì prossimo (gli interrogatori saranno fissati a breve), saranno ascoltati dal gip di Milano Andrea Ghinetti anche il capo dell’ufficio gare e appalti della società pubblica, Pier Paolo Perez, anche lui finito in carcere, il direttore amministrativo Maurizio Malandra, che è ai domiciliari come gli avvocati Carmen Leo, Fabrizio Magrì, Sergio De Sio, Giorgia Romitelli e un ingegnere, Salvatore Primerano. Successivamente, invece, si terranno gli interrogatori sulle misure di interdizione da attività direttive e alla professione disposte dal gip, su richiesta del procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dei pm Antonio D’Alessio e Paola Pirotta, a carico di nove persone tra cui Giuseppe De Donno ai vertici della G-Risk (che opera nel settore della sicurezza privata) ed ex ufficiale del Ros, tra i protagonisti della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Da quanto si è saputo, Rognoni al momento avrebbe indicato come proprio legale l’avvocato Daniele Ripamonti.

Fonte: milano.corriere.it

15 dic 2012

Gelati, lecca-lecca, iPad: le spese caricate sul bilancio. «Pagata una festa di nozze»

Lo scandalo rimborsi al consiglio regionale della Lombardia

MILANO - Senza regole e, più ancora, senza stile. L'assalto alle note spese rimborsate «per il funzionamento dei gruppi» del consiglio della Regione Lombardia, infatti, visto con le lenti degli scontrini costati ieri 22 inviti a comparire per peculato ad altrettanti consiglieri di Pdl e Lega, nemmeno pulsa della ribalda "nobiltà" di illustri predecessori che nel Lazio si erano fatti la villa o avevano acquistato il Suv con i soldi dei cittadini: qui al Pirellone c'è solo gente che, pur guadagnando almeno 9.000 euro netti al mese di stipendio comprensivo di diaria, e pur essendo già dotata di telefoni e computer gratis, con gli ulteriori fondi pubblici «per il funzionamento del gruppo consiliare» si fa rimborsare il cono gelato da 1 euro e 50, il lecca-lecca, l'ovetto-Kinder e una clessidra; compra la salsiccia dal macellaio, va dal panettiere, segna uno dietro l'altro a distanza di pochi minuti i caffè con brioche da 1 euro e 60 al bar, beve una birra al pub; acquista in tabaccheria blocchi di «gratta e vinci», mette in lista un farmaco e il relativo ticket da 21 euro, e a Capodanno accolla ai contribuenti i fuochi d'artificio.

Tartufi e ostriche
Perfino le trasgressioni culinarie sono un po' da filmetto di serie B. Come nei «due coperti» da 127 euro di ostriche rimborsati al leghista Pierluigi Toscani. O come il pasto al ristorante «il Baretto al Baglioni» il 23 ottobre 2010 che l'ex presidente leghista del consiglio regionale Davide Boni qualifica «spesa di rappresentanza» nei «rapporti consiglio-giunta e nuova sede con il Sottosegretario Expo 2015», consumando 30 grammi di tartufo per 180 euro su 644 di conto. Il tartufo deve essere una passione: Giorgio Pozzi si fa rimborsare una cena «con rappresentanti dell'imprenditoria locale» il 23 dicembre 2010 sempre al «Baretto» dove, su un conto di 3.320 euro, 200 sono di vini, 400 di champagne e ben 882 di tartufi in un «privé» il cui utilizzo costa da solo 150 euro.

Sushi e ospitalità
Quando a saldare i conti è indirettamente il contribuente, diventa più facile largheggiare in generosità: sempre Pozzi, ad esempio, ottiene il rimborso di 5.500 euro spesi al ristorante «Il Gatto Nero» di Cernobbio il 30 luglio 2010 per una «cena istituzionale con operatori e imprenditori locali» offerta a 55 persone. Alessandro Colucci oscilla invece tra gli arancini da 5 euro e il sushi da 127 euro per due coperti al ristorante «Nobu Armani».

I taxi, il Natale, Parigi
Del resto la madre di tutte le ambiguità è il concetto in sé di «materiale di rappresentanza», tipo quello che Boni compra per 11.164 euro a Napoli tra il 28 e il 30 dicembre 2010: 75 cravatte in seta, 3 sciarpe in cashmere, 7 foulard in seta. Per definizione, nulla è più di «rappresentanza» come le colazioni e le cene al ristorante, che insieme a una marea di taxi sono la voce più ricorrente e corposa nei rimborsi ritenuti dubbi dagli uomini della GdF milanese che con i pm Robledo-Filippini-D'Alessio già avevano indagato sul finanziamento pubblico alla Lega e prima ancora sui derivati del Comune di Milano. L'ex assessore Buscemi, ad esempio, al ristorante milanese «A Riccione» sostiene «spese di rappresentanza» per 380 euro proprio alla viglia di Natale, 24 dicembre 2009, e per 695 euro proprio l'ultimo dell'anno, 31 dicembre 2009.
Altre volte Buscemi qualifica come «spese di rappresentanza» il ritiro di pietanze da asporto presso ristoranti giapponesi e cinesi. E quando un evento legato all'Expo propizia un soggiorno istituzionale a Parigi, all'«Hotel Park Hyatt» paga 638 euro con carta di credito della Regione anche se dalla fattura dell'albergo sembrerebbe che i servizi ricettivi siano stati offerti a «2 persone».

Matrimonio
Tante cose potranno forse essere chiarite, e certo ce n'è parecchie da mettere a fuoco. Il capogruppo leghista Stefano Galli, ad esempio, che il 5 marzo 2009 mette in lista 8 euro per la ricarica di una penna, sostiene il 16 giugno 2010 al Ristorante «Toscano» una asserita spesa «di funzionamento» del gruppo anche se il ristoratore, interrogato come teste, ha affermato che quella spesa, 6.180 euro per 103 coperti, riguardava di certo un matrimonio.

Ovetti e Mignottocrazia
L'orizzonte degli scontrini è il più vario. Alessandro Marelli, pur non disdegnando di acquistare pc e cellulari, esibisce 4 euro per una birra spina media al pub e 9,90 euro per un tubetto di ovetti Kinder con sorpresa, e si fa rimborsare le sigarette e persino i coni gelato come Pierluigi Toscani, che non manca 752 euro di cartucce e non disdegna i tagliandi «win for live». Nicole Minetti sceglie invece di spaziare dagli 899 euro per l'iPhone5 ai 27 euro per «barattoli di sabbia in vetro giallo», dagli 832 auro di «consumazioni» all'Hotel Principe di Savoia ai pochi euro per una crema da viso. Ed è al gruppo consiliare pdl che l'imputata nel processo Ruby accolla i 16 euro spesi per comprare il libro «Mignottocrazia» scritto da Paolo Guzzanti.

«Si può vivere così?»
Ciascuno ha le sue predilezioni. Angelo Giammario (114mila euro contestati sul 2008-2012, più di lui solo il capogruppo pdl Paolo Valentini con 118.000) suole affittare un'auto con conducente da Basiglio a Milano. Cesare Bossetti, intestatario del rimborso della tazzina di caffè al bar come del farmaco da 21 euro, ricorre alle spese di funzionamento del gruppo per 14 cornici per 672 euro il 2 agosto 2010, e per altre 8 cornici il 7 luglio per 384 euro. Giulio Boscagli, il cognato di Formigoni, compra tre iPad per 2.626 euro. E mentre Roberto Pedretti si fa rimborsare 960 euro per un ingrandimento fotografico, per il suo collega Marcello Raimondi, che attinge spesso ai soldi pubblici per il rifornimento di carburante, l'1 marzo 2008 è invece giorno di acquisti tecnologici: una macchina fotografica da 520 euro, una telecamera da 230, un proiettore da 720, un computer da 1.390. Ma una decina di giorni dopo si dà anche ai libri. Titolo: «Si può vivere così?».

Fonte: corriere.it

25 nov 2012

Quei tre giudici nell'ufficio più costoso del mondo

Piazza San Marco: 2,6 milioni annui per affitto e spese alle Procuratorie, ma sono rimasti solo i giudici di pace

Tra stucchi cinquecenteschi illuminati d'oro e d'azzurro, c'è l'ufficio giudiziario più costoso del mondo (se si calcola il rapporto tra numero di occupanti e spese). Ci lavorano tre giudici di pace, si occupano di beghe condominiali e infrazioni stradali contestate. Le loro stanze si affacciano su San Marco, a Venezia, e ogni giorno si riempiono della musica dei Caffè storici. Si trovano nelle Procuratorie vecchie, l'edificio delle 100 finestre, lungo 152 metri, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr, costruito nel dodicesimo secolo e rinato dopo un'incendio nel 1538. Queste tre scrivanie costano prima al Comune, poi allo Stato, tra canone d'affitto e spese, 866 mila euro l'una. In totale 2,6 milioni l'anno.

Il padrone di casa, le Assicurazioni Generali, incassa il canone da un decennio. Il conto è lievitato, anche se gli uffici sono stati progressivamente liberati. Il pasticciaccio inizia nel 1991, quando il Tribunale di Rialto, con vista sul Canal Grande, viene chiuso per carenza di misure di sicurezza. Il Comune cerca, con urgenza, una sede per evitare la paralisi dei processi e delle indagini. Generali mette a disposizione l'enorme ala marciana. Era stata la base della compagnia dal 1832. Alla fine degli anni Ottanta, sulla scia di un esodo di abitanti e posti di lavoro che sembra non finire mai, anche le Generali si trasferirono in un quartier generale in terraferma, a Mogliano Veneto. Nuovo di zecca, accessibile e molto meno costoso di un edificio storico, tra acqua alta e necessità di continui interventi di restauro.

Il 18 novembre 1991 il Comune si accorda con la compagnia del leone: 1,4 milioni di euro l'anno per 6 anni. La giustizia riparte. Pubblici ministeri e giudici traslocano da Rialto alle stanze di San Marco, nei due splendidi piani poco adatti ai processi. Quando sono di scena imputati o testimoni eccellenti si assiste a inseguimenti dei fotografi tra turisti e piccioni, come capita nei giorni caldi di Tangentopoli a Gianni De Michelis, con la folla che fischia e urla. La distanza dall'imbarcadero costringe poi a far sfilare i detenuti portati dal carcere al palazzo tra vacanzieri e cittadini.

Dopo mesi dal trasferimento, Procura e Tribunale tornano a Rialto: le Fabbriche Nuove del Sansovino sono di nuovo agibili. Ma il gruppo dell'Antimafia rimane nell'edificio. Resta anche la polizia giudiziaria, assieme ai giudici di pace. E il canone intanto non si abbassa. Alla fine del 2003 il Comune chiede una proroga «in attesa della realizzazione della Cittadella della giustizia».

Il sogno è trasferire nella Cittadella, a piazzale Roma, tutte le sedi della magistratura del centro storico. I lavori sembrano interminabili. Se ne parla dagli anni Ottanta. «Il progetto è finanziato e gli appalti assegnati, ma a stralci - spiega con amarezza il sindaco veneziano Giorgio Orsoni, avvocato amministrativista - mancano i fondi statali per l'ultima fase». Nel 2010 il primo «miracolo»: una parte dello scuro e cupo edificio della Cittadella della giustizia è pronta, il team dell'Antimafia ha traslocato con la polizia giudiziaria. Ma il contratto d'affitto per San Marco resta lo stesso del 1991, quello della fuga da Rialto.

Se tutto filerà liscio, il 2013 sarà l'anno in cui Venezia potrà evitare di versare 2,6 milioni l'anno per i tre giudici di pace. «Abbiamo già trovato i nuovi uffici a Riva de Biasio, presto il caso sarà risolto - assicura il sindaco -. Certo, siamo stati vittime di un meccanismo folle: abbiamo dovuto anticipare milioni per far funzionare uffici statali, e l'amministrazione centrale ce li ha restituiti con ritardo di 3-4 anni, solo all'80 per cento. Ma fra qualche settimana tutto questo finirà».

Nel frattempo i tre giudici di pace e gli otto impiegati potranno continuare ad ascoltare i valzer dei Caffè che, dal '700 ad oggi, hanno accolto da Goethe ad Hemingway. «Il miglior fondale per l'estasi» come ha scritto Josif Brodskij, il poeta di «Fondamenta degli Incurabili».

Fonte: corriere.it

Regioni, addio verifica preventiva sulle spese

Cancellato il controllo di legittimità da parte della Corte dei conti. Allarme dei magistrati contabili: riforma annacquata

ROMA - Il tempo stringe ma i tamburi di guerra non smettono di rullare. Al Senato il decreto legge per introdurre sulle spese regionali controlli ben più rigorosi di quelli finora previsti dalle norme, varato dal governo di Mario Monti sull'onda degli scandali che hanno travolto la Regione Lazio, deve affrontare altre prove dopo le peripezie già passate a Montecitorio. Non è un segreto che anche a palazzo Madama c'è chi vorrebbe spuntare ancora un po' le unghie della Corte dei conti, cui il testo di partenza del provvedimento assegnava poteri estesi. Si parla, per esempio, di porre limiti tanto agli atti sui quali i magistrati contabili potrebbero esercitare le verifiche quanto alla possibilità di impiego della Guardia di finanza. Per non parlare dell'innalzamento della soglia dei 15 mila abitanti al di sopra della quale scattano per le amministrazioni comunali controlli semestrali supplementari rispetto a quelli ordinari.

Come sta a dimostrare la vicenda del tetto minimo di 66 anni d'età e 10 di mandato che il governo Monti avrebbe voluto mettere alle pensioni dei consiglieri regionali, reso di fatto inapplicabile con una modifica apparentemente insignificante, la digestione da parte del parlamento di misure del genere si presenta piuttosto problematica. Anche perché una fetta consistente degli onorevoli (il sito l'infiltrato.it ne ha contati 280, di cui 80 al Senato) è transitata nelle assemblee delle Regioni prima di arrivare alle Camere. C'è dunque chi continua a ritenere che il decreto del governo contenga forzature inaccettabili per le autonomie locali sancite dalla Costituzione, pure di fronte all'evidenza dei disastri provocati nei conti pubblici dall'assenza di efficaci meccanismi di controllo proprio sulle spese di quegli enti. Così l'unico serio deterrente per chi vorrebbe allentare i bulloni del decreto resta appunto la mancanza di tempo. Difficilmente, nel caso di modifiche, il provvedimento potrà infatti tornare alla Camera per una terza lettura prima della sua scadenza. Tanto più tenendo presente l'ingorgo incredibile di leggi e decreti nelle poche settimane che ancora precedono lo scioglimento del Parlamento.

La Camera, in ogni caso, ha già provveduto a privare la Corte dei conti del potere di verifica preventiva di legittimità sulle decisioni regionali. Di fatto, una specie di diritto di veto sugli atti che i magistrati contabili ritenessero incompatibili con i principi di una corretta gestione. La motivazione? Semplificare le procedure dei controlli evitando al tempo stesso di sollevare gli amministratori dalle loro responsabilità, ma senza intaccare la sostanza del decreto. È certo però che la cosa non è affatto piaciuta al presidente della Corte Luigi Giampaolino, convinto che una modifica del genere possa pregiudicare seriamente il potere di intervento della sua magistratura. Da qui la preoccupazione che il Senato si accinga adesso a fare altre e ancor più radicali amputazioni.

La partita è decisamente molto complessa. Perché da una parte ci sono le resistenze delle Regioni che fanno breccia in Parlamento. Mentre dall'altra l'ampliamento della sfera d'azione dei giudici contabili (il decreto affida alle loro cure, per dirne una, anche i bilanci dei gruppi politici nei consigli regionali) genera preoccupazioni di diverso tenore. Alla Camera Giampaolino ha assicurato che la Corte dei conti è nelle condizioni di far fronte ai «nuovi compiti che le sono stati attribuiti con il personale attualmente in servizio». L'associazione dei magistrati della Corte ha però spedito il 31 ottobre scorso ai presidenti della commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera, rispettivamente Donato Bruno e Giancarlo Giorgetti, una lettera di due pagine per denunciare pesanti carenze di organico. Chiedendo, fra le righe, di allargare per i giudici contabili le maglie del blocco del turnover dei dipendenti pubblici.

C'è scritto che dei 613 posti teoricamente previsti ne sono coperti appena 444. E se si considerano gli 11 magistrati fuori ruolo perché impegnati in altri incarichi istituzionali (uno di loro, Paolo Peluffo, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio) il numero scende a 433. Di questi, poi, ben 52 sono «in regime di trattenimento in servizio» avendo già superato 70 anni, limite d'età per la pensione. Senza di loro, il personale sarebbe ridotto al 62 per cento della cosiddetta «pianta organica» dei 613. Le sezioni regionali di controllo, sottolinea la lettera del sindacato, «non possono usufruire delle prestazioni di più di 120 magistrati». Con situazioni di notevole sofferenza.

La Lombardia, regione con circa 10 milioni di abitanti e che comprende più di 1.500 enti locali, può contare soltanto su nove consiglieri più il presidente. La Calabria, dove lo stato delle amministrazioni è spesso disastroso e fioccano i commissariamenti di Comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata, ha una sezione di controllo con appena cinque magistrati. Presidente compreso.

Fonte: corriere.it

16 nov 2012

La beffa dei vitalizi regionali. Resistono alla legge anti-Fiorito

I consiglieri degli enti potranno ricevere l'assegno prima del compimento dei 66 anni

ROMA - Mai più vitalizi regionali a cinquant'anni, era la promessa. Anche i governatori si erano dichiarati d'accordo. Malgrado il clima apertamente ostile che si respirava in Parlamento, dove il Partito delle Regioni era pronto alla battaglia, come ha dimostrato l'accoglienza glaciale riservata al decreto legge per tagliare finalmente sprechi e abusi locali con una clamorosa bocciatura della commissione bicamerale per gli affari regionali.

Dove il relatore Luciano Pizzetti, democratico e bersaniano, ex consigliere regionale della Lombardia, ha contestato duramente il via libera dato dai governatori, che a suo parere «non appaiono in grado di salvaguardare le proprie prerogative costituzionalmente riconosciute». Traduzione: vanno salvati da loro stessi. Messaggio inequivocabile per i 280 (tanti ne ha contati Carmine Gazzanni sul sito Infiltrato.it) suoi colleghi di Camera e Senato che come lui sono ex consiglieri regionali. E per spiegare come mai la norma voluta da Monti per impedire inaccettabili privilegi pensionistici si sia magicamente dissolta alla Camera non si può che partire da qua.

«Stop alle pensioni prima dei 66 anni, come invece sarebbe toccato a Er Batman», annunciava l'Ansa il 4 ottobre scorso, dando notizia del provvedimento. Il giro di vite, in effetti, si presentava pesante. Nessun ex consigliere regionale avrebbe avuto diritto alla pensione senza aver fatto almeno dieci anni di mandato né prima di aver compiuto 66 anni. Pareva studiata apposta per impedire che personaggi come l'ex capogruppo del Pdl nel consiglio regionale del Lazio, Franco Fiorito, alias «Er Batman» di Anagni, 41 anni di età, accusato di essersi appropriato dei fondi pubblici generosamente assegnati al suo partito, potessero riscuotere il vitalizio dopo nemmeno tre anni di incarico e già al compimento dei cinquant'anni. Soprattutto, però, questa norma avrebbe avuto il vantaggio di mettere ordine in una giungla indescrivibile. Ogni Regione ha infatti sempre avuto norme previdenziali proprie, differenti dalla Regione accanto.

Appena però il decreto legge del governo di Mario Monti è arrivato in Parlamento con questa tagliola, ecco le bordate. Da tutte le parti. Chi ostinatamente proponeva di dimezzare il numero degli anni di mandato sufficienti a godere della pensione regionale, portandolo da dieci a cinque. Chi esortava ad abbassare l'età, da 66 a 60 anni. Chi chiedeva di prevedere il riversamento dei contributi previdenziali al consigliere regionale nel caso di impossibilità a godere della pensione. Chi, non contento, non cessava di invocare la soluzione più radicale di tutte: il colpo di spugna.

E alla fine l'ha spuntata, anche se in un modo davvero singolare, come si capisce rileggendo le modifiche scaturite dall'intervento sul testo originario dei due relatori: Chiara Moroni, parlamentare del Fli, e Pierangelo Ferrari deputato del Partito democratico nonché ex consigliere regionale della Lombardia. E' stato sufficiente inserire alla fine della lettera "m" dell'articolo 2, quello che stabilisce i limiti minimi dei 66 anni di età e dei 10 anni di mandato, questa frase: «Le disposizioni di cui alla presente lettera non si applicano alle Regioni che abbiano abolito i vitalizi».

Siccome tutte le Regioni hanno già abolito i vitalizi, ecco che la regola del 66+10 non si può applicare a nessuna. Direte: ma è logico. Che senso ha mettere un tetto alle pensioni quando le pensioni non ci sono più? Perfetto. Ma se le pensioni non ci sono più, che senso ha precisare in una legge che non si applica il tetto?

Ricapitoliamo. Tutte le Regioni hanno già abolito i vitalizi, come si è detto, in linea di principio. Ma non tutte hanno fatto come l'Emilia-Romagna, che li ha cancellati e basta. La legge prevede infatti che i vitalizi possano essere sostituiti, dalle Regioni che intendono farlo, con trattamenti pensionistici alternativi basati sul sistema contributivo. Una di queste è appunto la Regione Lazio, che ha demandato a un futuro provvedimento (se ne occuperà il prossimo consiglio) il passaggio dal vitalizio alla pensione per i suoi consiglieri. E qui sta evidentemente la furbizia di quella frase che esclude dall'applicazione della tagliola del 66+10 chi ha già abolito i vitalizi, cioè tutti. Perché questo consentirà alle Regioni che li vorranno sostituire con pensioni contributive, di aggirare le regole più rigide che avrebbe voluto introdurre Monti, consentendo la corresponsione dell'assegno contributivo magari già a sessant'anni, o forse ancora prima, e con soli cinque anni di mandato anziché dieci. Saranno tutte libere di farlo.

Non bastasse, anche i consiglieri ora in scadenza potranno così andare in pensione prima di 66 anni d'età e con neanche 10 di mandato. Perché quel colpo di spugna tanto originale quanto provvidenziale ha vanificato pure la norma, contenuta nel provvedimento, con cui viene esteso sulla carta il tetto del 66+10 agli attuali consiglieri che avrebbero già maturato il diritto al vecchio vitalizio e si stanno apprestando a lasciare l'incarico. Di chi parliamo? Di quelli della Regione Lazio, per esempio: i quali, grazie al vecchio sistema abolito ma ancora in vigore per gli attuali eletti, possono pensionarsi a cinquant'anni. Proprio coloro che sembravano il bersaglio della legge, a cominciare da Batman. Geniale, no?

Fonte: corriere.it

9 ott 2012

La Provincia di Catania rischia il crac per una truffa (del 1972)

40 anni fa due dipendenti riconosciuti responsabili di un raggiro ai danni di una finanziaria

La Cassazione conferma la condanna: l’ente dovrà pagare 23 milioni di euro Conciliazione fallita, conti già pignorati

ROMA — A dare la mazzata finale non sarà la legge che dovrebbe ridurre il numero delle Province. Anche perché è difficile dire se e quando accadrà. Piuttosto, la Provincia di Catania rischia di essere stroncata da un fantasma che arriva dal passato con un conto astronomico da pagare, in grado di far saltare il banco: 23 milioni 258.682 euro e 39 centesimi. I fatti, per la serie «quando la realtà supera la fantasia», risalgono al 1972. Il 16 ottobre di quell’anno, una settimana esatta dopo che dalle catene di montaggio della Fiat era uscita l’ultima Cinquecento, l’allora assessore «all’economato e al patrimonio» firmava un accordo con una società finanziaria chiamata Istituto finanziario italiano.

L’intesa era questa: l’Ifi avrebbe concesso piccoli prestiti ai dipendenti della Provincia, da rimborsare con le trattenute sulle buste paga che l’amministrazione provinciale avrebbe dovuto rimborsare alla finanziaria. Una tipica cessione del quinto dello stipendio, per capirci. Ma nessuno poteva immaginare che cosa sarebbe accaduto. Perché nemmeno due anni dopo, nel maggio del 1974, saltò fuori che dei 1.318 prestiti concessi dall’Ifi, soltanto 187 erano regolari. Gli altri 1.131 riguardavano persone inesistenti o anche dipendenti dell’ente in carne e ossa, ma che non avevano mai presentato la domanda. Della clamorosa truffa vennero riconosciuti responsabili due dipendenti della Provincia, uno che lavorava all’ufficio economato e l’altro addetto alla corrispondenza. Come avessero fatto da soli a congegnare e portare a termine tale diabolica macchinazione, appare ancora oggi incredibile. Anche perché i moduli di richiesta dei prestiti dovevano essere sottoscritti dall’assessore, al quale spettava il compito di certificare l’esattezza delle dichiarazioni. Ma tant’è.

Alla fine i due vennero condannati per truffa aggravata. In un paio d’anni si era volatilizzata una somma per l’epoca astronomica: un miliardo 828 milioni 50 mila lire. Proprio la cifra che nel 1984, ben dieci anni dopo la scoperta del raggiro, l’Ifi chiese come risarcimento. Sette anni più tardi, nel 1991, arrivò la prima sentenza: il tribunale di Catania condannava i due dipendenti a pagare, in solido con la Provincia. Di fatto, la decisione dei giudici colpiva in pieno l’ente, considerato responsabile contrattualmente. Inevitabile l’appello, che si concluse ben cinque anni dopo, nel 1996, con ribaltamento della sentenza di primo grado. La Provincia era salva. Ma in Cassazione, nel 2000, un’altra sorpresa: la suprema corte accolse il ricorso del curatore dell’Ifi, nel frattempo fallito, rinviando tutto a un nuovo giudizio d’appello. Dal quale, a distanza di ben otto anni, la Provincia uscì condannata. Inutile l’ennesimo ricorso in Cassazione, sfociato nell’estate del 2011 nella conferma di quella sentenza. Trascorsi quarant’anni, con le rivalutazioni e gli interessi legali la somma iniziale si è moltiplicata per 25 volte. E ora siamo alla resa dei conti.

Tutti i tentativi di conciliazione sono falliti. Anche la proposta avanzata dalla Provincia, nel tentativo di contenere le proporzioni del disastro pagando 12 milioni e mezzo, è caduta nel vuoto. I curatori fallimentari dell’Ifi vogliono tutto. Così a marzo hanno pignorato i conti dell’ente. E il 2 ottobre la sezione distaccata di Mascalucia del tribunale di Catania, a 28 (ventotto!) anni dall’inizio della causa, ha reso esecutiva la sentenza. Non serve nemmeno che la Provincia paghi materialmente, visto che il giudice dell’esecuzione, Giorgio Marino, ha autorizzato la sua banca tesoriera «a prelevare » la somma «da quanto dovuto al debitore escutato». Traduzione: i soldi possono essere trattenuti direttamente dal conto dove vengono depositati i trasferimenti provinciali.

Non si è commosso, il tribunale, nemmeno di fronte al grido di dolore del presidente della Provincia Giuseppe Castiglione, esponente del Pdl. Opponendosi al pignoramento, il suo avvocato aveva fatto presente che quei 23 milioni e rotti di euro avrebbero reso impossibile il rispetto del patto di stabilità, con le conseguenze terribili del caso. E Marino, niente. Anzi: nella decisione del 2 ottobre gli ha risposto che il patto di stabilità «opera con riferimento al contenimento delle spese, ma non può certo operare quale limite per pagamenti discendenti da provvedimenti giurisdizionali, per di più passati in giudicato e per di più in danno di legittime pretese creditorie ». Amen.

Fonte: corriere.it

8 ott 2012

Quelle società in rosso finanziate dalle Regioni. Dai 15 milioni persi dallo zuccherificio del Molise, alle film commission di Campania e Calabria

ROMA - Finanziarie, società di gestione dell'acqua e delle fogne, zuccherifici, terme, film commission , società di consulenza e di informatica. Sono quasi 400 gli organismi partecipati dalle Regioni con circa 10 mila dipendenti, costosi e spesso in «rosso». La galassia delle «regionalizzate» è, secondo la Corte dei conti che lo ha censito per la prima volta in una relazione pubblicata lo scorso agosto, «un fenomeno poco noto», rispetto a quello delle «municipalizzate», su cui c'è «l'obiettiva necessità di indagare». Obiettivo: verificare che non siano di ostacolo all'iniziativa privata e che diventino un mero strumento per sfuggire alla disciplina dei conti pubblici. Una necessità che è diventata impellenza all'indomani delle numerose indagini che stanno coinvolgendo le Regioni, tra sprechi e vere e proprie ruberie.

Gli affidamenti
Si scopre così, scrive l'organo di controllo, che «le Regioni, al pari degli altri enti territoriali, hanno esternalizzato funzioni, servizi ed attività, costituendo società oppure entrando nel capitale di società esistenti». Non solo. Alle società vere e proprie si affiancano «enti pubblici dipendenti» e «agenzie regionali», costituite in base agli statuti, «affidatarie di funzioni ed attività» proprie della Regione in quanto istituzione, assegnatarie di risorse organizzative ed economiche con direzione e responsabilità autonome. Rientrano a pieno titolo in questa modalità le società finanziarie regionali, «fenomeno di grande rilevanza».

Il capitalismo regionale
I dati affluiti alla Corte dei conti, che disegnano quello che è definito come «capitalismo regionale», riguardano il 2010 e in parte il 2011 e sono stati inseriti in una banca dati che verrà tenuta aggiornata. Vi hanno contribuito tutte le Regioni e le Province autonome, tranne la Sicilia e la Sardegna perché, come spiega la relazione, le Sezioni di controllo della Corte dei conti di quelle Regioni «hanno ritenuto di non inviare loro le richieste istruttorie». Sono stati censiti 394 organismi partecipati di proprietà delle Regioni, di cui il 57,6% è costituito da spa e il 10,4% da srl: in tutto 268 società. Il resto è costituito da fondazioni (7,6%), consorzi (3%) e altri organismi (21,3%). La presenza dei privati nella compagine sociale è rilevata in 163 organismi partecipati (41% del totale), di cui 56% spa e 8% srl.

Il record del Lazio
La maggiore incidenza di spa partecipate si trova nel Lazio (9,7%), seguito dalla Toscana (8,4%) e dal Veneto, Emilia Romagna e Campania (6,6%). Le srl sono presenti soprattutto in Liguria ed Emilia Romagna (12,2%). In quest'ultima Regione le Fondazioni rappresentano il 60% del totale di tutte le Regioni. Il valore delle partecipazioni detenute dalle Regioni nelle 268 spa e srl sfiora i 3,5 miliardi, la metà dei quali sta in capo a Regioni e Province autonome. Il dato di maggior rilievo riguarda la Lombardia che possiede, nelle otto società di cui è azionista, partecipazioni per 322,74 milioni di euro, pari al 76% del valore del loro capitale sociale complessivo. Piemonte e Puglia che si collocano subito dopo detengono in valore assoluto quote di importi molto inferiori, pari rispettivamente a 78,49 e 58,94 milioni di euro. Colpisce la presenza frazionata in numerose società delle Regioni Lazio (23 società), Toscana (20), Emilia Romagna (20), Campania (19) e Veneto (18).

I bilanci
Ma quali risultati conseguono queste regionalizzate? I dati, in questo caso relativi alle spa e srl partecipate al 100% dalle Regioni, 75 in tutto, mostrano per l'esercizio 2010 un fatturato complessivo pari a 1.921,94 milioni di euro, ma il dato aggregato relativo ai risultati di esercizio evidenzia un «rosso» di -92,60 milioni di euro. Un dato deludente se si pensa che le somme erogate dalla Regione, a titolo di corrispettivo e contributo in conto esercizio, ammontano a 780 milioni di euro. I costi della produzione superano il valore della stessa, attestandosi a 2.008,95 milioni di euro, il 19% dei quali sono relativi al personale per un numero di occupati pari a 7.526 addetti.

Mai una gara
L'affidamento dei servizi avviene quasi nella totalità dei casi senza gara: 248 affidamenti diretti contro 19 tramite meccanismo competitivo. Tra le società partecipate al 100% in Piemonte, la società Sviluppo Piemonte Turismo chiude il preconsuntivo 2011 con 3 mila euro di utile, L'Istituto per le piante da legno e l'ambiente, partecipato all'84%, ne perde 722 mila. In Lombardia le quattro spa interamente della Regione, Cestec, Finlombarda, Infrastrutture Lombarde e Lombardia Informatica chiudono in attivo, mentre nel 2010 Expo è sotto di 10,5 milioni. In Veneto le Ferrovie, partecipate al 100% chiudono con utile risicato il 2011, perde invece un milione e mezzo la controllata Veneto Nanotech. In Toscana, dove la Regione partecipa con un 76% alle società Terme di Casciana, si registra una perdita tra il 2010 e il 2011 di più un milione di euro. Nel Lazio l'azienda di trasporti Co.Tral (99,9%) registra perdite intorno ai 30 milioni nei due anni considerati. In Molise lo Zuccherificio (100%) risulta in rosso di più di 15 milioni nei due anni. In Campania la Astir (fognature, 100% della Regione) è sotto di 25 milioni nel 2010, la Caremar (traghetti) di 3,5, i bus dell'Eav ne perdono 82,5, la Film Commission 356 mila. La stessa commissione in Calabria (100%) risulta sotto di 744 mila euro nel preconto 2011.

Fonte: corriere.it

5 ott 2012

Alberto Sarra, Il sottosegretario regionale che intasca il vitalizio per inabilità al lavoro

Una pensione di invalidità di 7 mila euro oltre allo stipendio
Ma Sarra presiede convegni e inaugura strade

Lunga vita ad Alberto Sarra. Ma è giusto che riceva dalla Regione Calabria un vitalizio di invalidità di 7.490,33 euro al mese, dieci volte più alto di quei portatori di handicap che non sono neppure in grado di soffiarsi il naso? Ed è giusto che accumuli un'altra indennità come sottosegretario regionale nonostante risulti disabile al 100%?

Chiariamo subito: il pensionato-sottosegretario ha, come paziente, tutta la nostra solidarietà. Reggino, avvocato, 46 anni, da sempre amico, compagno di basket e camerata politico del governatore Giuseppe Scopelliti, già consigliere e assessore provinciale di Reggio, criticato da alcuni giornali locali per avere accettato la difesa di personaggi in odore di 'ndrangheta, Alberto Sarra fu colpito nei primi giorni del 2010, quando stava scadendo il suo mandato di consigliere regionale, da uno choc emorragico.

Salvato grazie a un delicato intervento chirurgico, si perse le elezioni di marzo. Tre mesi dopo, visto che era in forma, l'amico Scopelliti lo nominava già sottosegretario regionale alla presidenza, una ridicola carica da retrobottega politico inventata dalla precedente giunta sinistrorsa di Agazio Loiero, mantenuta dal centrodestra e destinata ad essere abolita al prossimo giro proprio perché insensata.

Da allora, l'archivio dell' Ansa trabocca di notizie su di lui: 156 dispacci. Lui che incontra i presidenti delle Comunità montane. Lui che presiede conferenze dei servizi sulle frane. Lui che inaugura nuove strade. Lui che si occupa dei consorzi industriali. Lui che riceve l'ambasciatrice cubana in Italia. Lui che cerca di risolvere il nodo dei forestali. Insomma, instancabile. Si sa com'è: governare una Regione è una faticaccia. Come dice Roberto Formigoni, «per fare politica, ci vuole un fisico bestiale».

Contemporaneamente, mentre gli amici si congratulavano per il suo attivismo, il dinamico sottosegretario avviava le pratiche per farsi riconoscere invalido al lavoro. Finché il 13 giugno scorso, mentre lui era impantanato nelle trattative sulla forestazione, una commissione di cui faceva parte il suo cardiologo di fiducia Enzo Amodeo, dichiarava che «considerata la patologia - aneurismi dei grossi vasi arteriosi del collo e del tronco complicati da dissezioni della aorta torico-addominale - si ritiene l'avvocato Alberto Sarra permanentemente inabile a proficuo lavoro».

La settimana dopo, record mondiale di velocità burocratica, l'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale riconosceva al sottosegretario l'«inabilità totale e permanente dal lavoro». Poche settimane d'attesa e il Bollettino Ufficiale, come ha raccontato Antonio Ricchio sul Corriere della Calabria , pubblicava la Determinazione 439 che concedeva a Sarra un assegno mensile di 7.490,33 euro «al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio, con decorrenza dal 7 gennaio 2010». Per capirci: gli riconosceva gli arretrati per un totale di 30 mesi pari (stando a quei numeri) a circa 225 mila euro. Cioè quanto un normale disabile totale e permanente, uno che non solo non è in grado di ricevere l'ambasciatore bielorusso ma magari neppure di portarsi il cibo alla bocca, prende in 24 anni e mezzo.

Ricordate la storia che abbiamo raccontato mesi fa di Giulia, la ragazza padovana con «insufficienza mentale medio-grave in paraparesi spastica»? Per permetterle di vivere seguendola 24 ore al giorno il padre e la madre Gloriano e Mariagrazia, obbligata a lasciare il lavoro per dedicarsi solo alla figlia, ricevono una pensione mensile lorda di 270,60 euro più un'indennità d'accompagnamento di 487,39 per un totale di 757 euro e 99 centesimi. Un decimo.

«E di casi così in Italia, di persone che dipendono dai familiari in tutto e per tutto, ce ne saranno almeno centomila», spiega Pietro Barbieri, presidente della Fish, la federazione italiana delle associazioni di sostegno all'handicap. «Sia chiaro: se Sarra non è più in grado di lavorare, è giusto che l'invalidità gli sia riconosciuta. Ma nessuno nelle sue condizioni, in Italia, ha mai visto un vitalizio con delle cifre simili. Nessuno».
Di più: quel vitalizio stratosferico rispetto ai trattamenti miserabili concessi agli altri invalidi totali che non fanno parte del mondo dorato della politica, va a sommarsi con l'indennità e le altre prebende riconosciute ai sottosegretari regionali calabresi.

Per carità, non ci permetteremmo mai di sottovalutare i problemi avuti dall'esponente pidiellino. Anzi, che abbia trovato la forza per riprendersi è una cosa che non può che rallegrare noi e tutti i cittadini. Ma c'è o non c'è una contraddizione tra quella invalidità assoluta e permanente a ogni lavoro e la sua permanenza ai vertici del governo di una regione italiana?

E sono accettabili quelle cifre in un paese come l'Italia che dal 2008 al 2013, come dice un'analisi di Antonio Misiani, ha visto il Fondo per le politiche sociali precipitare nelle tabelle degli stanziamenti da 929,3 milioni di euro a 44,6? Come possono capire i cittadini calabresi, sapendo che la loro regione risulta essere, stando ai dati Istat, l'ultima delle ultime per stanziamenti nell'assistenza e nell'aiuto alla disabilità?

Fonte: corriere.it

3 ott 2012

Franco 'Batman' Fiorito mise le fatture nel tritacarte. «Casa in Costa Azzurra per la fuga»

Tra i negozi in cui spende soldi pubblici, figurano Hermès, Montblanc, Euronics e Unieuro.

ROMA - Franco Fiorito stava acquistando una villa in Costa Azzurra. Una splendida casa a Mentone che si aggiunge alle altre proprietà (undici sparse tra Roma, Anagni, Tenerife alle Canarie e al Circeo oltre ai due appartamenti ottenuti in affitto da enti benefici) che l'ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio già possiede. Ed è proprio questa trattativa immobiliare, avviata ma negata dall'interessato durante l'interrogatorio del 19 settembre scorso, uno dei motivi che hanno convinto il giudice sulla necessità di farlo finire in carcere. Può fuggire in Francia, questo è il sospetto. E può farlo anche «a bordo della grande imbarcazione ancorata nel porto di San Felice Circeo». Yacht, macchine di grossa cilindrata, cene faraoniche, vacanze di lusso nei resort della Sardegna, una Jeep Wrangler acquistata in tutta fretta per affrontare le nevicate del febbraio scorso e perfino la caldaia da 1.000 euro per la magione del Circeo: questa è la vita che Fiorito conduceva con i soldi pubblici. E per cercare di nasconderla, una volta finito sotto inchiesta, ha cercato di usare mille escamotage . Come quello di tritare le fatture più compromettenti mentre i finanzieri aspettavano di perquisire la sua abitazione. Sono stati proprio gli accertamenti degli specialisti del Nucleo valutario guidati dal generale Giuseppe Bottillo a svelare la trama di ruberie e illeciti che vede al centro «Er Batman» ma che potrebbe presto coinvolgere altri suoi colleghi di partito consiglieri della Pisana. Un «sistema» che in appena due anni gli ha consentito di gestire sei milioni di euro. E di appropriarsi, questa è l'accusa, di un milione e 357 mila euro.

Sei testimoni contro
Le verifiche contabili svelano che Fiorito si è accreditato ben tre volte ogni mese le somme destinate ai consiglieri. Nel corso dell'interrogatorio il procuratore aggiunto Alberto Caperna e il sostituto Alberto Pioletti gli contestano questa procedura. E lui candidamente dichiara: «Le ragioni dei bonifici che ho disposto dai conti correnti del gruppo ai miei personali devono individuarsi nella scelta del gruppo di attribuire alla mia persona un'indennità doppia, oltre a quella che già godevo. Preciso che mi attribuivo mensilmente una quota di 4.190 euro per la mia carica di consigliere e 8.380 (il doppio) per le due cariche di presidente di commissione e di capogruppo. La scelta della cosiddetta "tripla quota" non è stata deliberata dal gruppo consiliare ma risponde a una prassi sempre seguita sia nel gruppo del Pdl sia negli altri gruppi».
Una tesi che viene smentita da ben sei testimoni. Il principale è Mario Abbruzzese, presidente del consiglio comunale, ma anche i capi delle segreterie di Udc e Lista Polverini, oltre a due funzionari.

Le ceramiche e la Montblanc
In ogni caso non sono soltanto le doppie o triple indennità a mettere nei guai Fiorito. Il vero problema sono tutte quelle spese fuori controllo documentate dagli investigatori della Guardia di Finanza che, come sottolinea il giudice Stefano Aprile, «sono privi di alcuna connessione con l'attività del gruppo Pdl». Nell'elenco dei pagamenti effettuati con carta di credito ci sono 1.330 spesi all'Unieuro, i 263,87 euro al supermercato Auchan, i 500 euro per la Montblanc, i 1.010 euro da Hermès.
Quando i pubblici ministeri gli chiedono di giustificare gli esborsi lui afferma: «Posso riferirvi soltanto per le spese presso "Ceramiche Appia Nuova" e "Sonnino Tessuti", riferite verosimilmente all'acquisto, per le prime, di accessori da bagno impiegati nelle sedi del partito di Anagni e Frosinone e, per le seconde, per la stoffa delle tende da apporre nelle medesime sedi». Scrive il giudice: «È da escludere che gli arredi di una sede locale del partito politico corrispondano agli scopi istituzionali del gruppo consiliare, mentre non è il caso di dilungarsi sulla disamina degli acquisti presso note boutique del centro di Roma, salvo voler ritenere che rientrino nel concetto di corretto funzionamento dell'organo assembleare gli abiti e le penne di marca».

Le fatture nell'antibagno
Tra i motivi che hanno convinto il giudice a ordinare l'arresto c'è l'inquinamento delle prove. E per dimostrarlo viene citata la relazione di servizio dei finanzieri che il 14 settembre scorso effettuano la perquisizione a casa di Fiorito. In realtà all'indirizzo dove risulta residente il politico non c'è. Viene contattato al telefono e lui assicura che sarebbe arrivato «entro venti minuti» presso l'appartamento ai Parioli dove abitualmente vive. Poiché non arriva viene richiamato. A questo punto afferma di essere già a casa e di essere passato dal palazzo accanto. I finanzieri entrano di corsa nell'appartamento, ma trovano pochissima documentazione. Le cartelline con le fatture le consegna lo stesso Fiorito cinque giorni dopo, quando viene interrogato, e afferma: «Normalmente le cartelle erano custodite parte presso l'ufficio di Boschi o Galassi (i segretari), parte presso l'antibagno dietro al mio ufficio. Durante la perquisizione non sono state trovate perché le avevo precedentemente spostate in un altro appartamento. L'ho fatto per evitare che entrassero nella disponibilità del mio successore come capogruppo Francesco Battistoni».

In realtà, come risulta dal verbale dei finanzieri: «All'interno del tritacarte sono stati rinvenuti: parte di fattura dalla quale si evince il destinatario "Gruppo consiliare Pdl" e la descrizione dell'oggetto come "cravatte di seta", "sciarpe in lana e seta", "porta documenti in pelle" e la causale di pagamento in contanti; parte di fattura dalla quale si evince l'intestazione "Eugenio Shirtmaker" e la descrizione dell'imponibile di 4.000 euro". Nella cucina è stata rinvenuta nella pattumiera la seguente documentazione strappata: una mail da Mireille Lucy Rejor (la compagna del padre che Fiorito nell'interrogatorio ha spacciato come sua segretaria) e una mail da Roberto Battista all'assessore Giuseppe Viti».

Fonte: corriere.it

Fiorito in cella, si indaga sulle feste. L'ex capogruppo in isolamento. «Ferma volontà di inquinare le prove»

Gli inquirenti analizzano frequenti party ed eventi organizzati «per acquisire ulteriore potere». Il coordinatore laziale Piso: ai pm dirò tutto

ROMA - Franco Fiorito è da ieri in carcere. Il gip Stefano Aprile, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Alberto Pioletti e dell'aggiunto Alberto Caperna, ne ha deciso l'arresto, eseguito in mattinata dagli uomini del nucleo valutario della guardia di Finanza. «Sono sereno e innocente. Non me l'aspettavo. In carcere starò meglio che nel Pdl», ha commentato l'ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio prima di entrare a Regina Coeli. Qui resterà in isolamento e sotto stretta sorveglianza almeno fino a domani, quando sarà sottoposto all'interrogatorio di garanzia.

La linea della Procura viene accolta in pieno dal gip, sia per la configurazione del reato, riconoscendo all'ex sindaco di Anagni il profilo di soggetto pubblico e non privato - da cui il peculato e non la «semplice» appropriazione indebita come vorrebbe il suo legale Carlo Taormina, che farà ricorso - sia per l'esigenza di misure cautelari in carcere. A smontare le «pretestuose e illogiche giustificazioni» di Fiorito viene riconosciuta dal gip «la pervicacia nel delitto e la pericolosità sociale» di Fiorito. Cosa che porta ad escludere i domiciliari vista anche la disponibilità di uomini e mezzi che gli renderebbero facile la reiterazione del reato (senza contare la presidenza della Commissione Bilancio che ancora ricopre).

Il «federale di Anagni» ha poi, nell'analisi del gip, mostrato la ferma volontà di inquinare le prove. Attraverso la loro distruzione, la ritardata consegna ai pm, la produzione di dossier falsi (cosa per la quale è indagato a Viterbo). Quest'ultimo passo della strategia si realizza in due modi: un «depistaggio giornalistico» con le numerose interviste rilasciate a tv e giornali, e nel tentativo di rovesciare su altri membri del gruppo la cattiva gestione dei fondi.

Significativa, in questo senso, una nota datata 18 luglio e prodotta da Fiorito durante il suo interrogatorio. Nella lettera l'indagato asserisce di aver denunciato il malaffare proprio nei giorni in cui sta invece intensificando i trasferimenti dai conti del Pdl ai suoi personali. Un'accelerazione, scrive il giudice, che si spiega con la necessità di completare in fretta il progetto criminale: «Una preordinata azione di spoglio posta in essere fin dalla sua assunzione in carica», mossa da una «inappagata sete di arricchimento». Infine il pericolo di fuga, desumibile anche dalla casa in via di acquisizione a Mentone.

«Non ho indicato io Fiorito come capogruppo, ma fu un accordo interno al partito», commenta il coordinatore regionale del Pdl Vincenzo Piso, finito sotto inchiesta per la presunta partecipazione al falso dossier. «Non sono indagato, non ho fotocopiato quelle fatture false e sono pronto a dire tutto ai pm», la sua difesa, sorretta dalla solidarietà di molti colleghi di partito.

Ma l'ordinanza di arresto apre anche la porta a scenari che rischiano di travolgere l'intero consiglio regionale. Una noticina a pagina 19 in cui si fa riferimento alle «frequenti organizzazioni di feste ed eventi, così come le elargizioni per acquisire ulteriore potere», sulle quali, spiega il gip, le indagini potrebbero mostrare che si tratta di finalità estranee all'assegnazione delle risorse pubbliche.

Fonte: roma.corriere.it

Rimborsi chilometrici, Del Balzo batte Fiorito

I benefit per i consiglieri della Regione Lazio: benzina, telepass e Ztl: oltre 20 mila euro all'anno. Solo in 4 rinunciano

ROMA - Il recordman è Romolo Del Balzo, da Minturno, ex presidente della Commissione sulle Olimpiadi: per fare su e giù con la Pisana, al consigliere Pdl del sud pontino finiscono in tasca 1.813,05 euro al mese, 21.756 euro l'anno. Uno stipendio (e che stipendio!) in più, derivante da una meravigliosa - per loro - voce inserita nella busta paga di gran parte degli eletti alla Regione: il rimborso chilometrico, una manna dal cielo.

Benefit che, nel 2011, è costato ai cittadini laziali 370 mila euro totali: basta abitare ad oltre 15 chilometri di distanza dalla sede del consiglio regionale. Cioè, trattandosi della Pisana, fuori dal Grande Raccordo Anulare, vale per quasi tutti: nel 2011, 52 consiglieri su 70 ne hanno usufruito. Oltre allo stipendio, all'indennità di carica, ai 4.190 euro al mese per «il rapporto elettore/eletto» (ora dimezzati), ai circa 130 mila euro l'anno per una fantomatica «attività politica» (e si è visto come venivano utilizzati questi soldi), questi fortunati godevano di 0,40 centesimi ogni chilometro percorso, pass Ztl per il centro storico, apparecchio Telepass.

Per la benzina, si calcola la residenza anagrafica. E Del Balzo, guida Michelin alla mano, da Minturno alla Pisana si «sobbarca» circa 300 chilometri a volta, tra andata e ritorno. Il totale, moltiplicato per 18 presenze mensili (il massimo previsto) fa 1.800 euro.

Dietro lui, implacabile, «er Batman» Franco Fiorito, «il federale di Anagni». Vuoi che non ci metteva anche un rimborsino chilometrico, per riempire il serbatoio della X5 comparata coi soldi destinati al gruppo Pdl? «Francone» è secondo, con 1.744,20 euro. al mese, 20.930 euro. Lidia Nobili, con la sua Porsche, da Rieti si becca 1.009 euro al mese. Poi, giù giù, tutti gli altri. Con qualche «mosca bianca».

Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi, ha rinunciato a tutto: «Niente rimborso chilometrico, niente telepass, niente Ztl». Il 20 luglio, Bonelli scrive al presidente del consiglio regionale Mario Abbruzzese: «Non avendo una macchina e qualora il contributo fosse erogato a mio favore, chiedo di voler provvedere alla sua rimozione». Zero euro risultano anche vicino alle caselle di Roberto Carlino (Udc), l'immobiliarista che guidava la commissione Ambiente, e di Francesco Storace, leader de «La Destra». Fuori dai rimborsi anche cinque membri dell'ufficio di presidenza: oltre ad Abbruzzese, che viaggia con l'auto di servizio, Isabella Rauti (Pdl), Bruno Astorre (Pd), Claudio Bucci (Idv) e Raffaele D'Ambrosio (Udc). Figura tra i rimborsati, invece, Gianfranco Gatti (Lista Polverini), altro segretario del consiglio di presidenza: 1.138 al mese, nonostante il diritto all'auto blu.

Tra i rimborsi record, al terzo posto c'è Annalisa D'Aguanno (Pdl), consigliera di Cassino, con 1.377 euro al mese. Al quarto Anna Maria Tedeschi (Idv) con 1.285, al sesto Francesco Battistoni che, pur essendo a capo della commissione Agricoltura (e potendo usufruire dell'auto di servizio) si porta a casa 1.266 euro. Non è l'unico, tra i presidenti di commissione: ci sono Alessandra Mandarelli (Sanità, Lista Polverini: 927 euro), Rodolfo Gigli (Lavori pubblici, Udc: 899 euro), Francesco Scalia (Vigilanza, Pd: 817 euro), Giovanni Di Giorgi (Pdl, Stefano Galetto (Patrimonio, Pdl: 734 euro), Luigi Abate (Sicurezza, Lp: 720 euro), Filiberto Zaratti (Anti-criminalità, Sel: 449 euro), Roberto Buonasorte (Urbanistica, La Destra: 376 euro), Giancarlo Miele (Sviluppo economico, Pdl: 275 euro), Francesco Saponaro (Commercio, Lp: 275 euro). Oltre a Fiorito, dieci i capigruppo rimborsati: Luciano Romanzi, Ivano Peduzzi (Fds), Giuseppe Rossodivita (Radicali), Mario Mei (Api), Antonio Paris (Misto), Rocco Pascucci (Mpa), Luigi Nieri (Sel), Olimpia Tarzia (Responsabili), Giuseppe Celli (Civica dei cittadini) e Francesco Pasquali (Fli). Fuori dai rimborsi i «big»: Esterino Montino (Pd), Mario Brozzi (Polverini), Vincenzo Maruccio (Idv) e Francesco Carducci (Udc).

Fonte: corriere.it

26 set 2012

Quei bonifici di Fiorito prima di lasciare. Ai collaboratori esterni 700 mila euro.

Il ruolo del presidente Abbruzzese. Polverini sarà sentita dai pm. L'ex capogruppo avrebbe sottratto 1 milione e 300 mila euro. Il legale: restituirà quanto deve

ROMA - Un paio di mesi prima di dimettersi da capogruppo del Pdl Franco Fiorito effettuò numerosi bonifici a persone del suo entourage , anche politico. Sulle distinte di accredito non veniva specificato il nome del destinatario, ma gli investigatori della Guardia di Finanza li avrebbero già individuati. E adesso rischiano l'accusa di riciclaggio. La faida interna al Pdl era già cominciata, il sospetto è che Fiorito cercasse in questo modo di mettere al sicuro i fondi prima di una sostituzione che lui stesso aveva capito essere inevitabile.

È la prima relazione consegnata ai magistrati dal Nucleo Valutario a ricostruire ogni passaggio di denaro e a quantificare la cifra che il consigliere regionale avrebbe sottratto alle casse del partito: un milione e trecentomila euro distribuiti tra conti italiani ed esteri.

L'attività di Abbruzzese.
Si muovono su binari paralleli gli accertamenti disposti dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal sostituto Alberto Pioletti. Da una parte l'accusa di ruberia a Fiorito, dall'altra l'operato dell'ufficio di presidenza del consiglio regionale che in due anni ha elargito quattordici milioni di euro ai gruppi consiliari. Per questo saranno nuovamente interrogati il presidente Mario Abbruzzese e il segretario generale Nazzareno Cecinelli.
Il ruolo di entrambi viene infatti ritenuto strategico nella scelta di destinazione dei fondi. E dunque bisognerà capire come mai, nonostante ci fossero numerose voci di bilancio in sofferenza, si decise di destinare così tanti soldi al funzionamento dei gruppi. Stabilire quale criterio fosse stato adottato per la quantificazione delle esigenze. Tenendo conto che quelle cinque delibere che aumentavano l'entità delle somme ottennero anche il voto favorevole dei partiti di opposizione Pd e Idv. Nel primo interrogatorio Abbruzzese ha sostenuto di aver «seguito alla lettera le leggi regionali». Adesso dovrà spiegare come mai non fosse mai specificato per quale motivo era necessario far lievitare l'entità delle somme da elargire.

Il ruolo di Renata Polverini.
Anche l'ex governatrice potrebbe essere ascoltata come testimone. Nei giorni scorsi ha incontrato il procuratore Giuseppe Pignatone per onorare un precedente appuntamento su tutt'altro argomento, ma appare difficile che non si sia parlato di quanto sta accadendo alla Regione Lazio.
«Dirò tutto quello che so», ha promesso la governatrice al momento di annunciare le proprie dimissioni. E dunque non è escluso che decida di presentarsi in procura per fornire nuovi elementi ai pubblici ministeri. Tenendo però conto che una parte degli aumenti sono stati decisi con due "determinazioni" proprio dalla Giunta da lei guidata.

Adesso sono in molti a negare di essersi accorti di questa girandola di spese folli, ma analizzando i conti appare difficile crederci. Anche perché ci sono esborsi da capogiro sui quali nessuno ha mai ritenuto di dover chiedere almeno una spiegazione. E perché gli stipendi dei consiglieri erano stati decisi seguendo un criterio unitario: 9.700 euro in busta paga, più un extra di 4.100 euro per un totale mensile di 13.800 euro mensili. Ai quali andavano aggiunti i 100 mila euro annui per l'attività politica che, a seconda degli incarichi, potevano essere raddoppiati o addirittura triplicati.

I soldi ai collaboratori. Tra il 2010 e il 2012 il Pdl ha messo sotto contratto una quarantina di collaboratori che si aggiungevano ai dipendenti regionali e ai consulenti. Un esercito di persone costato l'anno scorso oltre 665 mila euro. «Per svolgere al meglio il lavoro dei consiglieri - scrisse Fiorito in una lettera al Comitato di controllo inviata il 28 febbraio scorso - è stato necessario aumentare notevolmente il numero del personale a disposizione del gruppo stesso. Le assunzioni sono state necessarie e aggiunte alle varie consulenze per svolgere al meglio l'incarico elettivo dei componenti» e hanno comportato «l'impiego di elevate somme assegnate al Gruppo». Non ci fu alcuna obiezione né interna, né esterna al partito.

Anche sulle altre «uscite» gli organismi che avrebbero dovuto verificare la congruità degli esborsi non hanno avuto nulla da dire. Eppure tra le «voci» c'erano cifre esorbitanti come controllare quella sulle «Riunioni, Convegni, Progetti, Incontri» costata 685.689,84 euro in appena dodici mesi e quella su «Indennità e rimborsi ai componenti per attività svolta a nome del Gruppo» da 647.547,03 euro. Così Fiorito giustificava le ulteriori spese: «È stato inoltre necessario per svolgere le varie attività acquistare attrezzature tecniche, messe a disposizione dei consiglieri, e coprire varie spese di informazione, locomozione e rappresentanza. Tali spese sono riportate dettagliatamente nello schema allegato». Un foglio che dava conto di un esborso totale pari a 3.110.326 euro a fronte di entrate pari a 2.735.502.
La trattativa con i pm. «Fiorito restituirà alla Regione i soldi che ha preso in più rispetto a quanto gli spettava», ripete il suo legale Carlo Taormina. La quantificazione non è stata ancora effettuata, ma nella relazione della Guardia di Finanza si parla di almeno 330 mila euro trasferiti in Spagna e lui si è impegnato pubblicamente a risarcirne almeno 400 mila.

Un'altra verifica riguarda gli immobili.
Nella relazione viene specificato l'elenco delle case che possiede a Roma - due di proprietà e due ottenute in affitto da enti di beneficienza - la villa che ha comprato al Circeo, ammettendo di aver versato 200 mila euro «in nero» e le tre case che ha a Tenerife, alle Canarie. E che sono tuttora gestite dalla compagna di suo padre, la donna alla quale ha intestato almeno tre dei bonifici esteri.

Fonte: corriere.it

25 set 2012

E Colosimo, ex cubista e capogruppo: «Mi ripresento, ormai è il mio lavoro»

Ciocchetti, uomo forte dell'Udc: qui guadagno, anzi guadagnavo solo 8.500 euro al mese
Ma «Batman» e «Ulisse»: Ricandidarci? Certo

ROMA - Arriva la notizia che Renata Polverini ha davvero deciso di dimettersi. Sta andando ad annunciarlo in conferenza stampa. È il momento di cercare gli altri indimenticabili protagonisti di questi giorni. I suoi consiglieri regionali che, con i nostri soldi, se la sono spassata alla grande.

Cosa faranno, adesso? Cosa pensano? Cosa dicono?
(Il telefonino di Carlo De Romanis, meglio conosciuto ormai come «Ulisse», quello che per ringraziare i suoi elettori e le sue elettrici di Roma Nord organizzò il festone in maschera sull'antica Grecia, con le ancelle che servivano champagne e gli amici pariolini con le teste di toro in cartapesta, è però un telefonino già staccato. Va bene, provare più tardi)

Ecco invece Chiara Colosimo, 26 anni, ex cubista del Gilda e nuova capogruppo del Pdl da nemmeno quattro giorni, succeduta a Francesco Battistoni, che a sua volta era succeduto a Francone Batman Fiorito (personaggi pazzeschi, su questa storia ci faranno un film, è sicuro).

Lunedì la Colosimo era finita di nuovo sui giornali per quella foto in cui è ritratta con alle spalle l'effigie di Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della «Guardia di ferro», movimento legionario rumeno degli anni Trenta, antisemita e ultra nazionalista.

Ti aspetti una ragazza mortificata, preoccupata, attenta alle parole: e invece, mettendo su un'aria furbetta, lascia intuire che sta già cercando di capire dove tirerà il nuovo vento della politica nel Lazio.

Ha intenzione di ricandidarsi?
«Embé... sì, per forza!».

Non è scontato.
«Come sarebbe a dire? È il mio lavoro, ormai!».

Certo, è il suo lavoro. E con chi si ricandiderà? Con il Pdl?
«Ah, boh! Sì, per ora con il Pdl...».
(Ma domani chissà, visto che il suo padrino politico è Fabio Rampelli, uno degli ex di An che sta progettando insieme a La Russa una scissione proprio dal Pdl).

Sono magnifici.
Batman esce dalla Procura di Viterbo e annuncia: «Aho'! Pure io me ricandido!». Il microfono trema nella mano della cronista di Viterbo Tv: scusi, non ho capito... «Me-ri-can-di-do! Capito? D'altra parte, perché nun dovrei? Nun so' mica un ladro, io!» (ricorderete: con i soldi del Pdl, quindi i nostri, non solo s'è comprato un Suv costato 88 mila euro, ma ci andava pure regolarmente in Costa Smeralda).

Ora il cellulare di De Romanis, 33 anni, ex portaborse di Antonio Tajani a Bruxelles, squilla libero.
«Ehm ehm!... Sì, sono io... ma con lei non dovrei proprio parlare, lo sa?».

Coraggio.
«Eh, coraggio... se lo viene a sapere il mio avvocato che sto parlando con lei, mi taglia la lingua...».

Una domanda, solo una.
«Mi avete linciato, con la storia del festone. Avete fantasticato e...».

No, aspetti: era lei quello vestito da Ulisse, no?
«Sì, certo che ero io!».

Ecco, appunto.
«Accidenti... lei mi sta fregando di nuovo... Io non dovrei parlare, capito?».

Una domanda: si ricandiderà?
«Intanto, dev'esserci qualcuno disposto a ricandidarmi... e poi comunque sì, se solo potessi parlare con lei, ma non lo sto facendo, perché il mio avvocato non vuole, solo potessi le direi di sì, certo che mi vorrei ricandidare.... è il mio lavoro, la politica, no?».

È (era?) il lavoro di tutti. Anche di Veronica Cappellaro, 31 anni, dai Parioli con sobrio giubbino jeans e polsini in visone, già sposata con il nipote di Donna Assunta Almirante e cugina dell'ex segretario personale del potente Denis Verdini: nel 2011 si sottopose, a spese dei cittadini, a una serie di ritratti fotografici (costo: 1.080 euro).

E adesso cosa ci farà, signora, con quelle foto ricordo?
«Mhmm...». Clic.
Un po' di nervosismo. Non è facile rinunciare a uno stipendio di 13 mila euro netti al mese.

«Ma che stai a dì, oh?» (questa è la voce ruvida di Luciano Ciocchetti, ex democristiano, gran capo dell'Udc laziale e vice-presidente del Consiglio regionale). «Io lasciai Montecitorio per venire qui: io guadagno, anzi guadagnavo solo 8.500 euro netti al mese, sia chiaro...».

Sono stanchi, hanno perso lucidità, qualcuno è commosso (come Mario Brozzi, ex medico della Roma e capogruppo della Lista Polverini), ormai è notte: ma, dicono, c'è Francesco Battistoni che già briga per diventare sindaco di Viterbo. «Me lo meriterei, diciamo la verità».

Fonte: corriere.it

24 set 2012

Al Senato i bilanci restano segreti. Bocciate le proposte per rendere pubblici e certificare i conti

ROMA - La prima diga è dunque stata abbattuta e non è stato facile. I gruppi parlamentari della Camera dovranno rendere pubblico il bilancio, che sarà certificato da un soggetto esterno. Per la prima volta sapremo come viene spesa anche questa fetta di finanziamento pubblico dei partiti. Ci si attende adesso il crollo della seconda diga. Quella del Senato. Che cosa farà la Camera alta? L'assemblea di Palazzo Madama si è sempre tenuta accuratamente alla larga da questo problema, del quale il suo attuale presidente, a differenza di Gianfranco Fini, ha esperienza diretta. Per otto anni Renato Schifani è stato infatti il capo del gruppo parlamentare di Forza Italia a Palazzo Madama. E negli ultimi tempi, da presidente dell'assemblea, non ha lesinato appelli alla trasparenza. «La politica» ha dichiarato pubblicamente il 26 maggio scorso alla festa della polizia a Padova, «deve saper ricomporre il divario con la gente e non soltanto a parole. Essere vicina agli italiani significa soltanto un verbo: fare presto e bene, uscendo dal tunnel nebuloso e mostrando di aver capito, di voler andare avanti nel pieno rispetto delle norme e della trasparenza».

Finora, però, nessuno è riuscito a fare breccia nel muro impenetrabile che copre i finanziamenti ai gruppi parlamentari del Senato. Il 3 agosto dello scorso anno, durante la discussione sul bilancio interno, sette senatori del Partito democratico fra i quali, oltre al tesoriere del gruppo Vidmer Mercatali c'era anche quello della Margherita Luigi Lusi finito poi nei guai giudiziari per la distrazione dei rimborsi elettorali del partito di Francesco Rutelli, presentarono un ordine del giorno che avrebbe condizionato l'erogazione dei contributi «alla presentazione del bilancio, alla sua certificazione in forme opportune e alla sua pubblicità sul sito internet del Senato». Respinto. Come bocciato fu pure un altro ordine del giorno analogo presentato dai dipietristi che mirava a obbligare i gruppi alla «rendicontazione annuale dei contributi loro assegnati» e alla «pubblicità di tale rendicontazione». Il primo agosto scorso, un ordine del giorno simile a questo, partorito sempre dall'Italia dei Valori, ha invece avuto il parere favorevole dei questori. Ma poi non è successo niente.

I bilanci sono così rimasti segreti. E non parliamo di pochi denari. Nel 2012 le previsioni assestate indicano una cifra superiore a quella pubblicata ieri dal Corriere. Si è arrivati a 38 milioni 350 mila euro, 750 mila euro in più rispetto al 2011. È una somma superiore anche a quella stanziata dalla Camera (quest'anno circa 35 milioni) ma perché a differenza di Montecitorio comprende anche 16,2 milioni destinati ai collaboratori, che a Palazzo Madama vengono assegnati ai gruppi. I soldi utilizzati per il funzionamento dei gruppi parlamentari del Senato ammontano così quest'anno a 22 milioni 150 mila euro, vale a dire 69 mila euro in media per ogni seggio, compresi i senatori a vita, contro i 55.550 euro della Camera.

Con quei denari si pagano per esempio i dipendenti. Ma anche, e qui sta uno degli aspetti forse di maggiore sensibilità, le indennità aggiuntive per i senatori che ricoprono cariche all'interno del gruppo: il presidente, i suoi vice, i componenti del direttivo e altri ancora. Senza un bilancio, siccome ogni formazione politica decide in autonomia il livello di questi bonus, non se ne possono conoscere pubblicamente le entità. Né sapere in quali forme queste indennità vengono erogate. E la cosa, trattandosi di fondi pubblici distribuiti a persone che ricoprono cariche elettive, è francamente curiosa. Di più. I gruppi parlamentari sono di fatto vere e proprie associazioni, assimilabili a quelle private non registrate. Per le quali, è vero, la pubblicazione del bilancio non è obbligatoria. C'è solo un piccolo particolare, sempre lo stesso: maneggiano soldi dei contribuenti. Il che rende ancora più impellente la necessità di far cadere il velo che finora non consente di sapere come quei gruppi impiegano i contributi. Soprattutto dopo quello che è saltato fuori al consiglio regionale del Lazio, dove con quei soldi non si pagavano soltanto i conti astronomici del ristorante o si acquistavano lussuose Bmw X5, ma c'era perfino chi ci comprava un quintale e mezzo di mozzarella di bufala, a giudicare dalle ricevute di un caseificio sulla via Casilina.

Ecco perché ora ci aspettiamo che dopo la Camera anche il Senato imponga la trasparenza dei bilanci dei gruppi parlamentari. Con la stessa regola del controllore esterno, per favore. Come dimostra il caso di Montecitorio, la storia che questo lederebbe l'autodichìa, cioè il principio di autonomia del Parlamento, non sta in piedi. La cosiddetta autodichìa riguarda l'istituzione, non associazioni private al suo interno. La dimostrazione? Spiegano gli esperti, che mentre le controversie fra i dipendenti del Parlamento e l'amministrazione delle due Camere viene regolata da organi interni, le cause fra il personale dei gruppi parlamentari e i gruppi stessi finiscono davanti al giudice ordinario. Più chiaro di così..

Fonte: corriere.it

22 set 2012

L'aperitivo da 1.450 euro di Francesco Battistoni.

Giunta Polverini; i fondi pubblici per pagare ristoranti e alberghi

La nota spese dell'ex capogruoppo del Pdl. L'agenda di Battistoni: 4 volte in aula al mese ma cene da 5 mila euro

ROMA - Chi vuol essere consigliere? Prima di rispondere è bene conoscere i dettagli di questa vita faticosissima che almeno alcuni tra i rappresentanti regionali del Lazio sembrano aver sopportato. Mica da tutti districarsi tra le cene al «Pepe Nero», i viaggi, gli alberghi. E poi gli «aperitivi rinforzati» alle Terme dei Papi, che anche quelli vanno organizzati, o comunque bisogna dare disposizioni a un collaboratore, non è semplice. Senza dimenticare il blog, ormai necessario a ogni politico, e poi le dichiarazioni da rilasciare. In pochi, ad esempio, saprebbero distillare verità preziose e indimenticabili per la collettività: «Gli obiettivi della commissione europea in ambito occupazionale sono ambiziosi e impegnativi» (Francesco Battistoni, nel novembre 2011, ne era così fiero da inserirla nel suo blog).

Chi vuol essere consigliere? Per avere un termine di paragone: chi potrebbe sopportare la vita fatta da Francesco Battistoni? Perso lo scranno da capogruppo, ora gli rimane la presidenza della commissione Agricoltura, le riunioni di quella della Sanità, e ovviamente tutti gli impegni legati al consiglio regionale che, in media, si riunisce una volta a settimana. Ma comunque l'ex capogruppo Pdl, successore di tanto Fiorito, adesso che non dovrà più badare alle richieste dei suoi colleghi consiglieri Pdl, sarà certamente sollevato dal veder diminuiti certi ritmi di lavoro. Si prenda, come esempio, il novembre 2011: il Consiglio si riunisce cinque volte (il 2, il 9, il 16, il 23 e il 30) e alla seduta del 2 lui è assente. Ma perché c'era il Pdl a Viterbo, la partita da giocare col rivale di zona per stabilire chi portasse il maggior numero di tessere, così lui dopo aver vinto (3.700 adesioni contro 3.500, raccontano i giornali locali) deve aver bruciato energie anche per scrivere il messaggio ai suoi: «Grazie». Di certo il tesseramento è un successo, migliaia di persone che, per lui, hanno scelto il Pdl: per via del suo impegno, della sua passione politica, certo. Coincidenza vuole che il giorno seguente, il 3, Battistoni inviti a cena - al Pepe Nero, localino vista lago di Bolsena - ottanta persone. Si può obiettare: ma il sito del locale non cita quaranta coperti? Avranno fatto i turni, come in fabbrica. Costi leggermente superiori a quelli della mensa, cinquemila euro. Comunque, nella vita del consigliere non c'è un attimo di respiro. Poco prima era stato a Tarquinia per affermare ciò che, forse, la platea aspettava di sentir dire chissà da quanto tempo: «Il vostro patrimonio culturale è un'immensa risorsa che dobbiamo valorizzare al meglio» (mette sul blog anche questa, casomai qualcuno l'avesse persa). Il 4 novembre Battistoni presenta, insieme con una decina di colleghi, la proposta di legge sulla «filiera corta» e poi, probabilmente stanco, prende una camera (la 928) all'Aldero Hotel, quattro stelle nella Tuscia Viterbese. La sera è al ristorante dell'albergo, sempre tutto da solo - dice la ricevuta - e alla fine spende 1.650 euro, bevande incluse.

Gli impegni si succedono, è impossibile citarli tutti: di certo mentre Silvio Berlusconi annuncia al Paese la sua intenzione di dimettersi dopo il ddl Stabilità, lo stesso giorno, l'8, nel Lazio arriva in commissione Agricoltura la proposta di legge sulla filiera corta. Subito dopo, il 10, ecco l'impegno per il distretto della ceramica di Civita Castellana: il consiglio approva la mozione 256 presentata, oltre che da Battistoni, da uno schieramento trasversale di consiglieri eletti nel viterbese. Una soluzione per il dramma di duemila persone in cassa integrazione? Insomma: «Il Consiglio sostiene la richiesta del Comune di Civita Castellana al Governo di riconoscere lo stato di crisi». Giusto il tempo di un'altra cenetta al Pepe Nero - sobria, 16 persone con spesa di 800 euro - e il 14 Battistoni è davanti allo stabilimento Brunelli di Aprilia per un sit in «al fianco di allevatori e pastori. L'obiettivo - annuncia - è quello di favorire il rilancio dei prodotti agroalimentari». Due giorni più tardi ottiene dal Pdl il pagamento di tredicimila euro a «Panta Cz pubblicità», per stampa e affissione di mille manifesti e così - tra sedute di partito, Consiglio e commissioni - il 25 organizza un incontro alle Terme dei Papi per un convegno-aperitivo con i militanti. Conto modesto, 1.450 euro, meno della metà di quanto pagato per la cena al ristorante «La Ripetta», 3.500 euro, del 31 dicembre. Anche se a leggere la ricevuta, sotto la data ce n'è un'altra: «Cena del 22 per auguri di Natale». Vale la pena ricordare che, ovviamente, tutte le spese sono state sostenute dal Pdl grazie ai fondi elargiti dalla Regione.
Un ultimo dato. Rivolgendosi agli elettori, in campagna elettorale, il consigliere usava spesso uno slogan: «Francesco Battistoni, come te».

Fonte: corriere.it

14 set 2012

Sedi e convegni: le folli spese del Lazio. Contributi pubblici più alti che alla Camera

Lo scorso anno il bilancio del Consiglio regionale invece di diminuire è aumentato di sei milioni, un aumento del 7%

ROMA - La targa sopra il portone dice: «Carlo Goldoni, padre immortale della italiana commedia, dimorò in questa casa». Se avesse saputo cosa sarebbe accaduto fra quelle mura due secoli e mezzo dopo, il celebre drammaturgo veneziano vi avrebbe magari ambientato un atto unico. Protagonista: il solito Pantalone. Perché chi paga la ristrutturazione di un appartamento signorile della Regione Lazio nello stabile di largo Goldoni 47 all'angolo con via dei Condotti, a Roma, è sempre lui. Cioè noi. I condomini, dopo aver sventato il tentativo di piazzare tappeto rosso e palmizi stile Sanremo all'ingresso dopo l'avvenuta trasformazione in elegante «ufficio del centro» dell'ex ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo di un secondo alloggio regionale nel palazzo, paventano che i lavori siano il preludio per l'apertura di un'altra sede di rappresentanza ancora. Stavolta, della governatrice Renata Polverini.

Fosse così, saremmo davvero alla commedia. Non soltanto perché quell'appartamento proviene da un antico lascito per opere di bene al Santo Spirito. Soprattutto perché a poca distanza, in via Poli, c'era già un ufficio «di rappresentanza» del consiglio regionale. Era stato affittato da Sergio Scarpellini, il proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato, al tempo della giunta di Francesco Storace e due anni fa si era deciso di rescindere il contratto: 320 mila euro l'anno. Una spesa demenziale, visto che il consiglio regionale del Lazio, come del resto la giunta, ha una più che confortevole sede a Roma. Chiudere quell'ufficio era il minimo. Peccato soltanto, lamenta Scarpellini nella causa civile intentata contro la decisione, che la rescissione sia avvenuta oltre i termini. E se il tribunale dovesse accogliere la tesi sarebbero dolori: 700 mila euro. Più la parcella del legale. Un avvocato esterno, ovvio.

Ma ce ne fossero di rogne così, con l'aria che tira oggi dalle parti della Pisana. La storia incredibile dei finanziamenti pubblici ai gruppi consiliari innescata dai Radicali con la meritoria pubblicazione sul loro sito internet del bilancio 2011, è ormai una palla sempre più grossa che rotola a valle. Inarrestabile e minacciosa, come dimostra l'inchiesta per peculato che si è abbattuta sull'ex capogruppo del Pdl Franco Fiorito. Ma non servivano certo le cravatte di Marinella, le cene a base di ostriche, le bottiglie di champagne, i servizi fotografici, i Suv, né le altre spese sfrontate che hanno inghiottito i lauti contributi al partito di Silvio Berlusconi e sulle quali ora indaga la magistratura, per capire che si era passato il segno. E non era nemmeno necessario guardare, come molti fanno oggi con ipocrita stupore, quella cifra rivelata dai radicali, il cui gruppo composto da due persone, Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, ha incassato nel solo 2011 ben 422 mila euro. Il quadruplo, in proporzione, dei soldi che la Camera dei deputati stanzia per i gruppi parlamentari.

Era sufficiente, diciamo la verità, controllare i bonifici che arrivavano di volta in volta sul conto corrente. Per questo fanno sorridere oggi tanto il decalogo sui tagli dei costi della politica proposto dal consigliere UdC Rodolfo Gigli quanto dichiarazioni come quelle del capogruppo del Pd Esterino Montino, che annuncia un tour de force per «ridurre le spese della giunta e del consiglio». Mentre alcune misure che avrebbero introdotto l'unico antidoto valido alla dissipazione di denaro pubblico, vale a dire la trasparenza, sono finite su un binario morto. È il caso della legge sull'anagrafe degli eletti e dei nominati, proposta sempre dai Radicali nel 2010 e arenata in qualche cassetto di qualche commissione.

Ai gruppi finiscono cifre inimmaginabili. Tanti soldi che non si sa nemmeno come spenderli. Basta dare un'occhiata ai due bilanci dei gruppi finora resi noti: oltre a quello dei Radicali, quello del Partito democratico. Il gruppo del Pd ha incassato nel 2011 la bellezza di 2 milioni 17.946 euro. Che divisi per i 14 componenti fa oltre 144 mila euro pro capite: quasi il triplo dei contribuiti erogati da Montecitorio. Inutile allora stupirsi che i democratici spendano 210.207 euro (!) per «riunioni, convegni, conferenze, incontri», 622.083 euro (!!) per i collaboratori e 738.863 euro (!!!) per «diffusione attività del gruppo, stampa manifesti». E nonostante questo ci sono ancora in cassa 304 mila euro.

Invece ai Radicali, che con i contributi al gruppo ci hanno pagato anche un convegno sui diritti civili a Tirana oltre ai congressi del partito a Chianciano e a Roma, sono avanzati 270 mila euro. Così da pensare che si possa ripetere la scena del ferragosto 1997, quando Marco Pannella in piazza del Campidoglio restituì i denari del finanziamento pubblico regalando 50 mila lire a chi mostrava un documento.

Tanti soldi, che contribuiscono ad alimentare una macchina completamente impazzita. Basta dire che nessuno sa dire con esattezza quanta gente gira intorno al consiglio regionale. Lo scorso anno i dipendenti ufficialmente presenti in quella struttura erano 786. I collaboratori dei gruppi, 180. Le persone addette alle segreterie dell'ufficio di presidenza, 87. Quelle delle segreterie delle commissioni, 71. Ma è niente in confronto alle poltrone che danno diritto a chi le occupa di incassare un'indennità aggiuntiva rispetto a una retribuzione base minima di 7.211 euro netti al mese. Sono un'ottantina, decisamente più numerose dei 70 consiglieri. Ci sono 17 gruppi consiliari, otto dei quali composti da una sola persona. Fra commissioni e giunte se ne contano 21. Le sole commissioni permanenti sono sedici: due più della Camera, che ha però 630 deputati. Alcune, a dir poco stravaganti. C'è per esempio la commissione Affari comunitari e internazionali, presieduta da Gilberto Casciani della Lista Polverini: nel 2012 si è riunita quattro volte. E poi la commissione Piccola impresa che fa il paio con la commissione Sviluppo economico. Oppure la commissione Lavori pubblici, più la commissione Urbanistica, più la commissione Ambiente. Quest'ultima, però, si occupa pure, chissà in base a quale criterio, della «cooperazione tra i popoli». Avete letto bene: «cooperazione tra i popoli».

Non rammentiamo più quante volte hanno promesso che le avrebbero ridotte. Ricordiamo invece bene le affermazioni rese dal presidente del consiglio Mario Abbruzzese il 22 dicembre 2011: «Quest'anno chiudiamo il bilancio con circa sei milioni di risparmi rispetto al 2010. Dà il senso della strada che abbiamo intrapreso». Il consuntivo dell'anno scorso, ancora non approvato, parla di impegni di spesa per 103 milioni 529.311 euro. Mezzo milione oltre le previsioni iniziali e ben sei milioni 772.701 euro in più nei confronti del 2010. L'aumento è del 7 per cento. Se questa è la strada...

Fonte: corriere.it

20 ago 2012

Regione Lazio: ai partiti soldi 4 volte più della Camera

Contributi ai gruppi consiliari: il confronto con Montecitorio. Numeri finora sconosciuti emersi grazie alla pubblicazione del bilancio sul sito Internet dei Radicali

ROMA - Da destra a sinistra non c'è chi non abbia invocato più trasparenza sui soldi pubblici destinati alla politica. Ma di passare ai fatti non se ne parla proprio. Se si eccettuano, naturalmente, alcune meritorie iniziative purtroppo isolate.

Qualche settimana fa il gruppo radicale al Consiglio regionale del Lazio presieduto dall'avvocato Giuseppe Rossodivita ha pubblicato sul sito internet il proprio bilancio. Un documento impressionante, che illumina un angolo del capitolo costi della politica finora tenuto accuratamente all'oscuro. Ovvero, i contributi che le Regioni erogano ai gruppi «consiliari».

Nel 2011 il Consiglio regionale del Lazio ha versato al gruppo radicale, composto da due persone, 422.128 euro. Dividendo a metà questa somma si può dedurre che ogni singolo consigliere abbia avuto lo scorso anno a disposizione 211.064 euro. Oltre, naturalmente, a stipendio, diaria, annessi e connessi. Un paragone con i contributi ai gruppi parlamentari della Camera rende bene l'idea delle dimensioni.

Nel 2011 sono stati pari a 36 milioni 250 mila euro, cifra che divisa per i 630 onorevoli dà 57.539 euro. Morale: i gruppi politici del Consiglio regionale del Lazio incassano contributi quasi quadrupli rispetto a quelli di Montecitorio. Proiettando i 211.064 euro procapite sulla platea dei 71 consiglieri, si ha la strabiliante somma di 15 milioni. Esattamente 14 milioni 985.544 euro. L'anno, e per una sola delle 20 Regioni italiane. Questo, almeno, dicono i numeri.

Anche quei denari, come i rimborsi elettorali, possono essere considerati parte integrante del finanziamento pubblico ai partiti. Ma con una differenza non da poco: la loro entità è pressoché sconosciuta. Intanto ci sono Consigli regionali che non pubblicano nemmeno il bilancio. Nel Lazio, poi, c'è l'abitudine delle cosiddette «manovre d'Aula». Che però, pur chiamandosi così, formalmente per «l'Aula» non passano affatto. Si tratta infatti di semplici delibere dell'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale adottate in momenti particolari. Per esempio a ridosso dell'approvazione di bilanci regionali particolarmente rognosi e dove bisogna evitare al massimo il rischio dei franchi tiratori.

In questa legislatura ne è già stata fatta una che stanzia 3 mila euro al mese procapite. E dato che i consiglieri sono 71, considerando anche la presidente Renata Polverini, quella «manovra d'Aula» ha determinato un introito annuale aggiuntivo per i gruppi «consiliari» di oltre due milioni e mezzo. Ma a che cosa servono quei soldi in più?

Il conguaglio è giustificato con l'esigenza di pagare altri collaboratori. In realtà quei denari possono venire utilizzati con discrezionalità assoluta. Anche perché i collaboratori sono l'unica cosa che davvero non manca. Il Consiglio regionale del Lazio, da questo punto di vista, non teme confronti. In un'assemblea di 71 componenti, i gruppi «consiliari» sono ben 17: cinque di questi sono stati costituiti durante la legislatura, grazie al fatto che esiste un limite minimo. È ammesso, cioè, anche un gruppo composto da una sola persona. Diciamo subito che è una pessima abitudine in voga in quasi tutte le Regioni. Tanto che di «monogruppi» se ne contano 75 in tutta Italia.

Soltanto nel Lazio ne esistono ben otto: e sorvoliamo sulla definizione grottesca di uno di essi, il «gruppo misto» presieduto e composto dall'unico consigliere Antonio Paris. Il presidente di se stesso ha diritto a una indennità aggiuntiva di 891 euro netti mensili, e in quanto titolare di un «gruppo», può avvalersi di alcuni collaboratori. Sette, per l'esattezza: due laureati, due diplomati, una segretaria, un addetto stampa e un responsabile della struttura. Ma per i «gruppi» più numerosi si può arrivare fino a 24 dipendenti. Secondo le tabelle, il numero dei collaboratori dei politici nel consiglio regionale del Lazio potrebbero arrivare a 201.

Sarà questa l'impellente motivazione per cui la superficie della sede di via della Pisana ha bisogno di un ulteriore rilevante espansione? Lo prevede un bando da poco pubblicato sul sito internet del Consiglio, nel quale si spiega che «l'ampliamento consta nella realizzazione di n. 2 palazzine definite da tre livelli fuori terra più un piano interrato e un corpo centrale». Base d'asta, 8 milioni 259.750 euro e 49 centesimi. Iva esclusa. Questo per la serie: «riduzione dei costi della politica».

Fonte: corriere.it

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