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28 nov 2011
L'aiuto del Sismi e anche un rogo. Una microspia svela i piani di don Verzè
Registrato anche un colloquio con l'ex capo dei Servizi Pollari: «quello non vende, manda la Finanza»
MILANO - È dicembre 2005 e don Luigi Verzè, il gran capo dell'ospedale San Raffaele, ha le microspie nel suo ufficio. Non sa che un'inchiesta della magistratura sta legalmente violando la sua privacy. Non si era mai saputo finora.
Non lo sa mentre parla con Nicolò Pollari, l'allora direttore dei servizi segreti militari (Sismi), delle difficoltà politiche dell'amico comune Silvio Berlusconi, della scalata alla Bnl e dei controlli fatti su Stefano Ricucci a favore di Sergio Billè. È ignaro, don Verzè, che qualcuno lo sta ascoltando quando accoglie Cesare Geronzi per parlare di politica o quando risponde alla telefonata dell'«eminenza» vaticana che gli chiede un favore. Con Mario Cal, il manager suicida, conversa di una «grana» giuridica da sistemare con Roberto Formigoni e la Regione Lombardia. E certo il prete che si ispira a San Matteo apostolo («Guarite gli infermi») non immagina che le cimici elettroniche stiano captando il suo piano diabolico per fiaccare la resistenza di un vicino che non intende liberare un terreno.
I BROGLIACCI SEPOLTI - L'inchiesta in corso dovrebbe essere un rivolo di quella sulla maga Ester Barbaglia per presunto riciclaggio (accusa poi rivelatasi infondata) del denaro del clan calabrese dei Morabito. La Barbaglia alla fine del 2004 aveva creato, nello studio di Enrico Chiodi Daelli, notaio storico del San Raffaele, una Fondazione con un patrimonio di 28 milioni destinato alla Fondazione Monte Tabor di don Verzè. È il nesso, probabilmente, alla base delle intercettazioni. Le indagini, però, hanno subito escluso qualsiasi ipotesi a carico del fondatore del polo sanitario milanese. Tant'è che è rimasto sepolto per anni il fascicolo con centinaia di pagine di brogliaccio, cioè il riassunto di conversazioni captate nell'ufficio di don Verzé tra dicembre 2005 e settembre 2006. Molti i «buchi» per i guasti alle apparecchiature e le difficoltà di ricezione. Alla fine non sono molte le conversazioni «rilevanti».
LA FINANZA AL CAMPO DI CALCETTO - È il 13 gennaio 2006 alle 11,32 del mattino quando nell'ufficio di presidenza del San Raffaele «entra l'ing. Roma (capo dell'ufficio tecnico, ndr) al quale don Verzè - riassume l'operatore delle Fiamme Gialle all'ascolto - anticipa che farà venire la Guardia di Finanza per fare i verbali a coloro che giocano a calcio presso gli impianti sportivi vicini al San Raffaele che lo stesso don Verzè vuole acquisire ma che uno dei titolari, tale Lomazzi, non vuole cedere».
I Lomazzi, secondo le informazioni raccolte dal Corriere , avevano un regolare contratto d'affitto (scadenza 2008) su quei terreni del San Raffaele. Ci avevano investito costruendo campi da tennis, calcio e calcetto, spogliatoi ecc. Nel 2005 e nell'inverno 2006 hanno anche subìto due incendi dolosi con blocco dell'attività e danni notevoli. Sembravano avvertimenti. Carabinieri e polizia fecero indagini, senza risultato.
«L'ing. Roma - prosegue il sunto della conversazione intercettata - dice che i finanzieri dovranno chiedere la ricevuta ai giocatori, ricevuta che non avranno perché pagano tutti in nero e così la Finanza inizierà a fare le multe sia ai giocatori sia a Lomazzi ...». Don Verzè non si scompone, tutt'altro, «chiede a che ora dovrebbe mandare la Finanza e l'ing. Roma risponde dalle 21 circa». Non risulta però che un sacerdote abbia titolo per «mandare la Finanza». Dunque?
UN «PIACERINO» DAL SISMI - Passa un'oretta ed «entra in studio tale dott. Pollari». Cioè Nicolò Pollari, generale della Guardia di Finanza, in quel momento anche direttore del Sismi, i servizi segreti militari, finito sotto processo per il sequestro di Abu Omar e attività di «dossieraggio», oggi consigliere di Stato. Da poco Pollari, come ha documentato Il Fatto, aveva acquistato una villa a Roma dal San Raffaele pagandola (500 mila euro) la metà dei soldi sborsati anni prima da don Verzè.
Parlano di politica e a proposito di Berlusconi (in quel momento capo di un governo agli sgoccioli) «Pollari confida a don Verzè che sono momenti difficilissimi», che «lui è preso da molti problemi e la misura della sua buona fede io la valuto ... prima di tutto perché gli voglio bene». «Don Verzè dice: "È travolto dal suo entusiasmo ... lui adesso purtroppo si è lasciato andare ..un pochettino eh eh ... per correttezza morale... però tiene molto alla famiglia". Pollari: "Sì qualche giro di valzer" ...».
La conversazione scivola sulle scalate bancarie, tema caldissimo in quell'inizio 2006. I due parlano di Sergio Billè, ex presidente della Confcommercio. «È un amico - dice il capo del Sismi - sto cercando di difenderlo in tutti i modi ... la storia di Ricucci... posso dirti la verità... Billè è stato informato... puntualmente sulla vicenda di Ricucci almeno da un anno e mezzo». Dossier Ricucci pro Billè, par di capire. Mezz'ora di chiacchiere e poi don Verzè va al punto: «Chiede un aiuto a Pollari per mandare la Gdf da Lomazzi in modo che lo stesso Lomazzi possa cedere una parte del terreno per costruire un residence per studenti. Poi si salutano e Pollari dice che si interverrà su Letta per il finanziamento sulla ricerca ...».
IL BASTONE E IL VANGELO - Temi alti. Poi terra terra. Il sacerdote nato nel 1920 da un latifondista e da una nobildonna veneta, ex segretario del Santo don Giovani Calabria e prediletto del Beato Cardinale Ildefonso Schuster, vuole cacciare il Lomazzi, quello del centro sportivo. «Don Verzè - rilevano le microspie - dice (all'ingegner Roma, ndr) di fare un sabotaggio e di stare attento ai cavalli e all'asilo», che sono del San Raffaele.
«L'ing. Roma specifica di aver individuato il generatore... sarà sabotato il quadro elettrico ... quindi i campi non potranno essere illuminati e quando gli amici dell'ing. Roma andranno da Lomazzi a fargli la proposta di acquisto (per conto del San Raffaele) "sarà in ginocchio..."».
Qualche giorno dopo l'ingegner Roma bussa alla presidenza. I microfoni nascosti afferrano la conversazione, così riassunta: «Roma dice a don Verzè che quando lui sarà in Brasile ci sarà del fuoco, facendo riferimento ai fili del quadro elettrico degli impianti sportivi di Lomazzi che verranno liquefatti».
Metodo don Verzè: il bastone e il vangelo.
Fonte: corriere.it
19 lug 2011
Al San Raffaele finita l'era don Verzé. I poteri al Vaticano
Profiti alla guida con Enrico Bondi
MILANO - Con quasi un miliardo di debiti finisce l’era di per il San Raffaele di Milano. Tutti i poteri sono stati conferiti a Giuseppe Profiti, presidente dell’ospedale Bambin Gesù di Roma e uomo di fiducia del cardinale Bertone. Come super consulente per il risanamento arriva, invece, il grande esperto Enrico Bondi, che oltre a Parmalat, appena conclusa, vanta in carriera operazioni come Montedison e Lucchini.
E alla fine la svolta storica all'ospedale San Raffaele è arrivata, don Luigi Verzé rinuncia a tutti i poteri. Le redini del colosso sanitario da ieri le tiene in mano la Santa Sede. Le deleghe operative vanno a Giuseppe Profiti, presidente del Bambin Gesù e uomo di fiducia del cardinale Tarcisio Bertone. Come super consulente per il risanamento è stato chiamato, invece, Enrico Bondi. Via libera anche alla cordata guidata dall'Università Vita Salute, con i finanziamenti di una charity internazionale.
Così, sotto i colpi di quasi un miliardo di debiti, finisce l'era di don Luigi Verzé, il prete manager che in 42 anni di sfide ha creato un polo di ricerca e cura, nonché una galassia di business paralleli con jet, hotel, coltivazioni di mango e meloni in Brasile. Il nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, che guida il gruppo ospedaliero, è durato quattro ore: oltre a Profiti (vicepresidente operativo), hanno debuttato ufficialmente in rappresentanza della Santa Sede, il presidente dello Ior (la banca vaticana) Ettore Gotti Tedeschi, il giurista ex ministro Giovanni Maria Flick, l'imprenditore Vittorio Malacalza. Confermati i consiglieri di amministrazione della charity internazionale, Massimo Clementi (Università Vita e Salute del San Raffaele) e Maurizio Pini (Bocconi).
In gioco non c'è solo il salvataggio del San Raffaele: quello di ieri virtualmente è anche il primo passo per la nascita di un mega polo sanitario cattolico tra l'ospedale di Milano, il Bambin Gesù e il Gemelli di Roma e l'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo. Un progetto importante che ha convinto don Verzé a fare un passo indietro, anche se formalmente rimane presidente. «Con l'espressa volontà del presidente sac. prof. Luigi Maria Verzé, il consiglio di amministrazione ha deliberato il conferimento al consiglio stesso di tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione - si legge nel comunicato di ieri del San Raffaele -. Il presidente ha delegato al vicepresidente prof. Giuseppe Profiti e al consiglio tutti i poteri, rinunciando all'esercizio degli stessi».
Tra i primi obiettivi dichiarati dal nuovo cda, quello di operare una ricognizione precisa della situazione aziendale e contabile della Fondazione Monte Tabor. Di qui il compito affidato al super advisor Enrico Bondi, chiamato con ogni probabilità dallo stesso presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, per mettere a punto un piano di risanamento. Rinviate le due decisioni clou. Appare rimandata, almeno per il momento, la richiesta di concordato preventivo di continuità. È l'accordo in Tribunale con i fornitori, previsto dal piano dell'advisor Arnaldo Borghesi, ma che per ora sembra congelato. Il tempo, in ogni caso, stringe: i decreti ingiuntivi dei fornitori non pagati incombono. Slittata, per adesso, anche la nascita della newco dove dovrebbero confluire i finanziamenti necessari a saldare i debiti (almeno 200/250 milioni di euro) più urgenti. «Il consiglio di amministrazione è fiducioso di avere il tempo e di essere in grado di portare avanti con serenità l'attività di risanamento al fine di salvaguardare le risorse umane impegnate nell'Opera San Raffaele e gli interessi di tutti gli interlocutori coinvolti nell'attuale crisi - si legge nel comunicato -. È altresì convinto che il San Raffaele continuerà ad esercitare il ruolo internazionalmente riconosciutogli nelle attività di clinica e di ricerca».
Soddisfazione dal mondo scientifico del San Raffaele che aveva fatto quadrato intorno al progetto Vaticano-charity internazionale. Del resto, il risultato raggiunto è anche frutto dei mesi di lavoro dello stesso Massimo Clementi (preside della facoltà di Medicina) e di Alberto Zangrillo, alla guida del dipartimento di Anestesia e Rianimazione, nonché medico personale del premier. Uno strenuo lavoro di contatti e diplomazia che segna l'inizio di una nuova epoca per il San Raffaele.
Fonte: corriere.it
MILANO - Con quasi un miliardo di debiti finisce l’era di per il San Raffaele di Milano. Tutti i poteri sono stati conferiti a Giuseppe Profiti, presidente dell’ospedale Bambin Gesù di Roma e uomo di fiducia del cardinale Bertone. Come super consulente per il risanamento arriva, invece, il grande esperto Enrico Bondi, che oltre a Parmalat, appena conclusa, vanta in carriera operazioni come Montedison e Lucchini.
E alla fine la svolta storica all'ospedale San Raffaele è arrivata, don Luigi Verzé rinuncia a tutti i poteri. Le redini del colosso sanitario da ieri le tiene in mano la Santa Sede. Le deleghe operative vanno a Giuseppe Profiti, presidente del Bambin Gesù e uomo di fiducia del cardinale Tarcisio Bertone. Come super consulente per il risanamento è stato chiamato, invece, Enrico Bondi. Via libera anche alla cordata guidata dall'Università Vita Salute, con i finanziamenti di una charity internazionale.
Così, sotto i colpi di quasi un miliardo di debiti, finisce l'era di don Luigi Verzé, il prete manager che in 42 anni di sfide ha creato un polo di ricerca e cura, nonché una galassia di business paralleli con jet, hotel, coltivazioni di mango e meloni in Brasile. Il nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, che guida il gruppo ospedaliero, è durato quattro ore: oltre a Profiti (vicepresidente operativo), hanno debuttato ufficialmente in rappresentanza della Santa Sede, il presidente dello Ior (la banca vaticana) Ettore Gotti Tedeschi, il giurista ex ministro Giovanni Maria Flick, l'imprenditore Vittorio Malacalza. Confermati i consiglieri di amministrazione della charity internazionale, Massimo Clementi (Università Vita e Salute del San Raffaele) e Maurizio Pini (Bocconi).
In gioco non c'è solo il salvataggio del San Raffaele: quello di ieri virtualmente è anche il primo passo per la nascita di un mega polo sanitario cattolico tra l'ospedale di Milano, il Bambin Gesù e il Gemelli di Roma e l'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo. Un progetto importante che ha convinto don Verzé a fare un passo indietro, anche se formalmente rimane presidente. «Con l'espressa volontà del presidente sac. prof. Luigi Maria Verzé, il consiglio di amministrazione ha deliberato il conferimento al consiglio stesso di tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione - si legge nel comunicato di ieri del San Raffaele -. Il presidente ha delegato al vicepresidente prof. Giuseppe Profiti e al consiglio tutti i poteri, rinunciando all'esercizio degli stessi».
Tra i primi obiettivi dichiarati dal nuovo cda, quello di operare una ricognizione precisa della situazione aziendale e contabile della Fondazione Monte Tabor. Di qui il compito affidato al super advisor Enrico Bondi, chiamato con ogni probabilità dallo stesso presidente dello Ior, Gotti Tedeschi, per mettere a punto un piano di risanamento. Rinviate le due decisioni clou. Appare rimandata, almeno per il momento, la richiesta di concordato preventivo di continuità. È l'accordo in Tribunale con i fornitori, previsto dal piano dell'advisor Arnaldo Borghesi, ma che per ora sembra congelato. Il tempo, in ogni caso, stringe: i decreti ingiuntivi dei fornitori non pagati incombono. Slittata, per adesso, anche la nascita della newco dove dovrebbero confluire i finanziamenti necessari a saldare i debiti (almeno 200/250 milioni di euro) più urgenti. «Il consiglio di amministrazione è fiducioso di avere il tempo e di essere in grado di portare avanti con serenità l'attività di risanamento al fine di salvaguardare le risorse umane impegnate nell'Opera San Raffaele e gli interessi di tutti gli interlocutori coinvolti nell'attuale crisi - si legge nel comunicato -. È altresì convinto che il San Raffaele continuerà ad esercitare il ruolo internazionalmente riconosciutogli nelle attività di clinica e di ricerca».
Soddisfazione dal mondo scientifico del San Raffaele che aveva fatto quadrato intorno al progetto Vaticano-charity internazionale. Del resto, il risultato raggiunto è anche frutto dei mesi di lavoro dello stesso Massimo Clementi (preside della facoltà di Medicina) e di Alberto Zangrillo, alla guida del dipartimento di Anestesia e Rianimazione, nonché medico personale del premier. Uno strenuo lavoro di contatti e diplomazia che segna l'inizio di una nuova epoca per il San Raffaele.
Fonte: corriere.it
18 giu 2011
«Sesso in cambio di lavoro» L'imbarazzo dell'Idv
Bari, inchiesta su Pedica e Zazzera. Di Pietro: di questo non parlo
ROMA - «Se parliamo di politica sono a disposizione. Ma di questo no, piuttosto chiedete ai diretti interessati. Arrivederci». Clic. È infastidito e imbarazzato Antonio Di Pietro dal caso scoppiato all'interno del suo partito. Due parlamentari dell'Italia dei valori, Stefano Pedica e Pierfelice Zazzera, sono stati denunciati da Michele Cagnazzo, ex dipietrista che però ha lasciato il partito un anno fa. E l'accusa - raccontata sulle pagine dell'Espresso - è di aver promesso un posto in un ufficio del Parlamento in cambio di «favori sessuali» a C. M., 31 anni, simpatizzante dell'Italia dei valori, laureata in legge e disoccupata. La denuncia è stata presentata alla Procura di Bari il 14 giugno, solo pochi giorni fa, e quindi l'inchiesta è ancora ai primi passi. Ma nel partito il caso ha già fatto parecchio rumore.
I fatti risalirebbero al periodo tra il 2008 e il 2009. All'epoca Cagnazzo era responsabile per l'Idv dell'Osservatorio pugliese sulla legalità. Nella denuncia sostiene di aver incontrato la donna nel suo ufficio di Bari nell'aprile del 2010. E che lei le avrebbe raccontato per filo e per segno le «richieste pressanti» che le avrebbero fatto i due parlamentari in cambio della promessa di un lavoro nell'ufficio legislativo della Camera. Nella denuncia si parla di «insistenti avances e ricatti», di incontri che sarebbero avvenuti in due hotel pugliesi, a Massafra e Brindisi.
Ma, nonostante le promesse, quel posto di lavoro non è mai arrivato, e ad un certo punto i rapporti tra i due parlamentari e C. M. si sarebbero interrotti. Con un colpo di scena finale, perché alle regionali del 2010, racconta sempre Cagnazzo, la donna avrebbe scoperto di essere tra i candidati dell'Idv in Puglia. Una «grande sorpresa» visto che lei «non aveva mai proposto né tantomeno accettato la candidatura». Un racconto tutto da dimostrare, naturalmente. Ma che ha sollevato un polverone.
Zazzera, uno degli accusati, attacca l'accusatore: «Con Cagnazzo la situazione si è rotta sul piano personale perché, nell'organizzare un incontro sulla legalità, aveva truffato al partito 1.500 euro. Quando me ne sono accorto ho aperto la procedura per mandarlo via dall'Italia dei valori». Una vendetta, insomma, organizzata da chi era stato messo alla porta. Non sarebbe la prima volta in un partito dove gli addii sono stati spesso seguiti da una coda velenosa. Ma Cagnazzo replica che «sono tutte balle». E aggiunge: «Non è per le poltrone che ho deciso di rendere pubblica questa storia ma perché ho visto il dolore di questa ragazza e non potevo starmene zitto».
L'altro accusato, Pedica, dice che «stanno cercando di screditare me e il partito». E promette che raccoglierà «tutto il materiale necessario a dimostrare la mia assoluta estraneità ai fatti». Dalla donna, in effetti, non è arrivata una denuncia contro i due parlamentari dell'Idv. Anche se Libero racconta la storia di una donna che nel novembre del 2008, cioè prima di quei fatti, ha presentato una querela contro ignoti per mobbing allegando l'indirizzo del sito web proprio di Pedica. La donna si chiama Monia Lustri ed ha 35 anni. Con il caso di C.M. non coincidono né le iniziali, né l'età e nemmeno il periodo in cui sarebbero avvenuti i fatti denunciati da Cagnazzo. Con ogni probabilità si tratta di due persone e due vicende diverse.
Dal partito, Pedica e Zazzera vengono difesi senza se e senza ma da Leoluca Orlando: «Quelle contro i due parlamentari dell'Idv sono accuse così gravi che c'è una denuncia penale per diffamazione. Ma noi non ce la prendiamo con i giornalisti, non è nostro costume intimorire la stampa».
Fonte: corriere.it
ROMA - «Se parliamo di politica sono a disposizione. Ma di questo no, piuttosto chiedete ai diretti interessati. Arrivederci». Clic. È infastidito e imbarazzato Antonio Di Pietro dal caso scoppiato all'interno del suo partito. Due parlamentari dell'Italia dei valori, Stefano Pedica e Pierfelice Zazzera, sono stati denunciati da Michele Cagnazzo, ex dipietrista che però ha lasciato il partito un anno fa. E l'accusa - raccontata sulle pagine dell'Espresso - è di aver promesso un posto in un ufficio del Parlamento in cambio di «favori sessuali» a C. M., 31 anni, simpatizzante dell'Italia dei valori, laureata in legge e disoccupata. La denuncia è stata presentata alla Procura di Bari il 14 giugno, solo pochi giorni fa, e quindi l'inchiesta è ancora ai primi passi. Ma nel partito il caso ha già fatto parecchio rumore.
I fatti risalirebbero al periodo tra il 2008 e il 2009. All'epoca Cagnazzo era responsabile per l'Idv dell'Osservatorio pugliese sulla legalità. Nella denuncia sostiene di aver incontrato la donna nel suo ufficio di Bari nell'aprile del 2010. E che lei le avrebbe raccontato per filo e per segno le «richieste pressanti» che le avrebbero fatto i due parlamentari in cambio della promessa di un lavoro nell'ufficio legislativo della Camera. Nella denuncia si parla di «insistenti avances e ricatti», di incontri che sarebbero avvenuti in due hotel pugliesi, a Massafra e Brindisi.
Ma, nonostante le promesse, quel posto di lavoro non è mai arrivato, e ad un certo punto i rapporti tra i due parlamentari e C. M. si sarebbero interrotti. Con un colpo di scena finale, perché alle regionali del 2010, racconta sempre Cagnazzo, la donna avrebbe scoperto di essere tra i candidati dell'Idv in Puglia. Una «grande sorpresa» visto che lei «non aveva mai proposto né tantomeno accettato la candidatura». Un racconto tutto da dimostrare, naturalmente. Ma che ha sollevato un polverone.
Zazzera, uno degli accusati, attacca l'accusatore: «Con Cagnazzo la situazione si è rotta sul piano personale perché, nell'organizzare un incontro sulla legalità, aveva truffato al partito 1.500 euro. Quando me ne sono accorto ho aperto la procedura per mandarlo via dall'Italia dei valori». Una vendetta, insomma, organizzata da chi era stato messo alla porta. Non sarebbe la prima volta in un partito dove gli addii sono stati spesso seguiti da una coda velenosa. Ma Cagnazzo replica che «sono tutte balle». E aggiunge: «Non è per le poltrone che ho deciso di rendere pubblica questa storia ma perché ho visto il dolore di questa ragazza e non potevo starmene zitto».
L'altro accusato, Pedica, dice che «stanno cercando di screditare me e il partito». E promette che raccoglierà «tutto il materiale necessario a dimostrare la mia assoluta estraneità ai fatti». Dalla donna, in effetti, non è arrivata una denuncia contro i due parlamentari dell'Idv. Anche se Libero racconta la storia di una donna che nel novembre del 2008, cioè prima di quei fatti, ha presentato una querela contro ignoti per mobbing allegando l'indirizzo del sito web proprio di Pedica. La donna si chiama Monia Lustri ed ha 35 anni. Con il caso di C.M. non coincidono né le iniziali, né l'età e nemmeno il periodo in cui sarebbero avvenuti i fatti denunciati da Cagnazzo. Con ogni probabilità si tratta di due persone e due vicende diverse.
Dal partito, Pedica e Zazzera vengono difesi senza se e senza ma da Leoluca Orlando: «Quelle contro i due parlamentari dell'Idv sono accuse così gravi che c'è una denuncia penale per diffamazione. Ma noi non ce la prendiamo con i giornalisti, non è nostro costume intimorire la stampa».
Fonte: corriere.it
20 feb 2011
La buonuscita di Irene Khan che agita Amnesty: 500 mila sterline di buonuscita
La Khan, ex segretario generale dell'associazione, e le 500 mila sterline pagatele nel dicembre 2009
MILANO - Amnesty International è finita nella bufera per la buonuscita a cinque zeri pagata al segretario generale dell’associazione, Irene Khan. Quando, infatti, la donna, originaria del Bangladesh e fervida sostenitrice di numerose campagne contro la povertà, ha lasciato il proprio incarico nel dicembre del 2009, se n’è andata con 500 mila sterline in più sul conto in banca: ovvero, oltre quattro volte il suo stipendio annuale, che ammontava a 132.490 sterline. Cifre a dir poco esagerate e che gettano più di un’ombra sulla gestione patrimoniale del gruppo negli ultimi anni.
MILANO - Amnesty International è finita nella bufera per la buonuscita a cinque zeri pagata al segretario generale dell’associazione, Irene Khan. Quando, infatti, la donna, originaria del Bangladesh e fervida sostenitrice di numerose campagne contro la povertà, ha lasciato il proprio incarico nel dicembre del 2009, se n’è andata con 500 mila sterline in più sul conto in banca: ovvero, oltre quattro volte il suo stipendio annuale, che ammontava a 132.490 sterline. Cifre a dir poco esagerate e che gettano più di un’ombra sulla gestione patrimoniale del gruppo negli ultimi anni.
31 ago 2010
La fabbrica delle cattedre al Sud con i «furbetti del sostegnino». In quindici anni i docenti per i ragazzi con difficoltà sono triplicati
«Vogliamo più disabili!». L’invocazione surreale che spinse un gruppo di precari ad assediare il Provveditorato di Caserta chiedendo un aumento degli insegnanti di sostegno appare esaudita: la crescita dei portatori di handicap è dieci volte superiore a quella degli studenti. Una notizia da brividi se non ci fosse un sospetto. Che l’impennata sia dovuta alla scoperta da parte di chi aspira alla cattedra di un’equazione: più handicappati, più assunzioni. Soprattutto nel Mezzogiorno.
La clamorosa denuncia è contenuta in un dossier di Tuttoscuola. «Nell'anno scolastico 2009-10 gli alunni disabili inseriti nelle scuole statali di ogni ordine e grado hanno superato le 181 mila unità (il 2,3% della popolazione studentesca), con un incremento di oltre 5 mila rispetto all'anno precedente», scrive la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra. Peggio: «Negli ultimi cinque anni sono aumentati del 12,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione scolastica aumentava dell'1,2». Un decimo. Sgomberiamo subito il campo: quello dei portatori di handicap, come dimostra tra gli altri il libro di Matteo Schianchi La terza nazione del mondo — I disabili tra pregiudizio e realtà, è un tema serissimo. Che toglie il sonno ai genitori dei ragazzi affetti da qualche disabilità, costretti ad affrontare il percorso scolastico troppo spesso senza un'assistenza adeguata. Il sito Internet di riferimento della Fish, la federazione italiana per il superamento degli handicap, www.superando.it, segnala a ripetizione casi di seria difficoltà. Certo, grazie a Dio è cambiato tutto rispetto a quando i nostri nonni erano malvisti al loro ingresso negli Stati Uniti perché provenienti da una nazione a rischio con una mortalità infantile così alta che l'età media dei morti negli ultimi decenni dell'Ottocento era di sei anni e mezzo e Regina Armstrong scriveva su Leslie's Illustrated nel 1901 che «c'è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati». È cambiato tutto, ma il problema c'è.
Proprio perché il problema esiste, però, suona offensivo il modo in cui alcuni ne approfittano. Come accadde tempo fa ad Agrigento, dove il Circolo della legalità mandò una lettera al ministero sottoscritta da 550 addetti e un esposto alla Finanza per denunciare l'abuso della legge 104. Legge che, a tutela dei dipendenti che abbiano invalidità superiori a un certo limite o debbano farsi carico di un parente disabile, dice che hanno la precedenza in graduatoria per avere un posto più vicino a casa. Norma giusta. Ma utilizzata, stando alla denuncia, da troppi furbi: «Praticamente il 100% dei posti nelle "materne" è stato assegnato negli ultimi tempi grazie alla legge 104. C'è una dilagante e prepotente disonestà che coinvolge non solo chi usufruisce dei benefici della Legge, ma anche chi consente queste pratiche fraudolente». Di più: «Il sistema sta dilagando». Dice oggi il dossier Tuttoscuola che «nel 1995-96, con una popolazione scolastica complessiva superiore a quella attuale, gli alunni con disabilità erano 108 mila. In quindici anni sono aumentati di quasi il 70%. I docenti di sostegno, che in quell'anno erano 35 mila, sono diventati ora più di 90 mila». Quasi il triplo: «Allora vi era un docente di sostegno ogni tre alunni disabili; oggi c'è un docente ogni due». Sia chiaro: è bene che i ragazzi più sfortunati vengano aiutati. E sotto questo profilo la legge italiana è migliore di tante altre al mondo. E lo riconosce anche la rivista di Vinciguerra: «È cresciuto molto negli ultimi 10-15 anni lo sforzo dello Stato verso un settore che sotto molti aspetti rappresenta un fiore all'occhiello» della nostra scuola.
Ormai «l'Italia investe circa 3 miliardi di euro l'anno solo per il personale di sostegno». E quell'esercito di 90 mila insegnanti specializzati è maggiore più di tutti gli psicologi (70 mila) e i pediatri (14 mila) messi insieme. Che ci sia qualcosa che non va lo dice la mappa, da cui emergono squilibri sorprendenti»: «Ci sono più studenti disabili al Centro e nel Nord Ovest, ma lo Stato destina gli insegnanti di sostegno (a tempo indeterminato o precari) soprattutto al Sud e nelle Isole. E tra questi offre posti stabili (immissioni in ruolo a tempo indeterminato) molto di più proprio al Sud e nelle Isole che nel resto del Paese: il 52% dei posti fissi sono assegnati infatti nel Meridione». Dove vive circa il 27% degli italiani e dove risultano (sulla carta) il 40% degli alunni bisognosi di un appoggio. Dice la legge che ogni 100 insegnanti di sostegno 70 devono essere stabili ma questa percentuale sale all'89% in Campania e in Sardegna e crolla al 56% in Lombardia e in Veneto, si impenna al 91% in Basilicata e precipita al 55% in Emilia Romagna. Perché differenze così abissali? Tuttoscuola risponde che dipende «probabilmente in buona misura dai diversi criteri utilizzati dalle Asl per la valutazione delle disabilità» e questo nonostante «la legge richieda l'utilizzo dei parametri internazionali dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità: e non a caso la manovra finanziaria di inizio estate ha introdotto la responsabilità per danno erariale da parte dei medici preposti». Quanto al «numero di docenti di sostegno e, tra questi, di quanti sono assunti stabilmente, si tratta di decisioni prese dal Ministero dell'istruzione».
Di più: la sproporzione negli ultimi anni «si è accentuata». Esclusa l'ipotesi che Maria Stella Gelmini abbia un occhio bonario per le clientele meridionali, con le quali ha bisticciato spesso, la spiegazione è una sola: c'è qualcuno negli uffici assai disponibile a fare piacerini agli amici e agli amici degli amici. C'è chi dirà che anche qui si tratta di un «risarcimento» al Mezzogiorno, come lo chiamava Mastella. Ma che c'entra il riscatto del Sud coi «furbetti del sostegnino»? Spiega il dossier che il posto d'insegnante di sostegno è in realtà una scorciatoia, tanto più in questi tempi di magra e di riduzione del personale, per la conquista della cattedra a vita. Basti dire che «dei 10 mila posti di docente per le nuove immissioni in ruolo 2010-11, più della metà (5.022) sono per posti di sostegno». Posti che dopo 5 anni, una volta guadagnata l'assunzione, si possono abbandonare per «passare all'insegnamento tradizionale». Ma come si diventa insegnanti di sostegno? Penserete: chissà quanti studi! No: basta frequentare «un semestre aggiuntivo all'università, per 400 ore totali. E non sempre la preparazione è all'altezza: per gli alunni con disabilità visiva, ad esempio, non è raro imbattersi in docenti di sostegno che non conoscono l'uso del Braille, la scrittura per ciechi».
Fonte: corriere.it
La clamorosa denuncia è contenuta in un dossier di Tuttoscuola. «Nell'anno scolastico 2009-10 gli alunni disabili inseriti nelle scuole statali di ogni ordine e grado hanno superato le 181 mila unità (il 2,3% della popolazione studentesca), con un incremento di oltre 5 mila rispetto all'anno precedente», scrive la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra. Peggio: «Negli ultimi cinque anni sono aumentati del 12,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione scolastica aumentava dell'1,2». Un decimo. Sgomberiamo subito il campo: quello dei portatori di handicap, come dimostra tra gli altri il libro di Matteo Schianchi La terza nazione del mondo — I disabili tra pregiudizio e realtà, è un tema serissimo. Che toglie il sonno ai genitori dei ragazzi affetti da qualche disabilità, costretti ad affrontare il percorso scolastico troppo spesso senza un'assistenza adeguata. Il sito Internet di riferimento della Fish, la federazione italiana per il superamento degli handicap, www.superando.it, segnala a ripetizione casi di seria difficoltà. Certo, grazie a Dio è cambiato tutto rispetto a quando i nostri nonni erano malvisti al loro ingresso negli Stati Uniti perché provenienti da una nazione a rischio con una mortalità infantile così alta che l'età media dei morti negli ultimi decenni dell'Ottocento era di sei anni e mezzo e Regina Armstrong scriveva su Leslie's Illustrated nel 1901 che «c'è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati». È cambiato tutto, ma il problema c'è.
Proprio perché il problema esiste, però, suona offensivo il modo in cui alcuni ne approfittano. Come accadde tempo fa ad Agrigento, dove il Circolo della legalità mandò una lettera al ministero sottoscritta da 550 addetti e un esposto alla Finanza per denunciare l'abuso della legge 104. Legge che, a tutela dei dipendenti che abbiano invalidità superiori a un certo limite o debbano farsi carico di un parente disabile, dice che hanno la precedenza in graduatoria per avere un posto più vicino a casa. Norma giusta. Ma utilizzata, stando alla denuncia, da troppi furbi: «Praticamente il 100% dei posti nelle "materne" è stato assegnato negli ultimi tempi grazie alla legge 104. C'è una dilagante e prepotente disonestà che coinvolge non solo chi usufruisce dei benefici della Legge, ma anche chi consente queste pratiche fraudolente». Di più: «Il sistema sta dilagando». Dice oggi il dossier Tuttoscuola che «nel 1995-96, con una popolazione scolastica complessiva superiore a quella attuale, gli alunni con disabilità erano 108 mila. In quindici anni sono aumentati di quasi il 70%. I docenti di sostegno, che in quell'anno erano 35 mila, sono diventati ora più di 90 mila». Quasi il triplo: «Allora vi era un docente di sostegno ogni tre alunni disabili; oggi c'è un docente ogni due». Sia chiaro: è bene che i ragazzi più sfortunati vengano aiutati. E sotto questo profilo la legge italiana è migliore di tante altre al mondo. E lo riconosce anche la rivista di Vinciguerra: «È cresciuto molto negli ultimi 10-15 anni lo sforzo dello Stato verso un settore che sotto molti aspetti rappresenta un fiore all'occhiello» della nostra scuola.
Ormai «l'Italia investe circa 3 miliardi di euro l'anno solo per il personale di sostegno». E quell'esercito di 90 mila insegnanti specializzati è maggiore più di tutti gli psicologi (70 mila) e i pediatri (14 mila) messi insieme. Che ci sia qualcosa che non va lo dice la mappa, da cui emergono squilibri sorprendenti»: «Ci sono più studenti disabili al Centro e nel Nord Ovest, ma lo Stato destina gli insegnanti di sostegno (a tempo indeterminato o precari) soprattutto al Sud e nelle Isole. E tra questi offre posti stabili (immissioni in ruolo a tempo indeterminato) molto di più proprio al Sud e nelle Isole che nel resto del Paese: il 52% dei posti fissi sono assegnati infatti nel Meridione». Dove vive circa il 27% degli italiani e dove risultano (sulla carta) il 40% degli alunni bisognosi di un appoggio. Dice la legge che ogni 100 insegnanti di sostegno 70 devono essere stabili ma questa percentuale sale all'89% in Campania e in Sardegna e crolla al 56% in Lombardia e in Veneto, si impenna al 91% in Basilicata e precipita al 55% in Emilia Romagna. Perché differenze così abissali? Tuttoscuola risponde che dipende «probabilmente in buona misura dai diversi criteri utilizzati dalle Asl per la valutazione delle disabilità» e questo nonostante «la legge richieda l'utilizzo dei parametri internazionali dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità: e non a caso la manovra finanziaria di inizio estate ha introdotto la responsabilità per danno erariale da parte dei medici preposti». Quanto al «numero di docenti di sostegno e, tra questi, di quanti sono assunti stabilmente, si tratta di decisioni prese dal Ministero dell'istruzione».
Di più: la sproporzione negli ultimi anni «si è accentuata». Esclusa l'ipotesi che Maria Stella Gelmini abbia un occhio bonario per le clientele meridionali, con le quali ha bisticciato spesso, la spiegazione è una sola: c'è qualcuno negli uffici assai disponibile a fare piacerini agli amici e agli amici degli amici. C'è chi dirà che anche qui si tratta di un «risarcimento» al Mezzogiorno, come lo chiamava Mastella. Ma che c'entra il riscatto del Sud coi «furbetti del sostegnino»? Spiega il dossier che il posto d'insegnante di sostegno è in realtà una scorciatoia, tanto più in questi tempi di magra e di riduzione del personale, per la conquista della cattedra a vita. Basti dire che «dei 10 mila posti di docente per le nuove immissioni in ruolo 2010-11, più della metà (5.022) sono per posti di sostegno». Posti che dopo 5 anni, una volta guadagnata l'assunzione, si possono abbandonare per «passare all'insegnamento tradizionale». Ma come si diventa insegnanti di sostegno? Penserete: chissà quanti studi! No: basta frequentare «un semestre aggiuntivo all'università, per 400 ore totali. E non sempre la preparazione è all'altezza: per gli alunni con disabilità visiva, ad esempio, non è raro imbattersi in docenti di sostegno che non conoscono l'uso del Braille, la scrittura per ciechi».
Fonte: corriere.it
25 giu 2010
La Procura di Roma: processare Vittorio Emanuele e altri cinque imputati
Arriva davanti a gup la vicenda legata a riciclaggio e gioco d'azzardo che portò in cella il principe nel 2006
ROMA - Vittorio Emanuele di Savoia e altre 5 persone avrebbero messo in piedi, a partire dal 2004, un’associazione per delinquere «impegnata nel settore del ’gioco d’azzardo fuori legge’, attiva nel ’mercato illegale dei nulla osta’ per videopoker procurati e rilasciati dai Monopoli di Stato attraverso il sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso». La Procura di Roma, con il pm Andrea De Gasperis, ha chiesto il rinvio a giudizio del principe, ritenendo che l’organizzazione da lui guidata era «dedita anche al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita tramite l’instaurazione di relazione con Casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia con cui Savoia e altri imputati avevano ’instaurato un rapporto stabile’ che prevedeva l’impegno (di uno degli altri imputati) di coinvolgere, «con l’evidente finalità di farli giocare, facoltosi personaggi siciliani», suoi amici.
DA POTENZA A ROMA - La vicenda è quella per la quale, nell’estate del 2006, Vittorio Emanuele fu arrestato e finì in carcere, a Potenza. Vi rimase una settimana. Poi gli furono concessi i domiciliari. Era il ’Savoiagate’, l’inchiesta nata a Potenza nel 2006 e condotta dal pm Henry John Woodcock, poi trasferita a Roma lo scorso febbraio quando lo stesso tribunale lucano dichiarò la propria incompetenza territoriale accogliendo un'istanza della difesa del principe. Il 14 luglio prossimo sarà il gup, Marina Finiti a pronunciarsi sui rinvii a giudizio sollecitati dalla procura. Vittorio Emanuele, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati, rimase in carcere per una settimana.
GLI ALTRI IMPUTATI - Insieme con Vittorio Emanuele di Savoia sono sotto accusa l’imprenditore messinese Rocco Migliardi detto ’Rocco delle macchinette’ («soggetto legato alla criminalita’ organizzata», stando al capo di imputazione), il suo braccio destro Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, ritenuti dall’ufficio dell’accusa, organizzatori della ’holding del malaffare’. Per la difesa semplici collaboratori del principe o persone che avevano cercato di accreditarsi nel suo entourage.
Fonte: corriere.it
ROMA - Vittorio Emanuele di Savoia e altre 5 persone avrebbero messo in piedi, a partire dal 2004, un’associazione per delinquere «impegnata nel settore del ’gioco d’azzardo fuori legge’, attiva nel ’mercato illegale dei nulla osta’ per videopoker procurati e rilasciati dai Monopoli di Stato attraverso il sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso». La Procura di Roma, con il pm Andrea De Gasperis, ha chiesto il rinvio a giudizio del principe, ritenendo che l’organizzazione da lui guidata era «dedita anche al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita tramite l’instaurazione di relazione con Casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia con cui Savoia e altri imputati avevano ’instaurato un rapporto stabile’ che prevedeva l’impegno (di uno degli altri imputati) di coinvolgere, «con l’evidente finalità di farli giocare, facoltosi personaggi siciliani», suoi amici.
DA POTENZA A ROMA - La vicenda è quella per la quale, nell’estate del 2006, Vittorio Emanuele fu arrestato e finì in carcere, a Potenza. Vi rimase una settimana. Poi gli furono concessi i domiciliari. Era il ’Savoiagate’, l’inchiesta nata a Potenza nel 2006 e condotta dal pm Henry John Woodcock, poi trasferita a Roma lo scorso febbraio quando lo stesso tribunale lucano dichiarò la propria incompetenza territoriale accogliendo un'istanza della difesa del principe. Il 14 luglio prossimo sarà il gup, Marina Finiti a pronunciarsi sui rinvii a giudizio sollecitati dalla procura. Vittorio Emanuele, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati, rimase in carcere per una settimana.
GLI ALTRI IMPUTATI - Insieme con Vittorio Emanuele di Savoia sono sotto accusa l’imprenditore messinese Rocco Migliardi detto ’Rocco delle macchinette’ («soggetto legato alla criminalita’ organizzata», stando al capo di imputazione), il suo braccio destro Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, ritenuti dall’ufficio dell’accusa, organizzatori della ’holding del malaffare’. Per la difesa semplici collaboratori del principe o persone che avevano cercato di accreditarsi nel suo entourage.
Fonte: corriere.it
6 ott 2009
Giovanna Melandri, la rinnegata della festa da Briatore, che approva lo scudo fiscale.
Reagisce a scoppio ritardato, Giovanna Melandri. Dove e con chi andasse in vacanza, era già stato detto a chiare lettere nel corso di un'intervista rilasciata da Flavio Briatore a Maria Corbi, apparsa su La Stampa nel settembre dell'anno scorso: «Ma io tendenzialmente sono di sinistra. Sto sempre dalla parte dei più deboli - argomentava il manager della Renault -, in una discussione tra un meccanico e un ingegnere io sto con il meccanico».
E per dare una misura di quanto fosse politicamente "aperto", Briatore puntualizzava, a suo modo, il concetto: «Diciamo così, non sono né di destra né di sinistra, io ammiravo la Dc di Andreotti e Cossiga. E adesso ammiro Giovanna Melandri, donna in gamba, una mia cara amica, che ospito sempre volentieri nella mia casa in Kenya».
Non solo. Dagospia, da par suo, aveva immediatamente raccolto la voce e rilanciato: la Melandri era stata sì ospite di Briatore, in compagnia, oltretutto, delle amiche giornaliste Stella Pende e Myrta Merlino. L'indiscrezione viene pubblicata e tutto tace.
Fino a che L'Espresso, tre settimane fa, scrive: "Per anni il buen ritiro del cantautore milanese Roberto Vecchioni è stata la sua bellissima casa in Kenya. Luogo che ha ispirato uno dei suoi migliori album: "Rotary Club of Malindi". Ora, però, il professore e romanziere Vecchioni e sua moglie Daria Colombo, autorevole esponente dei Girotondi, hanno deciso di vendere la loro dimora africana. Tra le persone molto interessate all'affare c'è in prima fila Giovanna Melandri, ministro delle Politiche giovanili e delle Attività sportive. L'esponente diessina, del resto, il Kenya già lo conosce bene per essere stata ospite nella lussuosa villa dell'imprenditore e manager del team Renault di Formula 1, Flavio Briatore. T. M.".
A questo punto, il ministro per le Politiche Giovanili e per lo Sport si sveglia dalla sua letargia e si prende la briga di scrivere una lettera di risposta: "Esprimo il mio più profondo rammarico nel leggere la notizia "Melandri a Malindi" (L'espresso n. 2). Non ho mai soggiornato nella villa di Flavio Briatore a Malindi. Da molti anni, con la mia famiglia, passo il periodo natalizio a Watamu (e non a Malindi) dove abbiamo recentemente acquistato una casa (non certo una lussuosa dimora) da Daria Colombo, moglie di Roberto Vecchioni, entrambi amici di lunga data con i quali condividiamo passione e impegno per l'Africa. Da tempo siamo impegnati a far crescere un piccolo presidio ospedaliero e un'attività di sostegno ai bambini senza casa. Per questo, la rappresentazione che emerge dal vostro medaglione è lontanissima dall'esperienza che anno dopo anno io, il mio compagno e mia figlia facciamo di questo bellissimo dolente paese dell'Africa. In Kenya, per la sua straordinaria bellezza, ogni anno giungono molti italiani e ho visto crescere ultimamente la schiera di turisti consapevoli che non si limitano a frequentare bellissime spiagge, ma che si impegnano in tante iniziative di cooperazione e sostegno ai progetti di sviluppo. Vorrei dare conto di due straordinarie esperienze che meriterebbero di essere sostenute. Il progetto World Friends del dott. Gianfranco Morino (volontario da vent'anni in Africa e anche lui turista a Watamu), teso alla realizzazione di un ospedale pubblico a favore della gente delle baraccopoli di Nairobi e l'Associazione Nativo che finanzia cure mediche di bambini sieropositivi a Watamu. (c/c postale intestato Amici del mondo World Friends onlus n. 47882527 - c/c postale intestato Associazione Nativo Onlus 53880662). Questa è la mia Africa".
Secca la replica del settimanale: "Sarebbe opportuno che il ministro riservasse il suo "profondo rammarico" per altre occasioni. Abbiamo scritto che era molto interessata all'acquisto della casa di Roberto Vecchioni e Daria Colombo in Kenya, e lei precisa di averla recentemente acquistata (ci risulta l'abbia fatto a dicembre inoltrato). Abbiamo parlato di casa bellissima, non lussuosa. Watanu è a una ventina di chilometri da Malindi, località assai più nota in Italia: peraltro solo il titolo accenna a Malindi (come quello dell'album di Vecchioni Rotary Club of Malindi), nell'articolo si parla solo di Kenya. Quanto a Briatore, L'espresso ha scritto che la Melandri ne è stata "ospite" (per un party, una cena?), come l'imprenditore ha raccontato in un'intervista, non che ha soggiornato nella sua villa, questa sì lussuosa. Comunque, sentiti auguri per le iniziative umanitarie (P. F.)."
L'incidente sarebbe finito qui e ciascuno sarebbe rimasto con le sue ragioni e le (mezze) verità, se Carlo Rossella non avesse voluto dare la stoccata finale, sulle pagine di Chi:
Dear Carlo,
vivo a Watamu, in Kenya, un posto divino, che mi ha fatto rinascere. Ho letto su Dagospia che la ministra Giovanna Melandri ha una casa in questo paradiso. Ne sono felice. Ma mi tolga una curiosità. È vero o no, come ha scritto L’Espresso, che la Melandri è stata a cena da quello strano personaggio di Briatore? La signora nega. Scusi la mia intromissione, ma io vivo di gossip e spiaggia, oceano e sogni.
Karen, Malindi
Bella Karen,
io non sono mai stato nella villa di Briatore a Malindi. Ma tutti mi dicono che sia splendida. Una mia carissima amica che frequenta con regolarità quella vivace dimora mi ha detto di avervi incontrato la bellissima signora Giovanna Melandri. Per una, due e forse tre volte. Ma che male c’è a bere un drink ai tropici con Flavio? Non capisco perché la Melandri se la sia presa così tanto nella sua risposta a L’Espresso.
Il drink è servito, ministro. E la domanda ("che male c’è a bere un drink ai tropici con Flavio?") meriterebbe una risposta. Al netto di sottigliezze, "paraculaggini" e pistolotti umanitari vari.
Fonti: magazine.libero.it, corriere.it
E per dare una misura di quanto fosse politicamente "aperto", Briatore puntualizzava, a suo modo, il concetto: «Diciamo così, non sono né di destra né di sinistra, io ammiravo la Dc di Andreotti e Cossiga. E adesso ammiro Giovanna Melandri, donna in gamba, una mia cara amica, che ospito sempre volentieri nella mia casa in Kenya».
Non solo. Dagospia, da par suo, aveva immediatamente raccolto la voce e rilanciato: la Melandri era stata sì ospite di Briatore, in compagnia, oltretutto, delle amiche giornaliste Stella Pende e Myrta Merlino. L'indiscrezione viene pubblicata e tutto tace.
Fino a che L'Espresso, tre settimane fa, scrive: "Per anni il buen ritiro del cantautore milanese Roberto Vecchioni è stata la sua bellissima casa in Kenya. Luogo che ha ispirato uno dei suoi migliori album: "Rotary Club of Malindi". Ora, però, il professore e romanziere Vecchioni e sua moglie Daria Colombo, autorevole esponente dei Girotondi, hanno deciso di vendere la loro dimora africana. Tra le persone molto interessate all'affare c'è in prima fila Giovanna Melandri, ministro delle Politiche giovanili e delle Attività sportive. L'esponente diessina, del resto, il Kenya già lo conosce bene per essere stata ospite nella lussuosa villa dell'imprenditore e manager del team Renault di Formula 1, Flavio Briatore. T. M.".
A questo punto, il ministro per le Politiche Giovanili e per lo Sport si sveglia dalla sua letargia e si prende la briga di scrivere una lettera di risposta: "Esprimo il mio più profondo rammarico nel leggere la notizia "Melandri a Malindi" (L'espresso n. 2). Non ho mai soggiornato nella villa di Flavio Briatore a Malindi. Da molti anni, con la mia famiglia, passo il periodo natalizio a Watamu (e non a Malindi) dove abbiamo recentemente acquistato una casa (non certo una lussuosa dimora) da Daria Colombo, moglie di Roberto Vecchioni, entrambi amici di lunga data con i quali condividiamo passione e impegno per l'Africa. Da tempo siamo impegnati a far crescere un piccolo presidio ospedaliero e un'attività di sostegno ai bambini senza casa. Per questo, la rappresentazione che emerge dal vostro medaglione è lontanissima dall'esperienza che anno dopo anno io, il mio compagno e mia figlia facciamo di questo bellissimo dolente paese dell'Africa. In Kenya, per la sua straordinaria bellezza, ogni anno giungono molti italiani e ho visto crescere ultimamente la schiera di turisti consapevoli che non si limitano a frequentare bellissime spiagge, ma che si impegnano in tante iniziative di cooperazione e sostegno ai progetti di sviluppo. Vorrei dare conto di due straordinarie esperienze che meriterebbero di essere sostenute. Il progetto World Friends del dott. Gianfranco Morino (volontario da vent'anni in Africa e anche lui turista a Watamu), teso alla realizzazione di un ospedale pubblico a favore della gente delle baraccopoli di Nairobi e l'Associazione Nativo che finanzia cure mediche di bambini sieropositivi a Watamu. (c/c postale intestato Amici del mondo World Friends onlus n. 47882527 - c/c postale intestato Associazione Nativo Onlus 53880662). Questa è la mia Africa".
Secca la replica del settimanale: "Sarebbe opportuno che il ministro riservasse il suo "profondo rammarico" per altre occasioni. Abbiamo scritto che era molto interessata all'acquisto della casa di Roberto Vecchioni e Daria Colombo in Kenya, e lei precisa di averla recentemente acquistata (ci risulta l'abbia fatto a dicembre inoltrato). Abbiamo parlato di casa bellissima, non lussuosa. Watanu è a una ventina di chilometri da Malindi, località assai più nota in Italia: peraltro solo il titolo accenna a Malindi (come quello dell'album di Vecchioni Rotary Club of Malindi), nell'articolo si parla solo di Kenya. Quanto a Briatore, L'espresso ha scritto che la Melandri ne è stata "ospite" (per un party, una cena?), come l'imprenditore ha raccontato in un'intervista, non che ha soggiornato nella sua villa, questa sì lussuosa. Comunque, sentiti auguri per le iniziative umanitarie (P. F.)."
L'incidente sarebbe finito qui e ciascuno sarebbe rimasto con le sue ragioni e le (mezze) verità, se Carlo Rossella non avesse voluto dare la stoccata finale, sulle pagine di Chi:
Dear Carlo,
vivo a Watamu, in Kenya, un posto divino, che mi ha fatto rinascere. Ho letto su Dagospia che la ministra Giovanna Melandri ha una casa in questo paradiso. Ne sono felice. Ma mi tolga una curiosità. È vero o no, come ha scritto L’Espresso, che la Melandri è stata a cena da quello strano personaggio di Briatore? La signora nega. Scusi la mia intromissione, ma io vivo di gossip e spiaggia, oceano e sogni.
Karen, Malindi
Bella Karen,
io non sono mai stato nella villa di Briatore a Malindi. Ma tutti mi dicono che sia splendida. Una mia carissima amica che frequenta con regolarità quella vivace dimora mi ha detto di avervi incontrato la bellissima signora Giovanna Melandri. Per una, due e forse tre volte. Ma che male c’è a bere un drink ai tropici con Flavio? Non capisco perché la Melandri se la sia presa così tanto nella sua risposta a L’Espresso.
Il drink è servito, ministro. E la domanda ("che male c’è a bere un drink ai tropici con Flavio?") meriterebbe una risposta. Al netto di sottigliezze, "paraculaggini" e pistolotti umanitari vari.
Fonti: magazine.libero.it, corriere.it
5 dic 2008
Mafia: sotto accusa Stefano Italiano, l'«eroe antiracket»
L'eroe antiracket in realtà era un favoreggiatore della mafia.
E forse qualcosa di più, ma su questo le indagini sono in corso.
Le accuse nei confronti di Stefano Italiano, presidente della cooperativa agricola Agroverde di Gela, sono piuttosto gravi e sconvolgenti visto che l'uomo è noto soprattutto per aver denunciato il racket mafioso e dal 2005 era scortato dagli uomini dello Stato. L'accusa, sulla base del quale gli uomini della direzione investigativa di Caltanissetta hanno messo i sigilli ai beni della coop per un valore di 32 milioni, è di riciclaggio aggravato dall'aver favorito Cosa nostra e la Stidda, l'altra temibile organizzazione criminale del nisseno. In pratica, secondo le ipotesi della procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari, che si sono avvalsi anche del racconto di due collaboratori di giustizia (Luigi e Emanuele Celona) Italiano avrebbe riciclato enormi somme di denaro proveniente dalle attività illecite delle cosche mafiose nissene e avrebbe acquisito indebitamente contributi pubblici (in particolare la legge 488/92) destinati alla ristrutturazione degli impianti produttivi della cooperativa che venivano poi realizzati da imprese riconducibili al clan mafioso dei Madonia.
Secondo l'accusa il meccanismo per riciclare il denaro della mafia era attuato attraverso l'aumento del capitale sociale della cooperativa che veniva falsamente attribuito ai soci conferitori ma che in realtà era il frutto di reinvestimento dei capitali di provenienza illecita. Sotto accusa sono finiti non solo i collaboratori di Italiano (due) ma anche funzionari e impiegati di una banca di gela già appartenente al gruppo Ambrosiano-Veneto e oggi controllata da Banca Intesa (sette) i quali non avrebbero applicato la normativa antiriciclaggio: tutti sono iscritti nel registro degli indagati. Secondo la ricostruzione degli inquirenti l'ingresso della mafia nella cooperativa risalirebbe al 1998, quando l'Agroverde aveva presentato un progetto per ottenere finanziamenti pubblici della legge 488, da destinare appunto alla realizzazione dei capannoni. Il progetto venne approvato dal ministero per le Attività Produttive nel 1999 e nel 2000 incominciarono ad arrivare i primi fondi. Nell'arco di tre anni vennero erogati tre miliardi di lire. Ma secondo gli inquirenti alla ricapitalizzazione avrebbero proceduto i vertici di Cosa nostra e della Stidda, attraverso la falsificazione dei documenti necessari, e non i soci della cooperativa come invece previsto per legge. «Questa cooperativa -ha spiegato il procuratore Sergio Lari- era divenuta una sorta di cavallo di Troia, utilizzato dai clan per appropriarsi illecitamente di fondi pubblici, distogliendo somme dall'attività produttiva. Una sorta di cassa a disposizione della mafia. L'ordinanza di custodia cautelare non è scattata perché era interesse della Procura bloccare questo giro».
Fonte: ilsole24ore.com
E forse qualcosa di più, ma su questo le indagini sono in corso.
Le accuse nei confronti di Stefano Italiano, presidente della cooperativa agricola Agroverde di Gela, sono piuttosto gravi e sconvolgenti visto che l'uomo è noto soprattutto per aver denunciato il racket mafioso e dal 2005 era scortato dagli uomini dello Stato. L'accusa, sulla base del quale gli uomini della direzione investigativa di Caltanissetta hanno messo i sigilli ai beni della coop per un valore di 32 milioni, è di riciclaggio aggravato dall'aver favorito Cosa nostra e la Stidda, l'altra temibile organizzazione criminale del nisseno. In pratica, secondo le ipotesi della procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari, che si sono avvalsi anche del racconto di due collaboratori di giustizia (Luigi e Emanuele Celona) Italiano avrebbe riciclato enormi somme di denaro proveniente dalle attività illecite delle cosche mafiose nissene e avrebbe acquisito indebitamente contributi pubblici (in particolare la legge 488/92) destinati alla ristrutturazione degli impianti produttivi della cooperativa che venivano poi realizzati da imprese riconducibili al clan mafioso dei Madonia.
Secondo l'accusa il meccanismo per riciclare il denaro della mafia era attuato attraverso l'aumento del capitale sociale della cooperativa che veniva falsamente attribuito ai soci conferitori ma che in realtà era il frutto di reinvestimento dei capitali di provenienza illecita. Sotto accusa sono finiti non solo i collaboratori di Italiano (due) ma anche funzionari e impiegati di una banca di gela già appartenente al gruppo Ambrosiano-Veneto e oggi controllata da Banca Intesa (sette) i quali non avrebbero applicato la normativa antiriciclaggio: tutti sono iscritti nel registro degli indagati. Secondo la ricostruzione degli inquirenti l'ingresso della mafia nella cooperativa risalirebbe al 1998, quando l'Agroverde aveva presentato un progetto per ottenere finanziamenti pubblici della legge 488, da destinare appunto alla realizzazione dei capannoni. Il progetto venne approvato dal ministero per le Attività Produttive nel 1999 e nel 2000 incominciarono ad arrivare i primi fondi. Nell'arco di tre anni vennero erogati tre miliardi di lire. Ma secondo gli inquirenti alla ricapitalizzazione avrebbero proceduto i vertici di Cosa nostra e della Stidda, attraverso la falsificazione dei documenti necessari, e non i soci della cooperativa come invece previsto per legge. «Questa cooperativa -ha spiegato il procuratore Sergio Lari- era divenuta una sorta di cavallo di Troia, utilizzato dai clan per appropriarsi illecitamente di fondi pubblici, distogliendo somme dall'attività produttiva. Una sorta di cassa a disposizione della mafia. L'ordinanza di custodia cautelare non è scattata perché era interesse della Procura bloccare questo giro».
Fonte: ilsole24ore.com
25 ott 2007
Padre Pio, un immenso inganno
Giovanni XXIII annotava: «I suoi rapporti scorretti con le fedeli fanno un disastro di anime». Nel libro di Sergio Luzzatto ricostruite anche le diffidenti valutazioni del pontefice
«Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto». L’informato è Giovanni XXIII. P.P. è Padre Pio. E queste sono le parole che il Papa annota il 25 giugno 1960, su quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi e rivelati da Sergio Luzzatto. «Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente» annota il Pontefice. «L’accaduto—cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona — fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti».
«Disastro di anime». «Immenso inganno ». Una delle «tentazioni» con cui il Signore ci mette alla prova. Espressioni durissime. Che però non si riferiscono alla complessa questione delle stigmate, su cui si sono concentrate le prime reazioni al saggio di Luzzatto, «Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento», in uscita la prossima settimana da Einaudi. All’inizio dell’estate 1960, Papa Giovanni è appena stato informato da monsignor Pietro Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto delle bobine registrate a San Giovanni Rotondo. Da mesi Roncalli assume informazioni sulla cerchia delle donne intorno a Padre Pio, si è appuntato i nomi di «tre fedelissime: Cleonilde Morcaldi, Tina Bellone e Olga Ieci», più una misteriosa contessa che induce il Pontefice a chiedere se il suo sia «un vero titolo oppure un nomignolo». Nel sospetto — cui il Papa presta fede — che la devozione delle donne nei confronti del cappuccino non sia soltanto spirituale, Roncalli vede la conferma di un giudizio che aveva formulato con decenni di anticipo.
Al futuro Giovanni XXIII, Padre Pio non era mai piaciuto. All’inizio degli Anni ’20, quando per due volte aveva percorso la Puglia come responsabile delle missioni di Propaganda Fide, aveva preferito girare alla larga da San Giovanni Rotondo. Ma è soprattutto la fede ascetica, mistica, quasi medievale di cui il cappuccino è stato il simbolo, per la Chiesa modernista di inizio secolo come per la Chiesa conciliare a cavallo tra gli Anni ’50 e ’60, a essere estranea alla sensibilità di Angelo Roncalli. Che, sempre il 25 giugno, annota ancora: «Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili». E, dopo aver ordinato una nuova visita apostolica a San Giovanni Rotondo, ad appunto quasi quarant’anni da quella compiuta nel 1921, il Papa conclude che «purtroppo laggiù il P.P. si rivela un idolo di stoppa».
Gli appunti di Roncalli rappresentano uno dei passaggi salienti dell’opera di Luzzatto. E, se letti con animo condizionato dal pregiudizio, possono indurre a giudicarla o come una demolizione definitiva della figura del santo, o come un’invettiva laicista contro un fenomeno devozionale duraturo e interclassista. Ma sarebbero due letture sbagliate. Il giudizio di Luzzatto su Padre Pio non è quello sommariamente liquidatorio, che si è potuto leggere ad esempio nel recente e fortunato pamphlet di Piergiorgio Odifreddi. Luzzatto prende Padre Pio molto sul serio. E, con un lavoro durato sei anni, indaga non solo sulla sua biografia, ma anche e soprattutto sulla sua mitopoiesi: sulla costruzione del mito del frate di Pietrelcina e sulla sua vicenda, profondamente intrecciata non solo con quella della Chiesa italiana, ma anche con la politica e pure con la finanza. Unmito che nasce sotto il fascismo (Luzzatto dedica pagine che faranno discutere al «patto non scritto» con Caradonna, il ras di Foggia; ed è un fatto che le prime due biografie di Padre Pio sono pubblicate dalla casa editrice ufficiale del partito, la stessa che stampa i discorsi del Duce). Ciò non toglie che l’esito di quella ricerca sarà inevitabilmente elogiata e criticata, com’è giusto che sia. Ma anche gli stroncatori non potranno non riconoscere che uno studioso estraneo al mondo cattolico ha affrontato la figura del santo con simpatia, nel senso etimologico, e non è rimasto insensibile al fascino di una figura sovrastata da poteri—terreni prima che soprannaturali—più grandi di lei, e (comunque la si voglia giudicare) capace di alleviare ancora oggi il dolore degli uomini e di destare un interesse straordinario.
Scrive Luzzatto che «l’importanza di Padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di Papa». Benedetto XV si dimostrò scettico, permettendo che il Sant’Uffizio procedesse da subito contro il cappuccino. Più diffidente ancora fu Pio XI: sotto il suo pontificato si giunse quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII invece consentì e incoraggiò il culto del frate. Giovanni XXIII autorizzò pesanti misure di contenimento della devozione. Ma Paolo VI, che da sostituto alla segreteria di Stato aveva reso possibile la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza, da Pontefice fece in modo che il frate potesse svolgere il suo ministero «in piena libertà». Albino Luciani, che per poco più di un mese fu Giovanni Paolo I, da vescovo di Vittorio Veneto scoraggiò i pellegrinaggi nel Gargano. Mentre Wojtyla si mostrò sempre profondamente affascinato dalla figura del cappuccino, che sotto il suo pontificato fu elevato agli altari.
Non è in discussione ovviamente la continuità morale e teologica tra i successori di Pietro.Però è impossibile negare che i Pontefici succedutisi nel corso del Novecento abbiano guardato a Padre Pio con occhi diversi, comprese le asprezze giovannee. E, come documenta Luzzatto, quando «La Settimana Incom illustrata» sparò in prima pagina il titolo «Padre Pio predisse il papato a Roncall », compreso il dettaglio di un telegramma di ringraziamento che il nuovo Pontefice avrebbe inviato al cappuccino, Giovanni XXIII ordina al proprio segretario di precisare all’arcivescovo di Manfredonia che era "tutto inventato": «Io non ebbi mai alcun rapporto con lui, né mai lo vidi, o gli scrissi, né mai mi passò per la mente di inviargli benedizioni; né alcuno mi richiese direttamente o indirettamente di ciò, né prima, né dopo il Conclave, né mai».
Fonte: corriere.it
«Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto». L’informato è Giovanni XXIII. P.P. è Padre Pio. E queste sono le parole che il Papa annota il 25 giugno 1960, su quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi e rivelati da Sergio Luzzatto. «Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente» annota il Pontefice. «L’accaduto—cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona — fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti».
«Disastro di anime». «Immenso inganno ». Una delle «tentazioni» con cui il Signore ci mette alla prova. Espressioni durissime. Che però non si riferiscono alla complessa questione delle stigmate, su cui si sono concentrate le prime reazioni al saggio di Luzzatto, «Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento», in uscita la prossima settimana da Einaudi. All’inizio dell’estate 1960, Papa Giovanni è appena stato informato da monsignor Pietro Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto delle bobine registrate a San Giovanni Rotondo. Da mesi Roncalli assume informazioni sulla cerchia delle donne intorno a Padre Pio, si è appuntato i nomi di «tre fedelissime: Cleonilde Morcaldi, Tina Bellone e Olga Ieci», più una misteriosa contessa che induce il Pontefice a chiedere se il suo sia «un vero titolo oppure un nomignolo». Nel sospetto — cui il Papa presta fede — che la devozione delle donne nei confronti del cappuccino non sia soltanto spirituale, Roncalli vede la conferma di un giudizio che aveva formulato con decenni di anticipo.
Al futuro Giovanni XXIII, Padre Pio non era mai piaciuto. All’inizio degli Anni ’20, quando per due volte aveva percorso la Puglia come responsabile delle missioni di Propaganda Fide, aveva preferito girare alla larga da San Giovanni Rotondo. Ma è soprattutto la fede ascetica, mistica, quasi medievale di cui il cappuccino è stato il simbolo, per la Chiesa modernista di inizio secolo come per la Chiesa conciliare a cavallo tra gli Anni ’50 e ’60, a essere estranea alla sensibilità di Angelo Roncalli. Che, sempre il 25 giugno, annota ancora: «Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili». E, dopo aver ordinato una nuova visita apostolica a San Giovanni Rotondo, ad appunto quasi quarant’anni da quella compiuta nel 1921, il Papa conclude che «purtroppo laggiù il P.P. si rivela un idolo di stoppa».
Gli appunti di Roncalli rappresentano uno dei passaggi salienti dell’opera di Luzzatto. E, se letti con animo condizionato dal pregiudizio, possono indurre a giudicarla o come una demolizione definitiva della figura del santo, o come un’invettiva laicista contro un fenomeno devozionale duraturo e interclassista. Ma sarebbero due letture sbagliate. Il giudizio di Luzzatto su Padre Pio non è quello sommariamente liquidatorio, che si è potuto leggere ad esempio nel recente e fortunato pamphlet di Piergiorgio Odifreddi. Luzzatto prende Padre Pio molto sul serio. E, con un lavoro durato sei anni, indaga non solo sulla sua biografia, ma anche e soprattutto sulla sua mitopoiesi: sulla costruzione del mito del frate di Pietrelcina e sulla sua vicenda, profondamente intrecciata non solo con quella della Chiesa italiana, ma anche con la politica e pure con la finanza. Unmito che nasce sotto il fascismo (Luzzatto dedica pagine che faranno discutere al «patto non scritto» con Caradonna, il ras di Foggia; ed è un fatto che le prime due biografie di Padre Pio sono pubblicate dalla casa editrice ufficiale del partito, la stessa che stampa i discorsi del Duce). Ciò non toglie che l’esito di quella ricerca sarà inevitabilmente elogiata e criticata, com’è giusto che sia. Ma anche gli stroncatori non potranno non riconoscere che uno studioso estraneo al mondo cattolico ha affrontato la figura del santo con simpatia, nel senso etimologico, e non è rimasto insensibile al fascino di una figura sovrastata da poteri—terreni prima che soprannaturali—più grandi di lei, e (comunque la si voglia giudicare) capace di alleviare ancora oggi il dolore degli uomini e di destare un interesse straordinario.
Scrive Luzzatto che «l’importanza di Padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di Papa». Benedetto XV si dimostrò scettico, permettendo che il Sant’Uffizio procedesse da subito contro il cappuccino. Più diffidente ancora fu Pio XI: sotto il suo pontificato si giunse quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII invece consentì e incoraggiò il culto del frate. Giovanni XXIII autorizzò pesanti misure di contenimento della devozione. Ma Paolo VI, che da sostituto alla segreteria di Stato aveva reso possibile la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza, da Pontefice fece in modo che il frate potesse svolgere il suo ministero «in piena libertà». Albino Luciani, che per poco più di un mese fu Giovanni Paolo I, da vescovo di Vittorio Veneto scoraggiò i pellegrinaggi nel Gargano. Mentre Wojtyla si mostrò sempre profondamente affascinato dalla figura del cappuccino, che sotto il suo pontificato fu elevato agli altari.
Non è in discussione ovviamente la continuità morale e teologica tra i successori di Pietro.Però è impossibile negare che i Pontefici succedutisi nel corso del Novecento abbiano guardato a Padre Pio con occhi diversi, comprese le asprezze giovannee. E, come documenta Luzzatto, quando «La Settimana Incom illustrata» sparò in prima pagina il titolo «Padre Pio predisse il papato a Roncall », compreso il dettaglio di un telegramma di ringraziamento che il nuovo Pontefice avrebbe inviato al cappuccino, Giovanni XXIII ordina al proprio segretario di precisare all’arcivescovo di Manfredonia che era "tutto inventato": «Io non ebbi mai alcun rapporto con lui, né mai lo vidi, o gli scrissi, né mai mi passò per la mente di inviargli benedizioni; né alcuno mi richiese direttamente o indirettamente di ciò, né prima, né dopo il Conclave, né mai».
Fonte: corriere.it
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