Scandali inutili, le spese dei partiti restano top-secret
In una campagna elettorale nella quale poco o nessuno spazio hanno i contenuti, rispetto alle chiacchiere su tattiche e alleanze, c'è un altro latitante speciale: le spese dei partiti. Anche se dopo quanto è accaduto, dalla storia dei rimborsi elettorali della Margherita agli spericolati investimenti dell'ex tesoriere della Lega Nord, fino agli scandali che hanno travolto i gruppi del consiglio regionale del Lazio, sarebbe stato lecito attendersi un cambio di passo.
Per esempio, la pubblicazione sui siti Internet dei budget dei vari partiti per le spese della campagna elettorale, con la contestuale indicazione delle fonti di finanziamento: pubbliche e soprattutto private. Informazioni che oggi è possibile conoscere, e non con la dovuta assoluta trasparenza, soltanto a consuntivo attraverso i bilanci e le dichiarazioni giurate.
I contribuenti privati, per esempio. Esiste, è vero, l'obbligo di comunicarli alla Camera, dove diventano di dominio pubblico: però con una procedura complessa, che prevede la presentazione agli uffici, e di persona, di una domanda scritta. Ma non c'è regola che impone la diffusione online dei finanziamenti liberali in tempo reale. Cosa che, crediamo, sarebbe doverosa.
Al di là degli obblighi di certificazione dei bilanci dei partiti, e dei controlli recentemente introdotti a furor di popolo dopo le sconcertanti vicende dei fondi della Margherita e della Lega Nord, questo consentirebbe ai cittadini di apprendere immediatamente (e prima del voto) quali interessi si materializzano dietro un candidato. Come negli Stati Uniti. Se prima delle elezioni del 2012 avreste voluto sapere quanti contributi avesse ricevuto il senatore del Massachusetts nonché futuro segretario di Stato americano John Kerry, per il fondo destinato alla sua campagna elettorale, sarebbe stato semplicissimo. Esiste un sito Internet con l'elenco dei lobbisti che hanno sostenuto lui e gli altri candidati, con le relative cifre. Nei due anni precedenti la campagna 2012 Kerry ha avuto 128.300 dollari da 56 persone: si va dai 9.600 dollari di Vincent Roberti ai 200 (circa 140 euro) di Edward P. Faberman. Chi è Roberti? Ancora più semplice. Basta cliccare sul suo nome per venire a conoscenza che rappresenta due società di lobbying, la Navigators global LLC e la Vincenti associated. I cui clienti sono At&t, Citigroup, Oracle America, General motors...
Tutto (abbastanza) alla luce del sole. E in Italia, dove non esiste nulla di tutto questo, di luce sulle fonti di finanziamento ne avremmo davvero bisogno. Soprattutto in una campagna elettorale nella quale alcuni contendenti non hanno avuto accesso in precedenza ai fondi statali. Mentre altri hanno letteralmente mandato in orbita anno dopo anno le proprie spese elettorali grazie proprio a «rimborsi» elettorali pubblici scandalosamente generosi. In occasione delle precedenti elezioni politiche del 2008 il Popolo della libertà ha investito la somma astronomica di 68 milioni 475.132 euro. Cifra ben 13,6 volte superiore rispetto a quella spesa nel 1996, dice il rapporto della Corte dei conti, da Forza Italia e Alleanza nazionale messe insieme. I contributi pubblici, al tempo stesso, sono passati da 18,6 a 206,5 milioni. Le spese elettorali del Partito democratico si sono attestate invece nel 2008 a 18 milioni 418.043 euro, contro i 7 milioni 839.653 euro investiti dodici anni prima da Ds, Margherita e Ulivo. Per contributi pubblici saliti da 17 a 180,2 milioni.
Numeri che fanno ben capire l'impazzimento verificatosi a partire da metà degli anni Novanta. E che non si è certamente esaurito con le elezioni politiche del 2008. Basta dare un'occhiata alle risorse messe in campo dai partiti per le elezioni regionali del 2010: più di 62 milioni. Il Partito democratico ha investito 14,2 milioni, una somma non troppo distante da quella spesa per le Politiche di due anni prima. Il Pdl ha sborsato addirittura 20,9 milioni. Per non parlare di alcune liste locali. Quella che ha sostenuto nel Lazio la candidatura di Renata Polverini ha speso la bellezza di cinque milioni e mezzo di euro. Cifra comunque pari alla metà dei contributi (circa 11 milioni di euro) assicurati a Letizia Brichetto Moratti dal suo consorte Gian Marco Moratti, industriale petrolifero, nella sfida elettorale perduta nel 2011 con Giuliano Pisapia per il Comune di Milano.
Fonte: corriere.it
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21 gen 2013
25 giu 2012
Lusi: ecco le lettere di Rutelli sui soldi
Appunto con le indicazioni per la gestione di un milione e mezzo di euro. Rutelli e Bianco, possibili nuovi interrogatori
ROMA - Ha sempre sostenuto di non essersi occupato della gestione finanziaria del partito «perché a questo avevamo delegato il tesoriere». E invece sarebbero proprio i documenti consegnati due giorni fa da Luigi Lusi ai magistrati romani a smentire la tesi di Francesco Rutelli. Tra le carte depositate durante l'interrogatorio che si è svolto sabato pomeriggio nel carcere di Rebibbia ci sono infatti due lettere, una a mano e una al computer, scritte proprio da Rutelli. Ed entrambe riguardano la destinazione dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Margherita dopo lo scioglimento e la fusione con i Ds nel Partito democratico avvenuta nel 2007. Non solo. Altri appunti si riferiscono alle somme versate a diversi esponenti del partito, in particolare Enzo Bianco e Matteo Renzi. «E le indicazioni - ha sostenuto Lusi - arrivavano dal segretario con il quale avevo un confronto costante, anche se spesso riuscivamo a parlarci per non più di dieci minuti». Subito dopo ribadisce che «lui era perfettamente a conoscenza degli investimenti immobiliari, tanto da suggerirmi la creazione di una società estera». Versione smentita da Rutelli che su questo ha già depositato una querela.
LE DISPOSIZIONI DEL 2009
Il confronto a distanza dunque non è terminato, anzi, promette scintille. Perché da questa mattina cominceranno le verifiche affidate alla Guardia di Finanza e al termine è possibile che Rutelli, ma anche Enzo Bianco e altri leader del partito vengano nuovamente interrogati dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal suo sostituto Stefano Pesci, i titolari dell'indagine avviata nel dicembre dello scorso anno su alcune operazioni bancarie sospette che hanno consentito di scoprire un ammanco di oltre 25 milioni. Soldi che Lusi è accusato di aver rubato insieme alla moglie, ad altri familiari e a due commercialisti.
L'APPUNTO DI RUTELLI
Nell'appunto scritto a mano, che Lusi colloca nel 2009 ma senza poter specificare la data precisa, Rutelli parlerebbe della destinazione di un milione e mezzo di euro, di cui almeno 600 mila per la sua corrente. Soldi che il tesoriere avrebbe dovuto gestire. Poi rimprovererebbe Lusi per aver restituito al Parlamento europeo alcuni fondi destinati al Pd di Bruxelles di cui il senatore amministrava le finanze. Anche nell'altra lettera, scritta al computer e datata 10 novembre 2009 si parla di denaro, ma su quale sia l'uso che ne deve essere fatto bisognerà adesso effettuare alcuni accertamenti perché, come sottolineano gli inquirenti, «si tratta di comunicazioni molto sintetiche e non esplicite, dunque si dovrà capire dove sono effettivamente finite le somme».
LE MAIL DI LUSI
Molto più dettagliate sono le mail che Lusi spediva a Rutelli, anch'esse consegnate durante l'interrogatorio di fronte al giudice Simonetta D'Alessandro che ha ordinato l'arresto del tesoriere e ha ottenuto il via libera all'esecuzione dall'aula di Palazzo Madama con un voto che non ha precedenti visto che mai prima d'ora era stata autorizzata la cattura di un senatore. In tutto agli atti sono state allegate una decina di pagine nelle quali il tesoriere fa presente che i «soldi saranno destinati a singole persone» e questo, ha affermato rispondendo alle domande del giudice, «dopo aver preso la decisione di spartire il denaro dei rimborsi per evitare che dopo la fusione finissero nelle casse del Pd». In particolare c'è una mail nella quale Lusi avrebbe proposto di far confluire i fondi sui conti di «associazioni e fondazioni» cosa che effettivamente è poi avvenuta, almeno in parte. Ed è proprio quando affronta l'argomento relativo a questa presunta spartizione che Lusi cita Bianco e Renzi.
CASE E VILLE
Secondo il tesoriere la scelta di spartirsi i finanziamenti tra le correnti dei rutelliani e dei popolari risale al 2007. Un mese fa, durante la sua audizione di fronte alla Giunta del Senato, aveva sostenuto che anche gli investimenti immobiliari rientravano in questa politica di divisione e che lui era di fatto il «fiduciario» dell'operazione. Ieri ha aggiunto nuovi dettagli, e anche su questo bisognerà adesso cercare eventuali riscontri. Perché Lusi sostiene che quegli acquisti di appartamenti e ville furono «fatti per conto dei rutelliani e decisi ben prima dello scioglimento della Margherita».
LA TESI
Accusato di aver rubato circa 25 milioni di euro al partito una parte dei quali utilizzati proprio per comprare lussuose proprietà al centro di Roma e in campagna, ma anche per ristrutturare appartamenti che già possedeva in Abruzzo - è che «fu Rutelli ad autorizzare quegli acquisiti consigliandomi anche di utilizzare una società estera, visto che mia moglie è canadese». L'interessato ha smentito parlando di «bufale pronunciate da un ladro», ma ora Lusi aggiunge un nuovo dettaglio: «Accadde prima del 2007», dunque quando la Margherita era ancora un partito autonomo e Rutelli era vicepresidente del Consiglio con il governo guidato a Romano Prodi. L'ennesima bordata in una guerra che appare senza fine.
Fonte: corriere.it
ROMA - Ha sempre sostenuto di non essersi occupato della gestione finanziaria del partito «perché a questo avevamo delegato il tesoriere». E invece sarebbero proprio i documenti consegnati due giorni fa da Luigi Lusi ai magistrati romani a smentire la tesi di Francesco Rutelli. Tra le carte depositate durante l'interrogatorio che si è svolto sabato pomeriggio nel carcere di Rebibbia ci sono infatti due lettere, una a mano e una al computer, scritte proprio da Rutelli. Ed entrambe riguardano la destinazione dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Margherita dopo lo scioglimento e la fusione con i Ds nel Partito democratico avvenuta nel 2007. Non solo. Altri appunti si riferiscono alle somme versate a diversi esponenti del partito, in particolare Enzo Bianco e Matteo Renzi. «E le indicazioni - ha sostenuto Lusi - arrivavano dal segretario con il quale avevo un confronto costante, anche se spesso riuscivamo a parlarci per non più di dieci minuti». Subito dopo ribadisce che «lui era perfettamente a conoscenza degli investimenti immobiliari, tanto da suggerirmi la creazione di una società estera». Versione smentita da Rutelli che su questo ha già depositato una querela.
LE DISPOSIZIONI DEL 2009
Il confronto a distanza dunque non è terminato, anzi, promette scintille. Perché da questa mattina cominceranno le verifiche affidate alla Guardia di Finanza e al termine è possibile che Rutelli, ma anche Enzo Bianco e altri leader del partito vengano nuovamente interrogati dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal suo sostituto Stefano Pesci, i titolari dell'indagine avviata nel dicembre dello scorso anno su alcune operazioni bancarie sospette che hanno consentito di scoprire un ammanco di oltre 25 milioni. Soldi che Lusi è accusato di aver rubato insieme alla moglie, ad altri familiari e a due commercialisti.
L'APPUNTO DI RUTELLI
Nell'appunto scritto a mano, che Lusi colloca nel 2009 ma senza poter specificare la data precisa, Rutelli parlerebbe della destinazione di un milione e mezzo di euro, di cui almeno 600 mila per la sua corrente. Soldi che il tesoriere avrebbe dovuto gestire. Poi rimprovererebbe Lusi per aver restituito al Parlamento europeo alcuni fondi destinati al Pd di Bruxelles di cui il senatore amministrava le finanze. Anche nell'altra lettera, scritta al computer e datata 10 novembre 2009 si parla di denaro, ma su quale sia l'uso che ne deve essere fatto bisognerà adesso effettuare alcuni accertamenti perché, come sottolineano gli inquirenti, «si tratta di comunicazioni molto sintetiche e non esplicite, dunque si dovrà capire dove sono effettivamente finite le somme».
LE MAIL DI LUSI
Molto più dettagliate sono le mail che Lusi spediva a Rutelli, anch'esse consegnate durante l'interrogatorio di fronte al giudice Simonetta D'Alessandro che ha ordinato l'arresto del tesoriere e ha ottenuto il via libera all'esecuzione dall'aula di Palazzo Madama con un voto che non ha precedenti visto che mai prima d'ora era stata autorizzata la cattura di un senatore. In tutto agli atti sono state allegate una decina di pagine nelle quali il tesoriere fa presente che i «soldi saranno destinati a singole persone» e questo, ha affermato rispondendo alle domande del giudice, «dopo aver preso la decisione di spartire il denaro dei rimborsi per evitare che dopo la fusione finissero nelle casse del Pd». In particolare c'è una mail nella quale Lusi avrebbe proposto di far confluire i fondi sui conti di «associazioni e fondazioni» cosa che effettivamente è poi avvenuta, almeno in parte. Ed è proprio quando affronta l'argomento relativo a questa presunta spartizione che Lusi cita Bianco e Renzi.
CASE E VILLE
Secondo il tesoriere la scelta di spartirsi i finanziamenti tra le correnti dei rutelliani e dei popolari risale al 2007. Un mese fa, durante la sua audizione di fronte alla Giunta del Senato, aveva sostenuto che anche gli investimenti immobiliari rientravano in questa politica di divisione e che lui era di fatto il «fiduciario» dell'operazione. Ieri ha aggiunto nuovi dettagli, e anche su questo bisognerà adesso cercare eventuali riscontri. Perché Lusi sostiene che quegli acquisti di appartamenti e ville furono «fatti per conto dei rutelliani e decisi ben prima dello scioglimento della Margherita».
LA TESI
Accusato di aver rubato circa 25 milioni di euro al partito una parte dei quali utilizzati proprio per comprare lussuose proprietà al centro di Roma e in campagna, ma anche per ristrutturare appartamenti che già possedeva in Abruzzo - è che «fu Rutelli ad autorizzare quegli acquisiti consigliandomi anche di utilizzare una società estera, visto che mia moglie è canadese». L'interessato ha smentito parlando di «bufale pronunciate da un ladro», ma ora Lusi aggiunge un nuovo dettaglio: «Accadde prima del 2007», dunque quando la Margherita era ancora un partito autonomo e Rutelli era vicepresidente del Consiglio con il governo guidato a Romano Prodi. L'ennesima bordata in una guerra che appare senza fine.
Fonte: corriere.it
10 mag 2012
Duemila euro al mese per le candidature della Lega
Dopo la finta laurea, le finte donazioni con evasione fiscale incorporata.
Nella serata di ieri, la Procura di Forlì (fortemente specializzata in evasori fiscali, data la contiguità territoriale con San Marino) ha sequestrato alcune carte in Via Bellerio, sede della Lega Nord, nell'ambito di un'inchiesta di cui ancora poco si conosce, forse scaturita da riscontri documentali (rogiti, contratti, assegni) nonché dalle dichiarazioni di Francesco Belsito e Nadia Dagrada, i custodi della cassaforte del movimento politico.
A partire dal 2000, i prescelti dalla Lega Nord, hanno di fatto comprato la propria candidatura impegnandosi – come condizione irrinunciabile – davanti a un notaio a versare circa 2000 euro (alla prima elezione) o 2400 euro (a quelle successive) per tutti i 60 mesi legislatura, in cambio delle spese elettorali che il partito anticipava loro. L'atto privato diventava pubblico e registrato a elezione avvenuta, oppure decadeva in caso di mancato seggio o di fine anticipata della legislatura. Nella dichiarazione dei redditi, poi, i versamenti mensili degli eletti e del partito comparivano come semplici donazioni. Secondo il Procuratore di Forlì Sergio Sottani e del suo sostituto Fabio Di Vizio, in questo meccanismo ci sarebbero molte cose che non vanno dal punto di vista fiscale.
Innanzitutto, messa in questi termini, la donazione non solo è simulata, ma proprio nulla, perché il donatore si impegna per beni che non possiede ancora e, dice la legge, il notaio non può rogare atti nulli. Nel racconto della Dagrada, invece, a ridosso delle elezioni nella sede di Via Bellerio di questi atti se ne stipulavano a centinaia in un sol giorno. E prima dell'apertura delle urne bisognava versare una bella caparra. Secondo gli inquirenti, il marchingegno notarile serviva agli eletti per detrarre dall'imposta lorda il 19% e alla Lega "venditrice" del posto in Parlamento a non pagare alcuna imposta (i partiti sono esenti dall'imposta di donazione).
Insomma, grazie ai crediti d'imposta maturati, i parlamentari – ministri compresi – hanno di fatto annullato per tutti questi dieci anni il 'peso' economico della "donazione", non perdendo nulla, neppure i soldi versati. Sarebbe interessante, a questo punto, verificare se lo stesso sistema non sia utilizzato da tutti i partiti e non solo dalla Lega Nord (la quale, peraltro, non avrebbe presentato mai alcuna dichiarazione dei redditi).
Intanto, nella serata di giovedì, il senatore Roberto Calderoli ha precisato con un comunicato stampa che Lega Nord querelerà chiunque parli di acquisto di candidature. E ha aggiunto: «La Lega Nord presenterà querela nei confronti di chiunque ha parlato o parlerà di acquisto di candidature. È' indegno che si cerchi di sporcare e far passare sotto una luce negativa anche il fatto che i parlamentari, lodevolmente e in maniera volontaria, vogliono aiutare e sostenere il movimento per cui militano e che li ha eletti».
Fonte: ilsole24ore.com
Nella serata di ieri, la Procura di Forlì (fortemente specializzata in evasori fiscali, data la contiguità territoriale con San Marino) ha sequestrato alcune carte in Via Bellerio, sede della Lega Nord, nell'ambito di un'inchiesta di cui ancora poco si conosce, forse scaturita da riscontri documentali (rogiti, contratti, assegni) nonché dalle dichiarazioni di Francesco Belsito e Nadia Dagrada, i custodi della cassaforte del movimento politico.
A partire dal 2000, i prescelti dalla Lega Nord, hanno di fatto comprato la propria candidatura impegnandosi – come condizione irrinunciabile – davanti a un notaio a versare circa 2000 euro (alla prima elezione) o 2400 euro (a quelle successive) per tutti i 60 mesi legislatura, in cambio delle spese elettorali che il partito anticipava loro. L'atto privato diventava pubblico e registrato a elezione avvenuta, oppure decadeva in caso di mancato seggio o di fine anticipata della legislatura. Nella dichiarazione dei redditi, poi, i versamenti mensili degli eletti e del partito comparivano come semplici donazioni. Secondo il Procuratore di Forlì Sergio Sottani e del suo sostituto Fabio Di Vizio, in questo meccanismo ci sarebbero molte cose che non vanno dal punto di vista fiscale.
Innanzitutto, messa in questi termini, la donazione non solo è simulata, ma proprio nulla, perché il donatore si impegna per beni che non possiede ancora e, dice la legge, il notaio non può rogare atti nulli. Nel racconto della Dagrada, invece, a ridosso delle elezioni nella sede di Via Bellerio di questi atti se ne stipulavano a centinaia in un sol giorno. E prima dell'apertura delle urne bisognava versare una bella caparra. Secondo gli inquirenti, il marchingegno notarile serviva agli eletti per detrarre dall'imposta lorda il 19% e alla Lega "venditrice" del posto in Parlamento a non pagare alcuna imposta (i partiti sono esenti dall'imposta di donazione).
Insomma, grazie ai crediti d'imposta maturati, i parlamentari – ministri compresi – hanno di fatto annullato per tutti questi dieci anni il 'peso' economico della "donazione", non perdendo nulla, neppure i soldi versati. Sarebbe interessante, a questo punto, verificare se lo stesso sistema non sia utilizzato da tutti i partiti e non solo dalla Lega Nord (la quale, peraltro, non avrebbe presentato mai alcuna dichiarazione dei redditi).
Intanto, nella serata di giovedì, il senatore Roberto Calderoli ha precisato con un comunicato stampa che Lega Nord querelerà chiunque parli di acquisto di candidature. E ha aggiunto: «La Lega Nord presenterà querela nei confronti di chiunque ha parlato o parlerà di acquisto di candidature. È' indegno che si cerchi di sporcare e far passare sotto una luce negativa anche il fatto che i parlamentari, lodevolmente e in maniera volontaria, vogliono aiutare e sostenere il movimento per cui militano e che li ha eletti».
Fonte: ilsole24ore.com
7 apr 2012
Una finta caparra. Sono il tesoriere più pazzo del mondo
Belsito paga per evitare una denuncia a una dipendente della Lega accusata di truffa e falsifica una delibera per investire in Tanzania
MILANO - «Il tesoriere più pazzo del mondo». Autodefinizione di Francesco Belsito. Il bancomat della Lega. Che oltre a tamponare «i costi della famiglia» Bossi sostenuti con i soldi pubblici, e oltre a curare i propri affari sul filo di quell'appropriazione indebita ai danni della Lega sui quali indagano i pm milanesi Robledo-Pellicano-Filippini per gli investimenti dei rimborsi elettorali in Tanzania e Cipro, a volte risolveva anche reali esigenze del partito, seppure di genere non esattamente commendevole. Come quando all'inizio di febbraio - spiegano i carabinieri del Noe ai pm napoletani sulla base delle intercettazioni tra Belsito e la responsabile contabile leghista Nadia Dagrada - corre a «prelevare denaro utilizzato per redimere diatribe private ed elargire 300.000 euro all'imprenditrice Silvana Corrado Quarantotto affinché costei, gravata da ingenti debiti aziendali, evitasse di denunciare una dipendente della Lega accusata di truffa, ed evitare così un danno di immagine della Lega».
Finta caparra per evitare la denuncia
La modalità escogitata dal tesoriere leghista è singolarmente simile allo schema di recente emerso già in indagini su esponenti di altri partiti, come il pd Filippo Penati o il pdl Massimo Ponzoni: e cioè il ricorso a una finta caparra, da lasciare poi scadere nel quadro di un fittizio affare immobiliare.
Belsito : «Quel capannone che loro hanno (la ditta Corrado sas, ndr ), noi tecnicamente come Lega ci reggerebbe il fatto che io faccio un compromesso, poi dico "vabbeh ci abbiamo ripensato, non ci serve, ci hanno restituito la caparra", hai capito? Cosa dici? È l'unica, se no io non vedo niente».
Ma perché la Lega doveva pagare il silenzio dell'imprenditrice? Spiega l'altro giorno Dagrada ai pm: «La questione riguardava una richiesta/truffa di 30.000 euro fatta secondo l'imprenditrice da una dipendente scorretta della Lega, che si era presentata come segretaria di Bossi e millantando vicinanza con lui, per una pratica di finanziamento di 1 milione di euro». È Helga Giordano, già assessore al Bilancio del Comune di Sedriano, poi dipendente di via Bellerio come contabile, quindi a suo dire mobbizzata e licenziata all'inizio del 2012. Al pm napoletano Curcio il 3 aprile assicura che «a Belsito avevo spiegato che erano tutte fandonie e che mi ero limitata a intermediare senza millantare alcunché» con Silvana Corrado Quarantotto. Fatto sta che, conferma ora Dagrada , «Belsito consegnò personalmente all'imprenditrice un assegno di 140.000 euro», e poi altri «130.000 con un compromesso fittizio per l'acquisto di un capannone della Corrado». E aggiunge un dettaglio da barzelletta: «Proprio stamane», cioè il giorno delle perquisizioni, «sapevo che Belsito le avrebbe consegnato un altro assegno di 40.000 euro a Genova nel solito bar».
La delibera di partito sbianchettata
Come ha fatto il tesoriere della Lega a operare l'acrobatico investimento in Tanzania di 7 milioni di rimborsi elettorali spediti a Cipro con l'intermediazione dell'imprenditore Stefano Bonet? La risposta traspare dall'argomento di una conversazione intercettata l'8 febbraio. In essa, riassumono i carabinieri, Belsito spiega a Dagrada che «con Bonet collabora da almeno 3 anni e che il 70% dei 450 milioni di euro di fatturato della "Po.La.Re." (la società genovese di Bonet) è merito suo, realizzato grazie ai suoi poteri "relazionali" da tesoriere della Lega». Qui Belsito e Dagrada finiscono con parlare «di una delibera della Lega», quella «che prevede per Belsito una autonomia di firma per le operazioni finanziarie sino a 150.000 euro»: solo che «Belsito l'avrebbe modificata, cancellando la riga della delibera nella parte in cui specificava questo limite. E ciò al fine di poter impartire alla banca diposizioni per effettuare proprio l'operazione dei 7 milioni di euro, poi dati a Bonet per l'investimento in Tanzania».
Rosy Mauro e «lo scandalo del 1996»
Sulla vicepresidente leghista del Senato, Belsito e Dagrada non sono teneri quando le attribuiscono ripetute elargizioni di denaro come i 29.150 franchi svizzeri, robusti finanziamenti al sindacato padano Sinpa (60.000 euro ancora nel 2011), 120.000 euro di costo di diplomi e lauree in Svizzera per lei e per il suo segretario particolare al Senato, cessione di un'auto a condizioni di favore. Ma in più di un'intercettazione spunta un'altra ragione per cui Rosy Mauro non sarebbe in condizione di «fare la spiritosa»: soldi a «l'amico della tua tipa», un uomo nella sua orbita, di cui si evoca già uno «scandalo» di 16 anni fa.
Dagrada : «L'amico della tua tipa che ha preso tutti quei soldi, perché cavolo li ha presi, te lo sei fatto dire?».
Belsito : «Non gliel'ho chiesto».
Dagrada : «I capelli bianchi, sai che gli hai fatto quella roba...».
Belsito : «Ah sì».
Dagrada : «Ecco, eh! Tu le armi in mano ce l'hai, questi sono convinti che tu non parli, stai lì e subisci... Te lo ricordi quanto?
Belsito : «Eeeeh certo... Perché, secondo te, il terzo che ho pagato è normale? Dai, su, non mi fare ridere».
Dagrada : «E appunto ti sto dicendo, capelli bianchi, per giunta era dentro in quello scandalo là del '96, che ti avevo detto o Vieni o Vieri, non mi ricordo più come cavolo si chiama».
Belsito : «Vieni».
Dagrada : «Ecco, quelli lì (soldi, ndr ) per che cosa sono? Che, lui non è niente, eh? A chi sono finiti poi?».
Belsito : «Eh, lo so io».
Dagrada : «Ecco, bon. E allora...».
Belsito : «Io quello che non capisco di lei, che fa ancora la spiritosa».
Dagrada : «Ma secondo me lei è convinta che tu non parlerai mai».
Il «Vieni» del «1996» è un cognome storpiato: il 7 febbraio 1996, infatti, Basilio Rizzo - oggi presidente del Consiglio comunale milanese e all'epoca consigliere d'opposizione al sindaco leghista Formentini, quando anche l'allora segretaria cittadina leghista Rosy Mauro era consigliere comunale - aveva presentato una interrogazione sull'autorizzazione concessa a trattativa privata il 22 gennaio dall'azienda municipale della nettezza urbana «Amsa» alla cooperativa «Astri» per un impianto di selezione automatica dei rifiuti. Erano così emerse alcune stranezze: Dalmirino Ovieni (non Vieni), interlocutore di «Amsa» per conto della cooperativa «Astri», figurava consigliere in una società (la «Ba.Co. costruzioni srl») di cui Rosy Mauro per alcuni mesi nel 1994 era stata amministratrice, e dalla cui sede erano stati inviati all'Amsa i fax con le offerte della cooperativa «Astri», recanti il nome di Ovieni come mittente; Ovieni, che nel 1994 aveva trascorso un periodo di custodia cautelare per fatti di corruzione, era infine anche fondatore e consigliere della società consortile «Il Quartiere», formata dal sindacato leghista e presieduta da Rosy Mauro. Cinque cronisti politici del Corriere , querelati da Rosy Mauro per averne scritto, in sede penale furono condannati per diffamazione, mentre in sede civile la richiesta di risarcimento fu respinta.
Interrogata ora dai pm Filippini e Woodcock, Dagrada chiarisce che i soldi pagati da Belsito all'amico di Rosy Mauro sono stati 48.000 euro nel 2011: «Per quanto attiene agli assegni circolari di tale Delmirino Ovieni, posso dire sono stati fatti pagamenti da parte di Belsito, riconducibile a Rosy Mauro. I 48.000 euro nel 2011 apparivano privi di causa, e Belsito volutamente non mi ha risposto. Chiesi chi fosse Ovieni, ma anche a questa domanda non mi ha risposto. Allora ho fatto una ricerca su Google e ho visto che c'era un rapporto pregresso tra Ovieni e Mauro».
Fonte: corriere.it
27 lug 2010
Il Riesame e l’allarme sulla rete occulta: quei rapporti tra Verdini e Carboni
«Appoggi politici alla società segreta»
ROMA — L'associazione creata da Flavio Carboni con Pasquale Lombardi e Arcangelo Martino è «un'organizzazione occulta che basa la sua forza su una fittissima rete di conoscenze e amicizie con soggetti ricoprenti cariche istituzionali di alto e altissimo rilievo, pronti a intervenire in aiuto del sodalizio in cambio di favori». Il tribunale del Riesame di Roma convalida così l’impianto accusatorio delineato dalle indagini condotte dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e avverte: «Emerge dagli atti un concreto e molto allarmante pericolo di reiterazione del reato; appare assolutamente necessario impedire che la prosecuzione dell’attività delittuosa condizioni ulteriormente gli equilibri istituzionali e l’affidabilità sociale di istituzioni pubbliche, anche di livello costituzionale, fra cui importanti uffici giudiziari ».
Soldi da «canali oscuri»
Per questo la scorsa settimana il collegio ha confermato la custodia cautelare in carcere degli indagati e ha inserito nella motivazione del provvedimento considerazioni pesanti anche sulla condotta dei parlamentari coinvolti nell’inchiesta. Nel documento è scritto: «L’associazione segreta risulta essere nota solo a pochissimi soggetti che le garantivano appoggio politico come l’onorevole Denis Verdini, ovvero che ad essa si rivolgevano per chiederne l’intervento o per aiutarla a portare a termine le azioni programmate in nome di interessi comuni come nel caso dell’onorevole Marcello Dell’Utri ». E ancora: «Per la realizzazione dei propri fini, l’associazione criminale risulta disporre di mezzi finanziari che Carboni reperisce da canali oscuri e che in parte destina ad operazioni atte a favorire Verdini». Il riferimento è al Credito Cooperativo Toscano e ai versamenti effettuati presso l’istituto di credito del quale il coordinatore del Pdl è stato presidente fino a ieri, con un’attenzione particolare all’investimento da quattro milioni di euro degli imprenditori di Forlì che secondo l’accusa doveva servire all’ingresso dell’affare riguardante gli impianti eolici in Sardegna e ai due milioni e 600 mila euro "negoziati" sempre da lui nel 2004. Ma non solo. I giudici analizzano una dopo l’altra le «interferenze» della presunta società segreta ed evidenziano come «il gruppo ha operato in un complesso intreccio di interessi condivisi, minacce, benefici procurati o promessi, il quale generava un potere di fatto che consentiva ai membri del gruppo di proporsi — perfino a personalità di alto livello—quali efficaci elementi di pressione e di intervento presso i più diversi organi dello Stato». Non a caso i giudici escludono che gli indagati «abbiano svolto attività di lobby», essendo invece «un gruppo di potere occulto e autonomo rispetto a quanti costituiscono l’ambiente nel quale esso si muove e con il quale pure instaura dinamiche complesse».
I sei giudici costituzionali
Un intero capitolo è dedicato alle pressioni sulla Consulta per la decisione sul Lodo Alfano. «Non si comprende— si sottolinea nell’ordinanza— come Lombardi potesse pensare di acquisire meriti agli occhi del capo del suo partito, che è anche presidente del Consiglio, svolgendo un’azione manifestamente illecita come il richiedere a giudici della Corte Costituzionale di esprimere a lui anticipatamente la decisione che avrebbero adottato il 6 ottobre 2009. Resta il fatto che tale ingerenza ci fu e venne esercitata su almeno sei giudici costituzionali che anticiparono a un soggetto come Lombardi la loro decisione, che tale operazione fu seguita con lamassima attenzione da Carboni e che l’intera operazione venne programmata nel corso della riunione del 23 settembre 2009 svoltasi presso l’abitazione romana di Verdini ». Gli indagati e alcuni partecipanti hanno sostenuto che quell’incontro serviva in realtà a proporre la candidatura a governatore della Campania al magistrato Arcibaldo Miller, attuale capo degli ispettori del ministero della Giustizia, presente insieme al collega Antonio Martone. Ma i giudici scrivono: «Si tratta di affermazioni palesemente false in quanto l’unico candidato sostenuto dall’associazione criminale era l’onorevole Nicola Cosentino e proprio della sua candidatura si discusse in quella riunione ».
Pressioni e depistaggi
Secondo i giudici del Riesame «lascia esterrefatti che un personaggio come Lombardi si sia potuto rivolgere con le sue volgari modalità al presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli e addirittura il primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone si premura di comunicare personalmente a Lombardi la data dell’udienza (relativa al ricordo di Cosentino; ndr) e riceve olio e promesse per il suo futuro. Con le stesse modalità Lombardi si rivolge a sottosegretari in carica nel presente governo come Giacomo Caliendo e Nicola Cosentino per ottenere aiuti nella realizzazione dei progetti del sodalizio ». In questo quadro i giudici inseriscono anche il dossieraggio contro il presidente della Campania Stefano Caldoro. «Ernesto Sica (l’assessore; ndr) — affermano — risulta essere la persona che ha fatto predisporre i dossier, mentre Cosentino segue la vicenda giorno per giorno, venendo informato da martino di ogni passo compiuto e concordando con questi cosa riferire a Verdini». I giudici evidenziano anche la volontà di depistaggio sottolineando come «gli associati disponevano di numerosissime utenze cellulari, spesso intestate a soggetti stranieri, al fine di poter comunicare riservatamente evitando il pericolo di essere intercettati». Una cautela che comunque non è bastata visto che sono state proprio le intercettazioni telefoniche e le successive verifiche a consentire di ricostruire «la metodica attività di interferenza del sodalizio e il suo fine di personale arricchimento e rafforzamento del proprio potere».
Fonte: corriere.it
ROMA — L'associazione creata da Flavio Carboni con Pasquale Lombardi e Arcangelo Martino è «un'organizzazione occulta che basa la sua forza su una fittissima rete di conoscenze e amicizie con soggetti ricoprenti cariche istituzionali di alto e altissimo rilievo, pronti a intervenire in aiuto del sodalizio in cambio di favori». Il tribunale del Riesame di Roma convalida così l’impianto accusatorio delineato dalle indagini condotte dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e avverte: «Emerge dagli atti un concreto e molto allarmante pericolo di reiterazione del reato; appare assolutamente necessario impedire che la prosecuzione dell’attività delittuosa condizioni ulteriormente gli equilibri istituzionali e l’affidabilità sociale di istituzioni pubbliche, anche di livello costituzionale, fra cui importanti uffici giudiziari ».
Soldi da «canali oscuri»
Per questo la scorsa settimana il collegio ha confermato la custodia cautelare in carcere degli indagati e ha inserito nella motivazione del provvedimento considerazioni pesanti anche sulla condotta dei parlamentari coinvolti nell’inchiesta. Nel documento è scritto: «L’associazione segreta risulta essere nota solo a pochissimi soggetti che le garantivano appoggio politico come l’onorevole Denis Verdini, ovvero che ad essa si rivolgevano per chiederne l’intervento o per aiutarla a portare a termine le azioni programmate in nome di interessi comuni come nel caso dell’onorevole Marcello Dell’Utri ». E ancora: «Per la realizzazione dei propri fini, l’associazione criminale risulta disporre di mezzi finanziari che Carboni reperisce da canali oscuri e che in parte destina ad operazioni atte a favorire Verdini». Il riferimento è al Credito Cooperativo Toscano e ai versamenti effettuati presso l’istituto di credito del quale il coordinatore del Pdl è stato presidente fino a ieri, con un’attenzione particolare all’investimento da quattro milioni di euro degli imprenditori di Forlì che secondo l’accusa doveva servire all’ingresso dell’affare riguardante gli impianti eolici in Sardegna e ai due milioni e 600 mila euro "negoziati" sempre da lui nel 2004. Ma non solo. I giudici analizzano una dopo l’altra le «interferenze» della presunta società segreta ed evidenziano come «il gruppo ha operato in un complesso intreccio di interessi condivisi, minacce, benefici procurati o promessi, il quale generava un potere di fatto che consentiva ai membri del gruppo di proporsi — perfino a personalità di alto livello—quali efficaci elementi di pressione e di intervento presso i più diversi organi dello Stato». Non a caso i giudici escludono che gli indagati «abbiano svolto attività di lobby», essendo invece «un gruppo di potere occulto e autonomo rispetto a quanti costituiscono l’ambiente nel quale esso si muove e con il quale pure instaura dinamiche complesse».
I sei giudici costituzionali
Un intero capitolo è dedicato alle pressioni sulla Consulta per la decisione sul Lodo Alfano. «Non si comprende— si sottolinea nell’ordinanza— come Lombardi potesse pensare di acquisire meriti agli occhi del capo del suo partito, che è anche presidente del Consiglio, svolgendo un’azione manifestamente illecita come il richiedere a giudici della Corte Costituzionale di esprimere a lui anticipatamente la decisione che avrebbero adottato il 6 ottobre 2009. Resta il fatto che tale ingerenza ci fu e venne esercitata su almeno sei giudici costituzionali che anticiparono a un soggetto come Lombardi la loro decisione, che tale operazione fu seguita con lamassima attenzione da Carboni e che l’intera operazione venne programmata nel corso della riunione del 23 settembre 2009 svoltasi presso l’abitazione romana di Verdini ». Gli indagati e alcuni partecipanti hanno sostenuto che quell’incontro serviva in realtà a proporre la candidatura a governatore della Campania al magistrato Arcibaldo Miller, attuale capo degli ispettori del ministero della Giustizia, presente insieme al collega Antonio Martone. Ma i giudici scrivono: «Si tratta di affermazioni palesemente false in quanto l’unico candidato sostenuto dall’associazione criminale era l’onorevole Nicola Cosentino e proprio della sua candidatura si discusse in quella riunione ».
Pressioni e depistaggi
Secondo i giudici del Riesame «lascia esterrefatti che un personaggio come Lombardi si sia potuto rivolgere con le sue volgari modalità al presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli e addirittura il primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone si premura di comunicare personalmente a Lombardi la data dell’udienza (relativa al ricordo di Cosentino; ndr) e riceve olio e promesse per il suo futuro. Con le stesse modalità Lombardi si rivolge a sottosegretari in carica nel presente governo come Giacomo Caliendo e Nicola Cosentino per ottenere aiuti nella realizzazione dei progetti del sodalizio ». In questo quadro i giudici inseriscono anche il dossieraggio contro il presidente della Campania Stefano Caldoro. «Ernesto Sica (l’assessore; ndr) — affermano — risulta essere la persona che ha fatto predisporre i dossier, mentre Cosentino segue la vicenda giorno per giorno, venendo informato da martino di ogni passo compiuto e concordando con questi cosa riferire a Verdini». I giudici evidenziano anche la volontà di depistaggio sottolineando come «gli associati disponevano di numerosissime utenze cellulari, spesso intestate a soggetti stranieri, al fine di poter comunicare riservatamente evitando il pericolo di essere intercettati». Una cautela che comunque non è bastata visto che sono state proprio le intercettazioni telefoniche e le successive verifiche a consentire di ricostruire «la metodica attività di interferenza del sodalizio e il suo fine di personale arricchimento e rafforzamento del proprio potere».
Fonte: corriere.it
16 lug 2010
Sica, il finto «scemo della compagnia» che sognava di fare il governatore
Dalle minacce a Verdini al dossier taroccato
Caldoro: «Ho avuto paura per mia figlia»
NAPOLI — Forse non è affatto ’o cchiù scemo da ’a compagnia, come, con comprensibile minimalismo, ha provato a definirsi adesso che il guaio è bell’e combinato. Mentre i veleni napoletani tracimano fino a lambire Palazzo Chigi, Ernesto Sica, il falstaffiano ex ragazzo prodigio della politica campana (dicono che abbia perso 40 chili per compiacere i canoni estetici di Berlusconi e sedersi così su uno scranno da assessore regionale), si racconta «distrutto» e «vittima di una leggerezza», prima di affrontare (ieri sera) la piccola battaglia comunale a Pontecagnano (il paese del Salernitano di cui è sindaco) e in attesa di una prova più dura venerdì, quando ha promesso la sua verità in una conferenza stampa che a Napoli inizia a profilarsi come un’ordalia. Eppure non pare una piccola rotella dell’ingranaggio questo transfuga demitiano dalle molte cariche (si tiene stretta anche la poltrona di presidente del consorzio aeroportuale e a fatica ha mollato quella da assessore provinciale di Salerno).
Voci di dentro del Pdl sussurrano che avesse portato direttamente ai massimi livelli romani il dossier su Stefano Caldoro, un puro tarocco grazie al quale Denis Verdini avrebbe poi premuto sul futuro governatore della Campania per farlo ritirare dalla corsa a vantaggio dell’impresentabile Nicola Cosentino. Vera o falsa che sia la circostanza in questa giostra di dolori e rancori che è diventato il centrodestra napoletano, è difficile non intravedere dietro l’ambizioso giovanotto, folgorato dal berlusconismo ma un tempo noto per le faraoniche feste nazionali della Margherita a Pontecagnano, uno sponsor ben più prestigioso di Nick U’ Mericano. Infatti fu direttamente Berlusconi a sollecitare con Caldoro, appena eletto, un assessorato («al nulla», dirà maligno il pd Enzo De Luca) per il buon Ernesto, dopo averne addirittura vagheggiato la candidatura a presidente della Regione per una notte, quando sul bivio Caldoro-Cosentino parevano incagliarsi le scelte del partito. «Che ne dici di Sica?», suggerì dunque felpato il Cavaliere al suo governatore fresco di vittoria. Una fonte racconta che Caldoro non sapesse nemmeno chi fosse Sica ma sapesse interpretare senza equivoci i toni del leader. E per Ernesto fu assessorato all’Avvocatura, utile chissà a cosa. Comincia così la tammurriata che in pochi giorni ha terremotato tanto gravemente il sistema di potere alle falde del Vesuvio da spingere Marco Demarco, il direttore del Corriere del Mezzogiorno, a scrivere asciutto «ci devono spiegare chi comanda in Campania» nel suo editoriale e a piazzare in una vignetta di prima pagina un profilo indubitabilmente caldoriano con un gran punto interrogativo al posto della faccia. È una giornata afosa e dura, e Stefano Caldoro sorseggia Coca cola da Ciampini, nel cuore della Roma del potere, a due passi da Montecitorio. Colleghi di partito passano e lo abbracciano, tra loro Gigino ’A purpetta Cesaro, presidente della Provincia di Napoli, a sua volta inquisito e buon amico di Cosentino. Caldoro riflette ad alta voce: «Io ho un ruolo, quello del governatore, e so come interpretarlo. Non lo so chi c’è dietro, Cosentino è venuto a dirmi che è una vittima e non ne sa niente di questa faccenda. Del resto da lui, che è coordinatore del partito campano, non ho mai avuto una pressione. No, Berlusconi non l’ho sentito, Letta nemmeno, ma mi ha chiamato Bonaiuti, mi hanno chiamato i capigruppo, in tanti...».
Difficile distinguere forma e sostanza, amici veri e di maniera. «Io di Berlusconi mi fido completamente, tra noi c’è un rapporto molto trasparente. In questi giorni ho avuto paura per mia figlia, ma lei è in gamba, la famiglia tiene». Sembra tenere anche lui, Caldoro, scuola socialista d’antan, politico freddo fino all’ultimo sorso di Coca Cola: «Mi spiace che, per il caso montato da tre scemi che si sono mossi come Totò, ci si dimentichi delle cose serie. Non è Cosentino il problema, il problema è il miliardo e passa di impegni della giunta Bassolino che ho dovuto bloccare...». Tira una forte aria di redde rationem, tra Roma e Napoli. Italo Bocchino, ormai vero giamburrasca del post-berlusconismo, vittima come Caldoro di veline taroccate, va giù piatto: «Al netto delle responsabilità penali, Berlusconi prenda atto che la Campania è diventata un postaccio, azzeri tutti: non si può lasciare il partito in mano a chi fabbrica dossier». Su Cosentino e sulle sue deleghe da sottosegretario pende una mozione parlamentare Idv-Pd, il partito vorrebbe evitare di farla discutere la prossima settimana, le dimissioni di U’ Mericano potrebbero essere imminenti. Ma in queste ore a rosolare sulla graticola c’è ancora Sica, uno che, per i canoni di un partito ormai flagellato dai telefonini, parla con gran disinvoltura. In un’intercettazione, narrando di avere caldeggiato la propria candidatura a governatore, si spinge a raccontare d’avere «minacciato Verdini»: «Io sono un sindaco di paese ma sappia il Presidente che non mi fermo, racconterò da agosto 2007 fino a oggi cos’è accaduto... Berlusconi può fare tutto». Che cosa voleva dire? E cosa c’entra un «sindaco di paese» con l’uomo più potente d’Italia?
Risalendo, di estate in estate e di amico in amico, da Sica si arriva fino a un altro personaggio ricco e potente, il re del cellophane Davide Cincotti: papà costruttore edile, azienda di famiglia a Battipaglia (due passi da Pontecagnano), riservatezza leggendaria rotta solo da un’incursione di Panorama che dieci anni fa lo proclamò «quarto Paperone d’Italia», villa in Sardegna e frequentazioni storiche con Paolo e Silvio Berlusconi. Cincotti, che ieri non ha risposto a una richiesta di colloquio del Corriere, è secondo molti l’uomo che introduce il giovane e intraprendente Sica nel gran mondo. Sarà l’inchiesta a dire se da quel mondo il sindaco di Pontecagnano s’è portato appresso materia «sensibile» nell’altro mondo, il mondaccio fetido di ricatti che adesso, verbale dopo verbale, si va delineando. Il mondo che costrinse Caldoro, accompagnato da Mara Carfagna, a giustificarsi nell’ufficio di Berlusconi sul dossier che gli attribuiva storie alla Marrazzo, coi trans: «È tutto falso, ho gusti sessuali normalissimi», dovette umilmente chiarire il candidato. «E bravo, Stefano: proprio come il tuo presidente!», si sentì rispondere.
Fonte: corriere.it
Caldoro: «Ho avuto paura per mia figlia»
NAPOLI — Forse non è affatto ’o cchiù scemo da ’a compagnia, come, con comprensibile minimalismo, ha provato a definirsi adesso che il guaio è bell’e combinato. Mentre i veleni napoletani tracimano fino a lambire Palazzo Chigi, Ernesto Sica, il falstaffiano ex ragazzo prodigio della politica campana (dicono che abbia perso 40 chili per compiacere i canoni estetici di Berlusconi e sedersi così su uno scranno da assessore regionale), si racconta «distrutto» e «vittima di una leggerezza», prima di affrontare (ieri sera) la piccola battaglia comunale a Pontecagnano (il paese del Salernitano di cui è sindaco) e in attesa di una prova più dura venerdì, quando ha promesso la sua verità in una conferenza stampa che a Napoli inizia a profilarsi come un’ordalia. Eppure non pare una piccola rotella dell’ingranaggio questo transfuga demitiano dalle molte cariche (si tiene stretta anche la poltrona di presidente del consorzio aeroportuale e a fatica ha mollato quella da assessore provinciale di Salerno).
Voci di dentro del Pdl sussurrano che avesse portato direttamente ai massimi livelli romani il dossier su Stefano Caldoro, un puro tarocco grazie al quale Denis Verdini avrebbe poi premuto sul futuro governatore della Campania per farlo ritirare dalla corsa a vantaggio dell’impresentabile Nicola Cosentino. Vera o falsa che sia la circostanza in questa giostra di dolori e rancori che è diventato il centrodestra napoletano, è difficile non intravedere dietro l’ambizioso giovanotto, folgorato dal berlusconismo ma un tempo noto per le faraoniche feste nazionali della Margherita a Pontecagnano, uno sponsor ben più prestigioso di Nick U’ Mericano. Infatti fu direttamente Berlusconi a sollecitare con Caldoro, appena eletto, un assessorato («al nulla», dirà maligno il pd Enzo De Luca) per il buon Ernesto, dopo averne addirittura vagheggiato la candidatura a presidente della Regione per una notte, quando sul bivio Caldoro-Cosentino parevano incagliarsi le scelte del partito. «Che ne dici di Sica?», suggerì dunque felpato il Cavaliere al suo governatore fresco di vittoria. Una fonte racconta che Caldoro non sapesse nemmeno chi fosse Sica ma sapesse interpretare senza equivoci i toni del leader. E per Ernesto fu assessorato all’Avvocatura, utile chissà a cosa. Comincia così la tammurriata che in pochi giorni ha terremotato tanto gravemente il sistema di potere alle falde del Vesuvio da spingere Marco Demarco, il direttore del Corriere del Mezzogiorno, a scrivere asciutto «ci devono spiegare chi comanda in Campania» nel suo editoriale e a piazzare in una vignetta di prima pagina un profilo indubitabilmente caldoriano con un gran punto interrogativo al posto della faccia. È una giornata afosa e dura, e Stefano Caldoro sorseggia Coca cola da Ciampini, nel cuore della Roma del potere, a due passi da Montecitorio. Colleghi di partito passano e lo abbracciano, tra loro Gigino ’A purpetta Cesaro, presidente della Provincia di Napoli, a sua volta inquisito e buon amico di Cosentino. Caldoro riflette ad alta voce: «Io ho un ruolo, quello del governatore, e so come interpretarlo. Non lo so chi c’è dietro, Cosentino è venuto a dirmi che è una vittima e non ne sa niente di questa faccenda. Del resto da lui, che è coordinatore del partito campano, non ho mai avuto una pressione. No, Berlusconi non l’ho sentito, Letta nemmeno, ma mi ha chiamato Bonaiuti, mi hanno chiamato i capigruppo, in tanti...».
Difficile distinguere forma e sostanza, amici veri e di maniera. «Io di Berlusconi mi fido completamente, tra noi c’è un rapporto molto trasparente. In questi giorni ho avuto paura per mia figlia, ma lei è in gamba, la famiglia tiene». Sembra tenere anche lui, Caldoro, scuola socialista d’antan, politico freddo fino all’ultimo sorso di Coca Cola: «Mi spiace che, per il caso montato da tre scemi che si sono mossi come Totò, ci si dimentichi delle cose serie. Non è Cosentino il problema, il problema è il miliardo e passa di impegni della giunta Bassolino che ho dovuto bloccare...». Tira una forte aria di redde rationem, tra Roma e Napoli. Italo Bocchino, ormai vero giamburrasca del post-berlusconismo, vittima come Caldoro di veline taroccate, va giù piatto: «Al netto delle responsabilità penali, Berlusconi prenda atto che la Campania è diventata un postaccio, azzeri tutti: non si può lasciare il partito in mano a chi fabbrica dossier». Su Cosentino e sulle sue deleghe da sottosegretario pende una mozione parlamentare Idv-Pd, il partito vorrebbe evitare di farla discutere la prossima settimana, le dimissioni di U’ Mericano potrebbero essere imminenti. Ma in queste ore a rosolare sulla graticola c’è ancora Sica, uno che, per i canoni di un partito ormai flagellato dai telefonini, parla con gran disinvoltura. In un’intercettazione, narrando di avere caldeggiato la propria candidatura a governatore, si spinge a raccontare d’avere «minacciato Verdini»: «Io sono un sindaco di paese ma sappia il Presidente che non mi fermo, racconterò da agosto 2007 fino a oggi cos’è accaduto... Berlusconi può fare tutto». Che cosa voleva dire? E cosa c’entra un «sindaco di paese» con l’uomo più potente d’Italia?
Risalendo, di estate in estate e di amico in amico, da Sica si arriva fino a un altro personaggio ricco e potente, il re del cellophane Davide Cincotti: papà costruttore edile, azienda di famiglia a Battipaglia (due passi da Pontecagnano), riservatezza leggendaria rotta solo da un’incursione di Panorama che dieci anni fa lo proclamò «quarto Paperone d’Italia», villa in Sardegna e frequentazioni storiche con Paolo e Silvio Berlusconi. Cincotti, che ieri non ha risposto a una richiesta di colloquio del Corriere, è secondo molti l’uomo che introduce il giovane e intraprendente Sica nel gran mondo. Sarà l’inchiesta a dire se da quel mondo il sindaco di Pontecagnano s’è portato appresso materia «sensibile» nell’altro mondo, il mondaccio fetido di ricatti che adesso, verbale dopo verbale, si va delineando. Il mondo che costrinse Caldoro, accompagnato da Mara Carfagna, a giustificarsi nell’ufficio di Berlusconi sul dossier che gli attribuiva storie alla Marrazzo, coi trans: «È tutto falso, ho gusti sessuali normalissimi», dovette umilmente chiarire il candidato. «E bravo, Stefano: proprio come il tuo presidente!», si sentì rispondere.
Fonte: corriere.it
11 lug 2010
Le carte - Pressioni sul Csm per la nomina del presidente della Corte d’Appello di Milano
Nelle telefonate anche l’interessamento del governatore lombardo.
«Un’ispezione contro i giudici nemici»
L’accusa: le manovre (fallite) per far riammettere alle elezioni la lista Formigoni
ROMA — Non ci furono solo i tentativi di interferire sulla Corte costituzionale che doveva decidere il destino del «Lodo Alfano», o di agevolare il ricorso in Cassazione del sottosegretario Nicola Cosentino contro la richiesta d’arresto per concorso con la camorra. Fallito il primo, e raggiunto il secondo con la rapida fissazione dell’udienza, ma poi la corte suprema confermò l’ordinanza dei giudici.
La presunta associazione segreta capeggiata da Flavio Carboni e dai suoi amici Lombardi e Martino (con la partecipazione dell’onorevole Denis Verdini) si adoperò, secondo la Procura di Roma, per condizionare altre decisioni di altri organi dello Stato. O per innescare ritorsioni dopo gli insuccessi. Per esempio, quando Cosentino fu escluso dalla candidatura alla Regione Campania «il gruppo ha iniziato un’intensa attività diretta a screditare il nuovo candidato (Stefano Caldoro, poi eletto, ndr) e così escluderlo dalla competizione elettorale, tentando di diffondere, all’interno del partito e a mezzo Internet, notizie diffamatore sul suo conto».
Le manovre del «gruppo di potere occulto» andarono a vuoto anche sul ricorso presentato alla Corte d’Appello di Milano dalla lista del presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, contro l’esclusione dalle elezioni regionali. Manovre alle quali, nell’interpretazione dell’accusa, ha partecipato anche il presidente-candidato che il 1˚ marzo 2010 parla con Arcangelo Martino, uno dei tre arrestati, e chiede: «Ma l’amico, l’amico... Lombardi, è in grado di agire?». Martino risponde: «Sì, sì, lui ha già fatto qualche passaggio e sarà lì». L’indomani Pasquale Lombardi è a Milano per incontrare il presidente della Corte d’Appello Alfonso Marra, da poco nominato e a favore del quale s’erano adoperati gli indagati.
Sempre il 1˚ marzo Lombardi annuncia al sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo le proprie mosse per orientare la decisione della commissione sul ricorso: «Aggio mandato a dicere cu Santamaria a Fofò (Santamaria è un altro giudice e Fofò è Alfonso Marra, ndr) che chiamasse a ’sti tre quattro scemi e non dessero fastidio». Ma l’operazione non va in porto, e Martino si sfoga con Lombardi, entrambi con colorite espressioni campane: «Comunque diciamo che la figura di merda l’amme fatta nujie cu’ chille d’a Corte d’appello», dice. E Lombardi, rivendicando il proprio operato: «Ci siamo prodigati, e quindi nun s’a ponno piglia’ cu’ nuje».
Dopo l’insuccesso scatta una sorta di vendetta, che nelle carte processuali è diventato un nuovo capitolo dell’atto d’accusa: «Il tentativo di suscitare un’ispezione ministeriale nei confronti del collegio dei magistrati che aveva adottato il provvedimento sfavorevole». Vengono registrati contatti di Arcangelo Martino da un lato col capo degli ispettori Arcibaldo Miller, e dall’altro con alcuni collaboratori di Formigoni. Finché il 23 marzo viene intercettato lo stesso Formigoni che annuncia a Martino il fallimento dell’operazione: «Ho ricevuto stamattina una telefonata da colui che si è impegnato a camminare velocemente, sabato... e invece mi dice che non cammina affatto, né velocemente né lentamente... E che è stato consigliato a stare fermo... dallo stesso Arci... perché lui mi ha detto che sarebbe un boomerang pazzesco... questi qui potrebbero addirittura rivalersi su di noi». In un’altra telefonata dello stesso giorno Martino chiede a Formigoni: «A te ti chiamò quello Angelino, vero?». E Formigoni: «Mi chiamò, sì mi chiamò lui». Gli inquirenti ipotizzano che il riferimento sia al ministro della Giustizia Angelino Alfano. «Io mi sono arrabbiato con lui—prosegue Formigoni —, anche perché sabato lui si era impegnato... Sì, sì, faccio, faccio, poi invece lunedì mi ha telefonato e mi ha detto questo, e ha anche tirato in mezzo Arci», probabilmente Arcibaldo Miller. Col quale Martino sostiene di aver litigato, e conclude: «Mi sono molto arrabbiato, ma credo che sia un qualche cosa che vada in ostilità con te, hai capito?». Replica di Formigoni: «Eh, credo anch’io...».
Per un’ispezione fallita c’è invece una nomina ottenuta, sebbene sia difficile—o quasi impossibile—stabilire se e quanto le manovre della lobby segreta abbiano inciso sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di mettere a capo della Corte d’Appello di Milano il giudice Alfonso Marra. In una telefonata del 21 ottobre col consigliere «laico» Celestina Tinelli, indicata dall’Ulivo, Pasquale Lombardi capisce che a orientare la scelta finale può essere il «togato » della corrente di Unicost Giuseppe Berruti, favorevole all’altro candidato, il giudice Rordorf. «E mo’ facciamo chiamare pure a Berruti! Devo vedere come devo fare», dice. «È un casino, nel vero senso della parola — risponde la Tinelli —. Lui ha già dato il suo input forte, e quindi anche Mancino (vice-presidente del Csm, ndr) sta ragionando nel senso di votare per questo Rordorf...».
Il giorno dopo Lombardi parla direttamente con Marra. «S’à da vedé che s’à da fa cu’ Berruti, perché l’unico stronzo in questo momento è lui e la Maccora (di Magistratura democratica, ndr)». Ribatte Marra: «Ma la Maccora lascia sta’, è di un’altra corrente (...) Parla con Berruti, bisogna avvicinare ’sto cazzo di Berruti, capito che ti voglio dì? Io, Pasquali’, non so che cazzo fare...». Lombardi ha un’idea: «Chist’ tene ’u frate che è deputato di Berlusconi (Massimo Berruti, parlamentare del Pdl, ndr)», ma Marra lo frena: «No, vabbuo’, famm’ ’o favore, tiriamo fuori il fratello, senti a me». Lombardi gioca allora la carta del suo rapporto col presidente della Cassazione Vincenzo Carbone: «Io lu pizziatone... te l’aggio fatto col capo, quindi siamo a posto... Capo Cassazione». E Lombardi: «Se è quello lì siamo a posto». In altre telefonate Lombardi sostiene di aver parlato «di quella cosa di Milano» anche con Nicola Mancino. Il 3 febbraio 2010, con una maggioranza di 14 voti contro 12, il Csm nomina Marra. A suo favore si esprimono, fra gli altri, Mancino, Carbone e la Tinelli, mentre Berruti si schiera con l’altro candidato. Lombardi telefona a Martino: «Allora abbiamo fatto il presidente della corte d’appello... È tutto a posto».
Fonte: corriere.it
«Un’ispezione contro i giudici nemici»
L’accusa: le manovre (fallite) per far riammettere alle elezioni la lista Formigoni
ROMA — Non ci furono solo i tentativi di interferire sulla Corte costituzionale che doveva decidere il destino del «Lodo Alfano», o di agevolare il ricorso in Cassazione del sottosegretario Nicola Cosentino contro la richiesta d’arresto per concorso con la camorra. Fallito il primo, e raggiunto il secondo con la rapida fissazione dell’udienza, ma poi la corte suprema confermò l’ordinanza dei giudici.
La presunta associazione segreta capeggiata da Flavio Carboni e dai suoi amici Lombardi e Martino (con la partecipazione dell’onorevole Denis Verdini) si adoperò, secondo la Procura di Roma, per condizionare altre decisioni di altri organi dello Stato. O per innescare ritorsioni dopo gli insuccessi. Per esempio, quando Cosentino fu escluso dalla candidatura alla Regione Campania «il gruppo ha iniziato un’intensa attività diretta a screditare il nuovo candidato (Stefano Caldoro, poi eletto, ndr) e così escluderlo dalla competizione elettorale, tentando di diffondere, all’interno del partito e a mezzo Internet, notizie diffamatore sul suo conto».
Le manovre del «gruppo di potere occulto» andarono a vuoto anche sul ricorso presentato alla Corte d’Appello di Milano dalla lista del presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, contro l’esclusione dalle elezioni regionali. Manovre alle quali, nell’interpretazione dell’accusa, ha partecipato anche il presidente-candidato che il 1˚ marzo 2010 parla con Arcangelo Martino, uno dei tre arrestati, e chiede: «Ma l’amico, l’amico... Lombardi, è in grado di agire?». Martino risponde: «Sì, sì, lui ha già fatto qualche passaggio e sarà lì». L’indomani Pasquale Lombardi è a Milano per incontrare il presidente della Corte d’Appello Alfonso Marra, da poco nominato e a favore del quale s’erano adoperati gli indagati.
Sempre il 1˚ marzo Lombardi annuncia al sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo le proprie mosse per orientare la decisione della commissione sul ricorso: «Aggio mandato a dicere cu Santamaria a Fofò (Santamaria è un altro giudice e Fofò è Alfonso Marra, ndr) che chiamasse a ’sti tre quattro scemi e non dessero fastidio». Ma l’operazione non va in porto, e Martino si sfoga con Lombardi, entrambi con colorite espressioni campane: «Comunque diciamo che la figura di merda l’amme fatta nujie cu’ chille d’a Corte d’appello», dice. E Lombardi, rivendicando il proprio operato: «Ci siamo prodigati, e quindi nun s’a ponno piglia’ cu’ nuje».
Dopo l’insuccesso scatta una sorta di vendetta, che nelle carte processuali è diventato un nuovo capitolo dell’atto d’accusa: «Il tentativo di suscitare un’ispezione ministeriale nei confronti del collegio dei magistrati che aveva adottato il provvedimento sfavorevole». Vengono registrati contatti di Arcangelo Martino da un lato col capo degli ispettori Arcibaldo Miller, e dall’altro con alcuni collaboratori di Formigoni. Finché il 23 marzo viene intercettato lo stesso Formigoni che annuncia a Martino il fallimento dell’operazione: «Ho ricevuto stamattina una telefonata da colui che si è impegnato a camminare velocemente, sabato... e invece mi dice che non cammina affatto, né velocemente né lentamente... E che è stato consigliato a stare fermo... dallo stesso Arci... perché lui mi ha detto che sarebbe un boomerang pazzesco... questi qui potrebbero addirittura rivalersi su di noi». In un’altra telefonata dello stesso giorno Martino chiede a Formigoni: «A te ti chiamò quello Angelino, vero?». E Formigoni: «Mi chiamò, sì mi chiamò lui». Gli inquirenti ipotizzano che il riferimento sia al ministro della Giustizia Angelino Alfano. «Io mi sono arrabbiato con lui—prosegue Formigoni —, anche perché sabato lui si era impegnato... Sì, sì, faccio, faccio, poi invece lunedì mi ha telefonato e mi ha detto questo, e ha anche tirato in mezzo Arci», probabilmente Arcibaldo Miller. Col quale Martino sostiene di aver litigato, e conclude: «Mi sono molto arrabbiato, ma credo che sia un qualche cosa che vada in ostilità con te, hai capito?». Replica di Formigoni: «Eh, credo anch’io...».
Per un’ispezione fallita c’è invece una nomina ottenuta, sebbene sia difficile—o quasi impossibile—stabilire se e quanto le manovre della lobby segreta abbiano inciso sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di mettere a capo della Corte d’Appello di Milano il giudice Alfonso Marra. In una telefonata del 21 ottobre col consigliere «laico» Celestina Tinelli, indicata dall’Ulivo, Pasquale Lombardi capisce che a orientare la scelta finale può essere il «togato » della corrente di Unicost Giuseppe Berruti, favorevole all’altro candidato, il giudice Rordorf. «E mo’ facciamo chiamare pure a Berruti! Devo vedere come devo fare», dice. «È un casino, nel vero senso della parola — risponde la Tinelli —. Lui ha già dato il suo input forte, e quindi anche Mancino (vice-presidente del Csm, ndr) sta ragionando nel senso di votare per questo Rordorf...».
Il giorno dopo Lombardi parla direttamente con Marra. «S’à da vedé che s’à da fa cu’ Berruti, perché l’unico stronzo in questo momento è lui e la Maccora (di Magistratura democratica, ndr)». Ribatte Marra: «Ma la Maccora lascia sta’, è di un’altra corrente (...) Parla con Berruti, bisogna avvicinare ’sto cazzo di Berruti, capito che ti voglio dì? Io, Pasquali’, non so che cazzo fare...». Lombardi ha un’idea: «Chist’ tene ’u frate che è deputato di Berlusconi (Massimo Berruti, parlamentare del Pdl, ndr)», ma Marra lo frena: «No, vabbuo’, famm’ ’o favore, tiriamo fuori il fratello, senti a me». Lombardi gioca allora la carta del suo rapporto col presidente della Cassazione Vincenzo Carbone: «Io lu pizziatone... te l’aggio fatto col capo, quindi siamo a posto... Capo Cassazione». E Lombardi: «Se è quello lì siamo a posto». In altre telefonate Lombardi sostiene di aver parlato «di quella cosa di Milano» anche con Nicola Mancino. Il 3 febbraio 2010, con una maggioranza di 14 voti contro 12, il Csm nomina Marra. A suo favore si esprimono, fra gli altri, Mancino, Carbone e la Tinelli, mentre Berruti si schiera con l’altro candidato. Lombardi telefona a Martino: «Allora abbiamo fatto il presidente della corte d’appello... È tutto a posto».
Fonte: corriere.it
3 feb 2010
Lottizzazioni pilotate per favorire amministratori e imprenditori. Su questa ipotesi indagate 13 persone
L'inchiesta riguarda opere legate al nuovo casello di Barberino del Mugello e il vicino outlet. Le vecchie giunte sono interessate dagli avvisi di garanzia
Sono almeno 13 gli indagati nell'ambito dell'inchiesta della procura di Firenze per la quale stamani la polizia stradale ha svolto perquisizioni a Firenze e in provincia. Avvisi di garanzia sono stati notificati, tra gli altri, all'assessore regionale alla cultura Paolo Cocchi (Pd), in passato è stato sindaco di Barberino del Mugello, e al consigliere regionale Gianluca Parrini (Pd).
Entrambi sono accusati di abusi di ufficio. Fra gli altri indagati compaiono ex amministratori del Comune di Barberino del Mugello, un tecnico provinciale, un tecnico regionale, e imprenditori. Le accuse vanno dall'abuso di ufficio alla corruzione. Nel mirino degli investigatori scambi di favori e di denaro tra politici e imprenditori in occasione di lottizzazioni che hanno riguardato il Comune di Barberino.
Fra gli altri indagati ci sono l'ex sindaco di Barberino del Mugello Gianpiero Luchi e due componenti della sua giunta di centrosinistra (1999-2009), Alberto Lotti, ex vicesindaco, e Daniele Giovannini, ex assessore.
Oltre a loro il fratello dell'ex sindaco, Luca, che é proprietario di terreni a Barberino, e alcuni imprenditori.
L'inchiesta è coordinata dal pm Leopoldo De Gregorio. In base a quanto si apprende, gli investigatori ipotizzano una serie di singoli scambi di favori - come viaggi e vacanze - ma anche di denaro, seppur, questi ultimi, limitati e per cifre contenute.
In pratica, la procura ipotizzerebbe una gestione del territorio volta a favorire amministratori locali e imprenditori.
I reati sarebbero legati all'acquisto di terreni da lottizzare o alla lottizzazione di terreni di proprietà di persone legate agli indagati e sui cui sarebbero sorti - o sarebbero dovuti sorgere - immobili come centri commerciali, uffici, appartamenti o cave.
In un'occasione, si sarebbe trattato di una scuola, non realizzata, che sarebbe dovuta sorgere in un'area ancora non in sicurezza.
L'inchiesta sarebbe nata da accertamenti, condotti da polstrada e corpo forestale, sulla costruzione di opere connesse alla realizzazione della nuova viabilità autostradale nel Mugello, contemporanee alla costruzione dell’outlet di Barberino, e riguarderebbero opere progettate dal 1990 al 2008.
Fonte: gonews.it
Sono almeno 13 gli indagati nell'ambito dell'inchiesta della procura di Firenze per la quale stamani la polizia stradale ha svolto perquisizioni a Firenze e in provincia. Avvisi di garanzia sono stati notificati, tra gli altri, all'assessore regionale alla cultura Paolo Cocchi (Pd), in passato è stato sindaco di Barberino del Mugello, e al consigliere regionale Gianluca Parrini (Pd).
Entrambi sono accusati di abusi di ufficio. Fra gli altri indagati compaiono ex amministratori del Comune di Barberino del Mugello, un tecnico provinciale, un tecnico regionale, e imprenditori. Le accuse vanno dall'abuso di ufficio alla corruzione. Nel mirino degli investigatori scambi di favori e di denaro tra politici e imprenditori in occasione di lottizzazioni che hanno riguardato il Comune di Barberino.
Fra gli altri indagati ci sono l'ex sindaco di Barberino del Mugello Gianpiero Luchi e due componenti della sua giunta di centrosinistra (1999-2009), Alberto Lotti, ex vicesindaco, e Daniele Giovannini, ex assessore.
Oltre a loro il fratello dell'ex sindaco, Luca, che é proprietario di terreni a Barberino, e alcuni imprenditori.
L'inchiesta è coordinata dal pm Leopoldo De Gregorio. In base a quanto si apprende, gli investigatori ipotizzano una serie di singoli scambi di favori - come viaggi e vacanze - ma anche di denaro, seppur, questi ultimi, limitati e per cifre contenute.
In pratica, la procura ipotizzerebbe una gestione del territorio volta a favorire amministratori locali e imprenditori.
I reati sarebbero legati all'acquisto di terreni da lottizzare o alla lottizzazione di terreni di proprietà di persone legate agli indagati e sui cui sarebbero sorti - o sarebbero dovuti sorgere - immobili come centri commerciali, uffici, appartamenti o cave.
In un'occasione, si sarebbe trattato di una scuola, non realizzata, che sarebbe dovuta sorgere in un'area ancora non in sicurezza.
L'inchiesta sarebbe nata da accertamenti, condotti da polstrada e corpo forestale, sulla costruzione di opere connesse alla realizzazione della nuova viabilità autostradale nel Mugello, contemporanee alla costruzione dell’outlet di Barberino, e riguarderebbero opere progettate dal 1990 al 2008.
Fonte: gonews.it
Indagato l'assessore Paolo Cocchi. Gestione volta a favorire amministratori locali e imprenditori
FIRENZE - Sono almeno 13 gli indagati nell’ambito dell’inchiesta della procura di Firenze per la quale la polizia stradale ha svolto perquisizioni a Firenze, Barberino del Mugello, Signa e Borgo San Lorenzo. Avvisi di garanzia sono stati notificati, tra gli altri, all’assessore regionale alla cultura e al commercio Paolo Cocchi (Pd) e al consigliere regionale Gianluca Parrini (Pd). Entrambi sono accusati di abusi di ufficio.
LOTTIZZAZIONE DEL TERRITORIO
Fra gli altri indagati ci sono l’ex sindaco di Barberino del Mugello Gianpiero Luchi e due componenti della sua giunta di centrosinistra (1999-2009), Alberto Lotti, ex vicesindaco, e Daniele Giovannini, ex assessore. Oltre a loro il fratello dell’ex sindaco, Luca, che è proprietario di terreni a Barberino, e alcuni imprenditori. Le accuse vanno dall’abuso di ufficio alla corruzione. Nel mirino degli investigatori scambi di favori e di denaro tra politici e imprenditori in occasione di lottizzazioni che hanno riguardato il Comune di Barberino. L’inchiesta è coordinata dal pm Leopoldo De Gregorio. In base a quanto si apprende, gli investigatori ipotizzano una serie di singoli scambi di favori - come viaggi e vacanze - ma anche di denaro, seppur, questi ultimi, limitati e per cifre contenute. In pratica, la procura ipotizza una gestione del territorio volta a favorire amministratori locali e imprenditori. I reati sarebbero legati all’acquisto di terreni da lottizzare o alla lottizzazione di terreni di proprietà di persone legate agli indagati e sui cui sarebbero sorti - o sarebbero dovuti sorgere - immobili come centri commerciali, uffici, appartamenti o cave. In un’occasione, si sarebbe trattato di una scuola, non realizzata, che sarebbe dovuta sorgere in un’area ancora non in sicurezza. L’inchiesta è nata da accertamenti, condotti da polstrada e corpo forestale, sulla costruzione di opere connesse alla realizzazione della nuova viabilità autostradale nel Mugello, contemporanee alla costruzione di un outlet, e riguarderebbero opere progettate dal 1990 al 2008. Le lottizzazioni non avrebbero provocato danni ambientali diretti.
Fonte: corrierefiorentino.it
LOTTIZZAZIONE DEL TERRITORIO
Fra gli altri indagati ci sono l’ex sindaco di Barberino del Mugello Gianpiero Luchi e due componenti della sua giunta di centrosinistra (1999-2009), Alberto Lotti, ex vicesindaco, e Daniele Giovannini, ex assessore. Oltre a loro il fratello dell’ex sindaco, Luca, che è proprietario di terreni a Barberino, e alcuni imprenditori. Le accuse vanno dall’abuso di ufficio alla corruzione. Nel mirino degli investigatori scambi di favori e di denaro tra politici e imprenditori in occasione di lottizzazioni che hanno riguardato il Comune di Barberino. L’inchiesta è coordinata dal pm Leopoldo De Gregorio. In base a quanto si apprende, gli investigatori ipotizzano una serie di singoli scambi di favori - come viaggi e vacanze - ma anche di denaro, seppur, questi ultimi, limitati e per cifre contenute. In pratica, la procura ipotizza una gestione del territorio volta a favorire amministratori locali e imprenditori. I reati sarebbero legati all’acquisto di terreni da lottizzare o alla lottizzazione di terreni di proprietà di persone legate agli indagati e sui cui sarebbero sorti - o sarebbero dovuti sorgere - immobili come centri commerciali, uffici, appartamenti o cave. In un’occasione, si sarebbe trattato di una scuola, non realizzata, che sarebbe dovuta sorgere in un’area ancora non in sicurezza. L’inchiesta è nata da accertamenti, condotti da polstrada e corpo forestale, sulla costruzione di opere connesse alla realizzazione della nuova viabilità autostradale nel Mugello, contemporanee alla costruzione di un outlet, e riguarderebbero opere progettate dal 1990 al 2008. Le lottizzazioni non avrebbero provocato danni ambientali diretti.
Fonte: corrierefiorentino.it
23 ott 2009
Al paziente in quota Udeur stanza di lusso in ospedale. La denuncia di un medico di Benevento
I buoni rapporti con Mastella e i suoi fidatissimi tornavano utili anche in ospedale. Emblematico è il caso del giovane paziente, figlio di un architetto vicino all’Udeur, ricoverato nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Asl Benevento 1: gli venne riservato un trattamento di assoluto favore — stanza appositamente tinteggiata e mobili nuovi — mentre agli altri degenti toccavano letti sfondati e sporcizia. La vicenda è raccontata dal dottor Giuseppe De Lorenzo, dirigente responsabile del servizio e assessore alla Mobilità del Comune di Benevento. A causa di una vecchia ruggine con Sandra Lonardo, De Lorenzo, secondo l’accusa, è stato vittima di «pressioni, intimidazioni, minacce e atti persecutori»; estromesso con un pretesto dal suo ruolo di primario, è stato poi reintegrato dal giudice del lavoro. Per questa vicenda, i coniugi Mastella sono indagati per concussione.
Negli anni Novanta, De Lorenzo aveva denunciato le pessime condizioni dei locali (interni all’ospedale Rummo) in cui era ospitato il servizio psichiatrico. Quando arrivò il giovane Francesco, figlio di un architetto vicino all’Udeur, «si provvide nel giro di una sola notte a ristrutturare la stanza — e solamente quella — che era destinata ad ospitarlo». Aggiunge la dottoressa Assunta Castaldi, in servizio nella struttura: «Tengo a precisare che di fronte alla stanza presso la quale era degente Chicco ve n’era un’altra in condizioni pietose, dove addirittura, quali traverse per i letti dei degenti, venivano utilizzati i sacchi di colore nero adibiti alla raccolta dei rifiuti. In sostanza abbiamo avuto modo di vivere direttamente come gli stessi malati fossero diversamente catalogati non in base ad esigenze oggettive, ma solo e semplicemente in quanto amici di chi era chiamato a gestire quel particolare servizio». La dottoressa fornisce altri particolari sulla struttura in quegli anni: «Vigeva una situazione indecorosa se non addirittura peggio. Ricordo ancora che vi erano cavi elettrici penzoloni che costituivano pericolo per noi tutti... I servizi igienici versavano in una condizione vergognosa... Gli arredi erano ridotti in condizioni pessime». La vicenda viene pesantemente criticata dal gip, che parla di «disparità di trattamento dei malati, pur titolari del diritto inviolabile di ricevere cure; diritto rispettato solo in presenza di idonee segnalazioni (con il medesimo sistema delle raccomandazioni delle assunzioni illegittime presso l’ente Arpac o delle assunzioni dei primari presso gli enti ospedalieri, in virtù di un sistema ricattatorio e clientelare)».
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
Negli anni Novanta, De Lorenzo aveva denunciato le pessime condizioni dei locali (interni all’ospedale Rummo) in cui era ospitato il servizio psichiatrico. Quando arrivò il giovane Francesco, figlio di un architetto vicino all’Udeur, «si provvide nel giro di una sola notte a ristrutturare la stanza — e solamente quella — che era destinata ad ospitarlo». Aggiunge la dottoressa Assunta Castaldi, in servizio nella struttura: «Tengo a precisare che di fronte alla stanza presso la quale era degente Chicco ve n’era un’altra in condizioni pietose, dove addirittura, quali traverse per i letti dei degenti, venivano utilizzati i sacchi di colore nero adibiti alla raccolta dei rifiuti. In sostanza abbiamo avuto modo di vivere direttamente come gli stessi malati fossero diversamente catalogati non in base ad esigenze oggettive, ma solo e semplicemente in quanto amici di chi era chiamato a gestire quel particolare servizio». La dottoressa fornisce altri particolari sulla struttura in quegli anni: «Vigeva una situazione indecorosa se non addirittura peggio. Ricordo ancora che vi erano cavi elettrici penzoloni che costituivano pericolo per noi tutti... I servizi igienici versavano in una condizione vergognosa... Gli arredi erano ridotti in condizioni pessime». La vicenda viene pesantemente criticata dal gip, che parla di «disparità di trattamento dei malati, pur titolari del diritto inviolabile di ricevere cure; diritto rispettato solo in presenza di idonee segnalazioni (con il medesimo sistema delle raccomandazioni delle assunzioni illegittime presso l’ente Arpac o delle assunzioni dei primari presso gli enti ospedalieri, in virtù di un sistema ricattatorio e clientelare)».
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
Ceppaloni connection, a Camilleri (il consuocero di Mastella) compenso da 1 milione, ben dodici volte più del dovuto.
Curò il progetto per realizzare un impianto di irrigazione a Cellole. La Regione: gli spettavano 140 mila euro
NAPOLI — Uno degli scandali sportati alla luce dall’inchiesta sullo strapotere dell’Udeur è quello della ristrutturazione dell’impianto irriguo di Cellole, in provincia di Caserta. L’incarico per il progetto e la direzione dei lavori fu affidato dal Consorzio aurunco di bonifica a Carlo Camilleri, consuocero di Sandra e Clemente Mastella. Al massimo gli si sarebbe potuto liquidare la somma di 140.000 euro: l’ingegnere, invece, ottenne un milione e 300.000 euro. Per questa vicenda, Camilleri è accusato di truffa aggravata ai danni della Regione assieme a Felice Di Giovanni, direttore del Consorzio. Nell’ambito del Por 2000/2006, il Consorzio — che gestisce i canali di irrigazione nella zona di Sessa Aurunca — ottenne un finanziamento dall’assessorato regionale all’Agricoltura; si trattava di fondi europei. Era stato previsto di investire quattro milioni e 800.000 euro.
La legge prevede che, per la progettazione, la direzione dei lavori e il collaudo si possa spendere fino al 12 per cento dell’importo totale: il professionista che fosse stato prescelto dopo un bando pubblico, cioè, avrebbe potuto ricevere un compenso massimo di 500.000 euro. Il Consorzio, però, aveva optato per l’affidamento fiduciario dell’incarico, senza indire una gara pubblica: in queste condizioni, la normativa consente un compenso massimo assai inferiore, cioè 40.000 euro per la progettazione e 100.000 per la direzione dei lavori. Questo, dunque, si sarebbe potuto liquidare a Camilleri. Nel corso di una verifica a campione, invece, la dirigente della Regione Maura Formisano, responsabile del servizio Por — II livello, si accorge che al consuocero di Mastella erano stati fatturati un milione e 300.000 euro. «Abbiamo ovviamente rappresentato al responsabile di misura, Alfredo Bruno, per iscritto le osservazioni appena fatte — spiega Formisano al pm — e lui non ha potuto che prenderne atto, vista la loro fondatezza. Un collega del mio ufficio, Francesco Pepe, che si è recato in loco presso il Consorzio, mi ha detto di aver rappresentato ai dirigenti dello stesso l’evidente abnormità delle parcelle liquidate a Camilleri. Gli venne risposto, in modo sconsolato, che erano stati costretti a pagare le parcelle del Camilleri perché altrimenti il finanziamento non sarebbe mai stato liquidato». Francesco Pepe conferma: Felice Di Giovanni gli disse «che bisognava procedere in quel modo al fine della realizzazione del progetto». Ieri, intanto, davanti al gip Anna Laura Alfano sono cominciati gli interrogatori di garanzia. Sandra Mastella, assistita dagli avvocati Alfonso Furgiuele e Severino Nappi, si è detta a disposizione del giudice per offrire chiarimenti sugli addebiti contestati, ma le occorre del tempo per esaminare il contenuto delle oltre 900 pagine dell’ordinanza. Per questo motivo ha chiesto il rinvio dell’interrogatorio, che sarà fissato nei prossimi giorni.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
NAPOLI — Uno degli scandali sportati alla luce dall’inchiesta sullo strapotere dell’Udeur è quello della ristrutturazione dell’impianto irriguo di Cellole, in provincia di Caserta. L’incarico per il progetto e la direzione dei lavori fu affidato dal Consorzio aurunco di bonifica a Carlo Camilleri, consuocero di Sandra e Clemente Mastella. Al massimo gli si sarebbe potuto liquidare la somma di 140.000 euro: l’ingegnere, invece, ottenne un milione e 300.000 euro. Per questa vicenda, Camilleri è accusato di truffa aggravata ai danni della Regione assieme a Felice Di Giovanni, direttore del Consorzio. Nell’ambito del Por 2000/2006, il Consorzio — che gestisce i canali di irrigazione nella zona di Sessa Aurunca — ottenne un finanziamento dall’assessorato regionale all’Agricoltura; si trattava di fondi europei. Era stato previsto di investire quattro milioni e 800.000 euro.
La legge prevede che, per la progettazione, la direzione dei lavori e il collaudo si possa spendere fino al 12 per cento dell’importo totale: il professionista che fosse stato prescelto dopo un bando pubblico, cioè, avrebbe potuto ricevere un compenso massimo di 500.000 euro. Il Consorzio, però, aveva optato per l’affidamento fiduciario dell’incarico, senza indire una gara pubblica: in queste condizioni, la normativa consente un compenso massimo assai inferiore, cioè 40.000 euro per la progettazione e 100.000 per la direzione dei lavori. Questo, dunque, si sarebbe potuto liquidare a Camilleri. Nel corso di una verifica a campione, invece, la dirigente della Regione Maura Formisano, responsabile del servizio Por — II livello, si accorge che al consuocero di Mastella erano stati fatturati un milione e 300.000 euro. «Abbiamo ovviamente rappresentato al responsabile di misura, Alfredo Bruno, per iscritto le osservazioni appena fatte — spiega Formisano al pm — e lui non ha potuto che prenderne atto, vista la loro fondatezza. Un collega del mio ufficio, Francesco Pepe, che si è recato in loco presso il Consorzio, mi ha detto di aver rappresentato ai dirigenti dello stesso l’evidente abnormità delle parcelle liquidate a Camilleri. Gli venne risposto, in modo sconsolato, che erano stati costretti a pagare le parcelle del Camilleri perché altrimenti il finanziamento non sarebbe mai stato liquidato». Francesco Pepe conferma: Felice Di Giovanni gli disse «che bisognava procedere in quel modo al fine della realizzazione del progetto». Ieri, intanto, davanti al gip Anna Laura Alfano sono cominciati gli interrogatori di garanzia. Sandra Mastella, assistita dagli avvocati Alfonso Furgiuele e Severino Nappi, si è detta a disposizione del giudice per offrire chiarimenti sugli addebiti contestati, ma le occorre del tempo per esaminare il contenuto delle oltre 900 pagine dell’ordinanza. Per questo motivo ha chiesto il rinvio dell’interrogatorio, che sarà fissato nei prossimi giorni.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
Castellammare, il killer di Tommasino corse alle primarie del Pd stabiese
Catello Romano è stato in lista nella competizione per eleggere il segretario cittadino
NAPOLI - Non era un solo un semplice iscritto al Pd, Catello Romano, uno dei presunti killer del consigliere comunale stabiese Gino Tommasino. Non era un semplice iscritto ma correva addirittura per le primarie cittadine del partito. La nuova scoperta che arricchisce il caso Tommasino di altri, inquietanti risvolti, arriva ancora una volta da «Metropolis», il quotidiano dell’area stabiese-torrese, diretto da Giuseppe Del Gaudio, che per primo ha acceso la luce sull’iscrizione al Pd di almeno uno dei componenti del commando che uccisero Tommasino. Dunque — riferisce Metropolis con un articolo di Giovanni Santaniello — Catello Romano era al posto numero 40 su 47 di una della lista «Riformismo e innovazione con Cimmino», una delle otto liste che concorsero per le primarie da cui scaturirono i cinquanta componenti del coordinamento cittadino del Pd.
Anche se Catello Romano non venne eletto, la sua lista, numero uno, vinse quelle primarie conquistando 529 preferenze. Gaetano Cimmino, il capolista, era l’ex segretario cittadino del Pd, prima che la sezione venisse commissariata da Morando. Dopo le primarie Cimmino dovette attendere il mese di febbraio per essere eletto segretario cittadino del Partito democratico a Castellammare. I fatti successivi sono fin troppo noti: l’omicidio di Tommasino, le manifestazioni anticamorra, fino ad arrivare ai recenti arresti dei componenti del commando di morte, tra i quali proprio quel Catello Romano che prima si è pentito e ha accettato di collaborare con gli investigatori, poi misteriosamente è fuggito calandosi con le lenzuola da un albergo in Puglia dove era tenuto nascosto dai poliziotti. Insomma, una trama intricatissima, un vero e proprio giallo dove alla camorra e agli affari si unisce il mondo politico.
Castellammare è ormai una città scossa da un terremoto giudiziario che appare solo agli inizi. Chi chiuse gli occhi su quelle imbarazzanti presenze nelle liste del Pd locale? E perché? Perché, come ha dichiarato l’ex assessora Mormone, nessuno raccolse la sua denuncia circa la presenza di nomi inquietanti tra gli iscritti, ben prima dell’omicidio Tommasino?
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
NAPOLI - Non era un solo un semplice iscritto al Pd, Catello Romano, uno dei presunti killer del consigliere comunale stabiese Gino Tommasino. Non era un semplice iscritto ma correva addirittura per le primarie cittadine del partito. La nuova scoperta che arricchisce il caso Tommasino di altri, inquietanti risvolti, arriva ancora una volta da «Metropolis», il quotidiano dell’area stabiese-torrese, diretto da Giuseppe Del Gaudio, che per primo ha acceso la luce sull’iscrizione al Pd di almeno uno dei componenti del commando che uccisero Tommasino. Dunque — riferisce Metropolis con un articolo di Giovanni Santaniello — Catello Romano era al posto numero 40 su 47 di una della lista «Riformismo e innovazione con Cimmino», una delle otto liste che concorsero per le primarie da cui scaturirono i cinquanta componenti del coordinamento cittadino del Pd.
Anche se Catello Romano non venne eletto, la sua lista, numero uno, vinse quelle primarie conquistando 529 preferenze. Gaetano Cimmino, il capolista, era l’ex segretario cittadino del Pd, prima che la sezione venisse commissariata da Morando. Dopo le primarie Cimmino dovette attendere il mese di febbraio per essere eletto segretario cittadino del Partito democratico a Castellammare. I fatti successivi sono fin troppo noti: l’omicidio di Tommasino, le manifestazioni anticamorra, fino ad arrivare ai recenti arresti dei componenti del commando di morte, tra i quali proprio quel Catello Romano che prima si è pentito e ha accettato di collaborare con gli investigatori, poi misteriosamente è fuggito calandosi con le lenzuola da un albergo in Puglia dove era tenuto nascosto dai poliziotti. Insomma, una trama intricatissima, un vero e proprio giallo dove alla camorra e agli affari si unisce il mondo politico.
Castellammare è ormai una città scossa da un terremoto giudiziario che appare solo agli inizi. Chi chiuse gli occhi su quelle imbarazzanti presenze nelle liste del Pd locale? E perché? Perché, come ha dichiarato l’ex assessora Mormone, nessuno raccolse la sua denuncia circa la presenza di nomi inquietanti tra gli iscritti, ben prima dell’omicidio Tommasino?
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
22 ott 2009
«L'onorevole chiede di quel contratto». I nomi dei politici e i 655 «segnalati»
Sequestrato l'elenco degli sponsor: spuntano Bassolino, De Mita e un consigliere Pdl. Qualcuno usava gli sms
NAPOLI - Aveva raccomandato tante persone e alla fine qualcuno sfuggì al controllo. E così, al telefono con il direttore generale dell’Arpac, l’Agenzia regionale per l’ambiente, l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella chiedeva: «Scusa, ma questo Massaccese di Casoria chi è?». Giuseppe Capobianco lo rassicurava: «È uno dei privati che dobbiamo riconfermare, non è nostro... È uno dei Ds. Ho avuto indicazioni da Giggino e mi ha detto che venivano da te».
I fax dai politici
Fa impressione leggere l’elenco degli aspiranti lavoratori segnalati dai politici. Ma fa ancora più effetto il risultato ottenuto tra il 2005 e il 2008 grazie alle pressioni esercitate. Perché, come sottolinea il giudice nella sua ordinanza, «al maggio 2008 i raccomandati/ imposti rappresentavano il 90 per cento della forza lavoro 'precaria' dell’Ente. Insomma soltanto uno su dieci non risultava segnalato». I conti sono presto fatti. Nel file che Tiziana Lamanna, segretaria di Capobianco, custodiva nel computer ci sono 655 nomi. Le persone assunte con contratto di collaborazione continuativa, dunque escludendo chi ha invece ottenuto consulenze, sono 294. La signora era molto precisa, quasi maniacale. La tabella è divisa in tre colonne. Nella prima ci sono i nomi in ordine alfabetico, accanto la qualifica oppure il titolo di studio, nell’ultima il «segnalatore». La guardia di Finanza ha effettuato un controllo su tutti i fascicoli personali di chi ha ottenuto il contratto e ha scoperto che «molti dei soggetti segnalati dal singolo politico avevano inviato il loro curriculum dal fax in uso al politico stesso; in altri casi sul curriculum era stato scritto a matita il nome del politico di riferimento». Recordman delle raccomandazioni è Luigi Nocera, l’ex assessore regionale all’Ambiente che - evidentemente in forza del suo ruolo «collegato» all’Agenzia - vanta ben 100 segnalazioni. Segue a ruota l’ex presidente dei senatori dell’Udeur Tommaso Barbato con 43 e subito dopo in questa specialissima classifica c’è Antonio Fantini, ex segretario regionale dello stesso partito con 36. La famiglia Mastella non si è evidentemente sottratta a questa allegra gestione. L’ex ministro della Giustizia ne avrebbe fatte 26, sua moglie Sandra 16, il cognato Pasquale Giuditta - all’epoca dei fatti parlamentare - ben 35. Non erano gli unici, anche se gli altri politici elencati sembrano avere pretese più modeste: due segnalazioni sarebbero arrivate dal governatore Antonio Bassolino, una dall’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, una dall’ex braccio destro dello stesso Bassolino, il diessino Isaia Sales, una anche il consigliere regionale di Forza Italia Fulvio Martusciello.
Il messaggio
C’era chi telefonava, chi scriveva mail o lettere. E addirittura chi utilizzava il metodo più rapido degli sms. Il 10 maggio 2007 l’onorevole Giuseppe Maisto - consigliere regionale della Campania per l’Udeur, espulso dal partito nel febbraio dell’anno successivo - manda un messaggio a Capobianco: «Ricordati di convocare ...» e poi aggiunge nome e numero di cellulare del suo candidato. Quanto forti e frequenti fossero le pressioni si capisce bene due mesi dopo quando Capobianco riceve una telefonata dalla sua segretaria.
Lamanna: «Lucià, scusami! Ti volevo dire che ha telefonato l’onorevole Iossa. Vuole notizie di L.R., se ha il contratto triennale».
Capobianco: «Cosa?».
Lamanna: «Ha detto che doveva avere un contratto triennale».
Capobianco: «Ma chi... Vabbè lasciamo stare per telefono, ti richiamo».
Lamanna: «No, lo so. Dico, no, vuole essere chiamato da me per sapere se l’ha avuto o non l’ha avuto. Io mi dovrei...».
Capobianco: «Ma tu non puoi permetterti di chiamare a nessuno ».
Lamanna: «Appunto, ciao».
Alla segretaria era stato assegnato un ruolo chiave in questa vicenda, ma non risulta tra gli indagati. È stata interrogata per chiarire come mai custodisse il file nonostante, come evidenzia il giudice, «l’ufficio non aveva alcun compito istituzionale nella raccolta, ricezione e valutazione dei curricula essendovi un apposito ufficio del personale». Lei ha candidamente affermato: «Succedeva che il giovane aspirante consegnava un curriculum finalizzato a instaurare un rapporto con l’Arpac dicendo che veniva a nome di tizio o caio». Una millanteria, dunque, ma quando il magistrato le ha contestato che si trattava di un’affermazione non credibile ha replicato: «Effettivamente capitava assai spesso, nella maggioranza dei casi, che l’arrivo dell’aspirante fosse preceduto da una telefonata».
Lo sfogo dell’assessore
Il 19 marzo del 2007 l’allora assessore regionale alle risorse umane Andrea Abbamonte chiama Carlo Camilleri, il consuocero dei coniugi Mastella proprio per affrontare il problema delle raccomandazioni.
Abbamonte: «Mi sono fatto una di quelle incazzate con Nocera e Capobianco che non potevi... Capobianco non se la scorda questa giornata».
Camilleri: «Veramente guaglio’... eppure tu eri così legato a lui...».
Abbamonte: «Non si deve più permettere di dire, ma quella... la tua dirigente ha scritto... ho detto: 'guarda, tu sei stronzo tre volte perché ti avevo avvisato io e ti ho convocato. Ti ho detto stai attento ai co.co.co che tu passi un guaio e te l’ho detto io. Tu hai fatto la delibera, hai chiesto il parere della Funzione Pubblica quando io ti avevo detto che non ti dovevi permettere di chiedere il parere della Funzione Pubblica perché è pericolo. E mi hanno detto anche che sei l’elemento debole, perché i miei li tengo sotto la palla, perché sono co.co.co confessati e comunicati. Non ti devi permettere di andare dall’assessore a fare una cosa di questo genere quando sei tu che hai creato il casino».
Fonte: corriere.it
NAPOLI - Aveva raccomandato tante persone e alla fine qualcuno sfuggì al controllo. E così, al telefono con il direttore generale dell’Arpac, l’Agenzia regionale per l’ambiente, l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella chiedeva: «Scusa, ma questo Massaccese di Casoria chi è?». Giuseppe Capobianco lo rassicurava: «È uno dei privati che dobbiamo riconfermare, non è nostro... È uno dei Ds. Ho avuto indicazioni da Giggino e mi ha detto che venivano da te».
I fax dai politici
Fa impressione leggere l’elenco degli aspiranti lavoratori segnalati dai politici. Ma fa ancora più effetto il risultato ottenuto tra il 2005 e il 2008 grazie alle pressioni esercitate. Perché, come sottolinea il giudice nella sua ordinanza, «al maggio 2008 i raccomandati/ imposti rappresentavano il 90 per cento della forza lavoro 'precaria' dell’Ente. Insomma soltanto uno su dieci non risultava segnalato». I conti sono presto fatti. Nel file che Tiziana Lamanna, segretaria di Capobianco, custodiva nel computer ci sono 655 nomi. Le persone assunte con contratto di collaborazione continuativa, dunque escludendo chi ha invece ottenuto consulenze, sono 294. La signora era molto precisa, quasi maniacale. La tabella è divisa in tre colonne. Nella prima ci sono i nomi in ordine alfabetico, accanto la qualifica oppure il titolo di studio, nell’ultima il «segnalatore». La guardia di Finanza ha effettuato un controllo su tutti i fascicoli personali di chi ha ottenuto il contratto e ha scoperto che «molti dei soggetti segnalati dal singolo politico avevano inviato il loro curriculum dal fax in uso al politico stesso; in altri casi sul curriculum era stato scritto a matita il nome del politico di riferimento». Recordman delle raccomandazioni è Luigi Nocera, l’ex assessore regionale all’Ambiente che - evidentemente in forza del suo ruolo «collegato» all’Agenzia - vanta ben 100 segnalazioni. Segue a ruota l’ex presidente dei senatori dell’Udeur Tommaso Barbato con 43 e subito dopo in questa specialissima classifica c’è Antonio Fantini, ex segretario regionale dello stesso partito con 36. La famiglia Mastella non si è evidentemente sottratta a questa allegra gestione. L’ex ministro della Giustizia ne avrebbe fatte 26, sua moglie Sandra 16, il cognato Pasquale Giuditta - all’epoca dei fatti parlamentare - ben 35. Non erano gli unici, anche se gli altri politici elencati sembrano avere pretese più modeste: due segnalazioni sarebbero arrivate dal governatore Antonio Bassolino, una dall’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, una dall’ex braccio destro dello stesso Bassolino, il diessino Isaia Sales, una anche il consigliere regionale di Forza Italia Fulvio Martusciello.
Il messaggio
C’era chi telefonava, chi scriveva mail o lettere. E addirittura chi utilizzava il metodo più rapido degli sms. Il 10 maggio 2007 l’onorevole Giuseppe Maisto - consigliere regionale della Campania per l’Udeur, espulso dal partito nel febbraio dell’anno successivo - manda un messaggio a Capobianco: «Ricordati di convocare ...» e poi aggiunge nome e numero di cellulare del suo candidato. Quanto forti e frequenti fossero le pressioni si capisce bene due mesi dopo quando Capobianco riceve una telefonata dalla sua segretaria.
Lamanna: «Lucià, scusami! Ti volevo dire che ha telefonato l’onorevole Iossa. Vuole notizie di L.R., se ha il contratto triennale».
Capobianco: «Cosa?».
Lamanna: «Ha detto che doveva avere un contratto triennale».
Capobianco: «Ma chi... Vabbè lasciamo stare per telefono, ti richiamo».
Lamanna: «No, lo so. Dico, no, vuole essere chiamato da me per sapere se l’ha avuto o non l’ha avuto. Io mi dovrei...».
Capobianco: «Ma tu non puoi permetterti di chiamare a nessuno ».
Lamanna: «Appunto, ciao».
Alla segretaria era stato assegnato un ruolo chiave in questa vicenda, ma non risulta tra gli indagati. È stata interrogata per chiarire come mai custodisse il file nonostante, come evidenzia il giudice, «l’ufficio non aveva alcun compito istituzionale nella raccolta, ricezione e valutazione dei curricula essendovi un apposito ufficio del personale». Lei ha candidamente affermato: «Succedeva che il giovane aspirante consegnava un curriculum finalizzato a instaurare un rapporto con l’Arpac dicendo che veniva a nome di tizio o caio». Una millanteria, dunque, ma quando il magistrato le ha contestato che si trattava di un’affermazione non credibile ha replicato: «Effettivamente capitava assai spesso, nella maggioranza dei casi, che l’arrivo dell’aspirante fosse preceduto da una telefonata».
Lo sfogo dell’assessore
Il 19 marzo del 2007 l’allora assessore regionale alle risorse umane Andrea Abbamonte chiama Carlo Camilleri, il consuocero dei coniugi Mastella proprio per affrontare il problema delle raccomandazioni.
Abbamonte: «Mi sono fatto una di quelle incazzate con Nocera e Capobianco che non potevi... Capobianco non se la scorda questa giornata».
Camilleri: «Veramente guaglio’... eppure tu eri così legato a lui...».
Abbamonte: «Non si deve più permettere di dire, ma quella... la tua dirigente ha scritto... ho detto: 'guarda, tu sei stronzo tre volte perché ti avevo avvisato io e ti ho convocato. Ti ho detto stai attento ai co.co.co che tu passi un guaio e te l’ho detto io. Tu hai fatto la delibera, hai chiesto il parere della Funzione Pubblica quando io ti avevo detto che non ti dovevi permettere di chiedere il parere della Funzione Pubblica perché è pericolo. E mi hanno detto anche che sei l’elemento debole, perché i miei li tengo sotto la palla, perché sono co.co.co confessati e comunicati. Non ti devi permettere di andare dall’assessore a fare una cosa di questo genere quando sei tu che hai creato il casino».
Fonte: corriere.it
21 ott 2009
Lady Mastella & Co. un file con 655 raccomandati: accanto a ogni nome, quello dello sponsor
NAPOLI - Terremoto all'Arpac, l'agenzia dell'ambiente campano: un'ordinanza di custodia cautelare (ai domiciliari) 63 indagati, 18 divieti di dimora e 6 misure interdittive. Un vero e proprio ciclone contro uno dei settori pubblici, considerato da anni «feudo» del Campanile di Clemente Mastella. L'operazione condotta dalla Guardia di finanza di Napoli e dai carabinieri di Caserta coinvolge, infatti, politici, dirigenti della pubblica amministrazione, professionisti e imprenditori campani.
DIVIETO PER SANDRA
Nell’inchiesta risulta indagata anche la presidente del Consiglio regionale della Campania, Sandra Lonardo, destinataria di un provvedimento di divieto di dimora in Campania, dove svolge la sua attività istituzionale. Non solo: stamane sette carabinieri sono entrati nella villa della famiglia Mastella a Ceppaloni, nel Beneventano e ne sono usciti dopo qualche ora. Nei confronti dell’eurodeputato, che si trovava a Strasburgo, invece è stato emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari.
ARPAC
Il filone dell’indagine per il quale sono scattati gli arresti e gli «avvisi» riguarda l’Arpac, Agenzia regionale per la protezione ambientale. Le accuse contestate vanno dall'’associazione a delinquere finalizzata alla truffa, al falso, all'abuso di ufficio, alla turbativa d’asta e alla concussione. Nel mirino degli inquirenti sia la gestione di appalti pubblici sia i concorsi finalizzati all’assunzione di personale e l'affidamento di incarichi professionali nella pubblica amministrazione. E nel partito chi non si piegava a quest'andazzo veniva vessato e intimidito.
COINVOLTO ANCHE IL CONSUOCERO
Arresti domiciliari sono stati disposti per Luciano Capobianco, ex direttore generale dell’Arpac, l’Azienda regionale per la protezione ambientale della Campania. Quindici gli indagati per i quali è stato applicato il divieto di dimora nella Regione Campania. Oltre alla Lonardo; il capogruppo alla Regione Fernando Errico; Nicola Ferraro, consigliere regionale; Antonio Fantini, già presidente della Regione Campania e segretario regionale Udeur. Gli altri provvedimenti riguardano Valerio Azzi, imprenditore; Carlo Camilleri, ingegnere e consuocero di Clemente Mastella; Ruggero Cataldi, ex direttore amministrativo Asl Benevento 1; Giuseppe Ciotola, imprenditore; Bruno De Stefano, direttore generale dell’Asl di Benevento; Arnaldo Falato, dirigente dell’Asl Benevento 1; Carmelo Lomazzo, dirigente Arpac; Massimo Menegozzo, dirigente Arpac; Massimo Palmieri, imprenditore; Francesco Polizio, dirigente Arpac; Mario Scarinzi, ex direttore generale dell’Asl Benevento 1. Il divieto di dimora nelle province di Benevento, Caserta e Napoli è stato disposto per Bartolomeo Piccolo, imprenditore, mentre il divieto di dimora nelle province di Benevento e Napoli per Giustino Tranfa, imprenditore, Antonio Zerrillo, ingegnere. La misura interdittiva del divieto di esercitare l’impresa e la professione è stata disposta per gli imprenditori Gaetano Criscione, Francesco Di Palma, Fabrizio Merolla, Claudio Rossi, Fabio Rossi e per il libero professionista Antonello Scocca.
UN FILE CON I RACCOMANDATI
In un file rinvenuto nel computer sequestrato dalla Guardia di Finanza nella segreteria dell’ex direttore generale dell’Arpac, Luciano Capobianco, compaiono 655 nominativi e la maggior parte sono accompagnati dalla segnalazione di un esponente politico, dell’Udeur ma non solo, che li avrebbe raccomandati. Il documento costituisce uno degli elementi principali intorno a cui ruota l’inchiesta della procura di Napoli coordinata dal procuratore aggiunto Francesco Greco. «Si tratta - è scritto nell’ordinanza emessa oggi dal gip Alfano - di raccomandati veri e propri che rispetto ad altri aspiranti privi di sponsor, disponevano della segnalazione di un referente politico che determinerà, nella maggior parte dei casi l’assunzione in violazione delle norme». In alunni casi è emerso che le segnalazioni venivano inviate dai soggetti interessati dal fax in uso allo stesso esponente politico di riferimento, in altri casi il curriculum sarebbe stato scritto a matita proprio dal politico. La procura ha indicato in un riquadro, in ordine decrescente rispetto al numero di segnalazioni, l’elenco degli autori delle segnalazioni (circa 150). Spicca con 100 Nocera (ex assessore regionale Udeur), poi a seguire i nomi di T.Barbato (43), Fantini (36), Giuditta (35), C.Mastella (26), Enrico (17), S.Mastella (12). Tra gli altri nomi di politici locali e nazionali più noti figurano anche Bassolino (2), De Mita (2), Pecoraro Scanio (1), Sales (1). Le persone segnalate sarebbero state favorite per incarichi esterni (consulenze) o per assunzioni all’Arpac a scapito di aspiranti privi di sponsor.
CLEMENTE TORNA DA STRASBURGO
Il leader dell’ Udeur ha saputo dell’ inchiesta nella quale è coinvolto insieme con la moglie Sandra mentre stava partecipando a Strasburgo alla seduta del Parlamento Europeo. Mastella, che era giunto ieri nella città francese per i lavori dell’assemblea, sta ora rientrando in Italia: si è imbarcato sul primo volo utile per Parigi e dalla capitale francese proseguirà per Roma, dove arriverà nel pomeriggio.
UNA SUPER-PARCELLA
Un milione e 300 mila euro, a tanto ammonta la super parcella che è stata liquidata ad uno degli indagati. La persona in questione, in base al lavoro investigativo, è stata beneficiata dall’Asl di Benevento di una consulenza su un argomento che la stessa Procura di Napoli definisce «non chiaro». Si tratta della ricompensa ricevuta «dopo aver dispiegato per il partito (l’Udeur, ndr) la sua presunta intermediazione con gli organi di giustizia amministrativa in una controversia elettorale relativa alle comunali di Morcone (Benevento). Agli atti dell’Asl nessuna documentazione di tale consulenza ma solo il pagamento delle parcelle. Il beneficiario della frode, «un congiunto di un esponente di vertice del sodalizio», ha ottenuto la super parcella con una «truffa» (è la definizione della Procura) ai danni del consorzio di bonifica di Sessa Aurunca (Caserta) e della Regione Campania. L’importo è stato liquidato in relazione a presunti lavori di ristrutturazione della rete di adduzione dell’impianto irriguo di Cellole, sempre nel Casertano.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
DIVIETO PER SANDRA
Nell’inchiesta risulta indagata anche la presidente del Consiglio regionale della Campania, Sandra Lonardo, destinataria di un provvedimento di divieto di dimora in Campania, dove svolge la sua attività istituzionale. Non solo: stamane sette carabinieri sono entrati nella villa della famiglia Mastella a Ceppaloni, nel Beneventano e ne sono usciti dopo qualche ora. Nei confronti dell’eurodeputato, che si trovava a Strasburgo, invece è stato emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari.
ARPAC
Il filone dell’indagine per il quale sono scattati gli arresti e gli «avvisi» riguarda l’Arpac, Agenzia regionale per la protezione ambientale. Le accuse contestate vanno dall'’associazione a delinquere finalizzata alla truffa, al falso, all'abuso di ufficio, alla turbativa d’asta e alla concussione. Nel mirino degli inquirenti sia la gestione di appalti pubblici sia i concorsi finalizzati all’assunzione di personale e l'affidamento di incarichi professionali nella pubblica amministrazione. E nel partito chi non si piegava a quest'andazzo veniva vessato e intimidito.
COINVOLTO ANCHE IL CONSUOCERO
Arresti domiciliari sono stati disposti per Luciano Capobianco, ex direttore generale dell’Arpac, l’Azienda regionale per la protezione ambientale della Campania. Quindici gli indagati per i quali è stato applicato il divieto di dimora nella Regione Campania. Oltre alla Lonardo; il capogruppo alla Regione Fernando Errico; Nicola Ferraro, consigliere regionale; Antonio Fantini, già presidente della Regione Campania e segretario regionale Udeur. Gli altri provvedimenti riguardano Valerio Azzi, imprenditore; Carlo Camilleri, ingegnere e consuocero di Clemente Mastella; Ruggero Cataldi, ex direttore amministrativo Asl Benevento 1; Giuseppe Ciotola, imprenditore; Bruno De Stefano, direttore generale dell’Asl di Benevento; Arnaldo Falato, dirigente dell’Asl Benevento 1; Carmelo Lomazzo, dirigente Arpac; Massimo Menegozzo, dirigente Arpac; Massimo Palmieri, imprenditore; Francesco Polizio, dirigente Arpac; Mario Scarinzi, ex direttore generale dell’Asl Benevento 1. Il divieto di dimora nelle province di Benevento, Caserta e Napoli è stato disposto per Bartolomeo Piccolo, imprenditore, mentre il divieto di dimora nelle province di Benevento e Napoli per Giustino Tranfa, imprenditore, Antonio Zerrillo, ingegnere. La misura interdittiva del divieto di esercitare l’impresa e la professione è stata disposta per gli imprenditori Gaetano Criscione, Francesco Di Palma, Fabrizio Merolla, Claudio Rossi, Fabio Rossi e per il libero professionista Antonello Scocca.
UN FILE CON I RACCOMANDATI
In un file rinvenuto nel computer sequestrato dalla Guardia di Finanza nella segreteria dell’ex direttore generale dell’Arpac, Luciano Capobianco, compaiono 655 nominativi e la maggior parte sono accompagnati dalla segnalazione di un esponente politico, dell’Udeur ma non solo, che li avrebbe raccomandati. Il documento costituisce uno degli elementi principali intorno a cui ruota l’inchiesta della procura di Napoli coordinata dal procuratore aggiunto Francesco Greco. «Si tratta - è scritto nell’ordinanza emessa oggi dal gip Alfano - di raccomandati veri e propri che rispetto ad altri aspiranti privi di sponsor, disponevano della segnalazione di un referente politico che determinerà, nella maggior parte dei casi l’assunzione in violazione delle norme». In alunni casi è emerso che le segnalazioni venivano inviate dai soggetti interessati dal fax in uso allo stesso esponente politico di riferimento, in altri casi il curriculum sarebbe stato scritto a matita proprio dal politico. La procura ha indicato in un riquadro, in ordine decrescente rispetto al numero di segnalazioni, l’elenco degli autori delle segnalazioni (circa 150). Spicca con 100 Nocera (ex assessore regionale Udeur), poi a seguire i nomi di T.Barbato (43), Fantini (36), Giuditta (35), C.Mastella (26), Enrico (17), S.Mastella (12). Tra gli altri nomi di politici locali e nazionali più noti figurano anche Bassolino (2), De Mita (2), Pecoraro Scanio (1), Sales (1). Le persone segnalate sarebbero state favorite per incarichi esterni (consulenze) o per assunzioni all’Arpac a scapito di aspiranti privi di sponsor.
CLEMENTE TORNA DA STRASBURGO
Il leader dell’ Udeur ha saputo dell’ inchiesta nella quale è coinvolto insieme con la moglie Sandra mentre stava partecipando a Strasburgo alla seduta del Parlamento Europeo. Mastella, che era giunto ieri nella città francese per i lavori dell’assemblea, sta ora rientrando in Italia: si è imbarcato sul primo volo utile per Parigi e dalla capitale francese proseguirà per Roma, dove arriverà nel pomeriggio.
UNA SUPER-PARCELLA
Un milione e 300 mila euro, a tanto ammonta la super parcella che è stata liquidata ad uno degli indagati. La persona in questione, in base al lavoro investigativo, è stata beneficiata dall’Asl di Benevento di una consulenza su un argomento che la stessa Procura di Napoli definisce «non chiaro». Si tratta della ricompensa ricevuta «dopo aver dispiegato per il partito (l’Udeur, ndr) la sua presunta intermediazione con gli organi di giustizia amministrativa in una controversia elettorale relativa alle comunali di Morcone (Benevento). Agli atti dell’Asl nessuna documentazione di tale consulenza ma solo il pagamento delle parcelle. Il beneficiario della frode, «un congiunto di un esponente di vertice del sodalizio», ha ottenuto la super parcella con una «truffa» (è la definizione della Procura) ai danni del consorzio di bonifica di Sessa Aurunca (Caserta) e della Regione Campania. L’importo è stato liquidato in relazione a presunti lavori di ristrutturazione della rete di adduzione dell’impianto irriguo di Cellole, sempre nel Casertano.
Fonte: corrieredelmezzogiorno.it
7 ott 2009
La strada da 62 milioni al km, contestata per salvare i rospi. Asti e la super tangenziale costosissima.
E Rifondazione accusa: minaccia l'habitat dell'anfibio
ROMA — Trecentosettantacinquemilioniottocento-ventitremiladuecentocinquanta euro. Una cifra che basterebbe per comprare trecento carrozze deluxe per i treni dei pendolari. O rimettere in sesto tutte le strutture universitarie scassate dell'Aquila, pagare per un anno le rette degli studenti e poi, con quel che avanza, acquistare tremila casette di legno per gli sfollati del terremoto. Tutti questi soldi saranno invece spesi per una strada, una piccola tangenziale a sud ovest di Asti. Un nastro d'asfalto lungo appena 5.329 metri che costa, considerando i 2.848 metri di bretelle e svincoli per collegarlo alla viabilità ordinaria, più di 60 milioni al euro al chilometro. Esattamente, 62,2 milioni. La breve tangenziale corre su un lungo viadotto e poi sotto terra: immaginate i denari che servono.
Ma se non è la strada più cara del mondo, poco ci manca. Per capire: la Variante di Valico, che si sviluppa quasi tutta in galleria, vale 52 milioni al chilometro. Ed è probabilmente il più costoso tratto di strada mai realizzato in Italia, dove per costruire un chilometro di autostrada si spendono mediamente 32 milioni, contro i 14,6 milioni della Spagna. Senza considerare che la tangenziale sud ovest di Asti non è nemmeno un'autostrada in senso stretto, visto che per un terzo avrà una sola corsia per senso di marcia. Ma in un Paese che nonostante le promesse continua a costruire infrastrutture con il contagocce, sarebbe perfino una spesa benedetta (sempre giustificandone il livello astronomico). Se invece, come qualcuno sostiene, fosse una strada completamente inutile? Così almeno la pensa un comitato locale che da anni la contesta. E così la pensano anche alcuni consiglieri del Piemonte (per esempio Angela Motta del Pd, stesso partito del governatore Mercedes Bresso) pronti a dare battaglia in previsione del parere che a giorni emetterà la Regione. Per nulla scoraggiati dallo scontato «sì» regionale, epitaffio per le loro residue speranze, gli oppositori sono decisi a far valere tutte le loro ragioni. Il 22 settembre due consiglieri rifondaroli, Paola Barassi e Alberto Deambrogio, hanno presentato una mozione contro il progetto preliminare depositato dall'Anas ad agosto. Nell'elenco delle rimostranze, anche l'allarme per il rischio che correrebbe una «particolare e rara specie di rospo presente solo in due aree del territorio piemontese»: il pelobates fuscus insubricus, sopravvissuto all'alluvione del 1994, il cui habitat naturale verrebbe seriamente compromesso dalla nuova arteria.
C'è da dire che l'anfibio avrebbe corso lo stesso rischio anche cinquant'anni fa, quando si cominciò a pensare a quella tangenziale e non esisteva nessun partito dei rospi. Le prime lettere di esproprio ai proprietari dei terreni partirono dal Comune di Asti nel 1960. Poi tutto si fermò. Finché nel 1974 la tangenziale spuntò nel piano regolatore della città. All'inizio attraversava gli orti a ridosso del centro abitato. Via via che il cemento invadeva il territorio, però, il tracciato veniva spostato sempre più in periferia. Mentre i costi del progetto si gonfiavano come un sufflè: l'ultima botta arrivò con l'alluvione del 1994 che ispirò un megaviadotto da oltre un chilometro. Tutto sulla carta, naturalmente, perché nessuno credeva davvero che la tangenziale si sarebbe mai fatta. Troppi soldi, troppo tempo, troppi problemi. Il partito del rospo, che intanto era sorto, si fregava le mani, ma non aveva fatto i conti con il progetto dell'autostrada Asti-Cuneo. Né, soprattutto, con il presidente della Provincia Roberto Marmo, forzista, che persuase l'Anas a fare la tangenziale con l'intento di collegare al casello di Asti Ovest l'Asti-Cuneo con la Torino-Piacenza. Entrambe gestite da società che fanno capo al potente concessionario privato Marcellino Gavio. Si fece quindi un progetto faraonico per un'autostrada a sei corsie.
Ma nel 2002 il nuovo sindaco di centrosinistra Vittorio Voglino, uscito da una campagna elettorale nella quale quattro candidati su cinque, tutti tranne quello di Forza Italia, avevano promesso che se eletti non avrebbero fatto la tangenziale, lo bloccò. La motivazione? Per collegare le due autostrade si poteva bene utilizzare un'altra strada, già esistente, arrivando così al casello di Asti est. Soluzione considerata più facile e più logica. L'Anas avrebbe però dovuto ampliare quella strada. E come compensare Comune e Provincia? Semplice: realizzando la tangenziale della discordia ma con un progetto diverso, sul quale Marmo e Voglino stavolta si erano messi d'accordo. Un progetto forse più modesto, ma a quanto pare non meno costoso. E i soldi? Nessun problema: c'è la Legge obiettivo. Inutili le proteste degli oppositori, secondo cui non è stato mai fatto uno studio di viabilità, e quindi nessuno sarebbe in grado di dire quante macchine passeranno su quella strada. Inutili anche le osservazioni avanzate dal comitato su alcuni aspetti dell'operazione. Per esempio, la circostanza che la società Autostrada Asti-Cuneo del gruppo Gavio, concessionaria della tangenziale, sia partecipata al 35% dall'Anas, cioè dal concedente. Per esempio, che il progetto sia stato affidato a un'altra società del medesimo gruppo Gavio, la Sina spa, di cui è amministratore delegato Agostino Spoglianti, contemporaneamente pure presidente della Asti-Cuneo...
Fonte: corriere.it
ROMA — Trecentosettantacinquemilioniottocento-ventitremiladuecentocinquanta euro. Una cifra che basterebbe per comprare trecento carrozze deluxe per i treni dei pendolari. O rimettere in sesto tutte le strutture universitarie scassate dell'Aquila, pagare per un anno le rette degli studenti e poi, con quel che avanza, acquistare tremila casette di legno per gli sfollati del terremoto. Tutti questi soldi saranno invece spesi per una strada, una piccola tangenziale a sud ovest di Asti. Un nastro d'asfalto lungo appena 5.329 metri che costa, considerando i 2.848 metri di bretelle e svincoli per collegarlo alla viabilità ordinaria, più di 60 milioni al euro al chilometro. Esattamente, 62,2 milioni. La breve tangenziale corre su un lungo viadotto e poi sotto terra: immaginate i denari che servono.
Ma se non è la strada più cara del mondo, poco ci manca. Per capire: la Variante di Valico, che si sviluppa quasi tutta in galleria, vale 52 milioni al chilometro. Ed è probabilmente il più costoso tratto di strada mai realizzato in Italia, dove per costruire un chilometro di autostrada si spendono mediamente 32 milioni, contro i 14,6 milioni della Spagna. Senza considerare che la tangenziale sud ovest di Asti non è nemmeno un'autostrada in senso stretto, visto che per un terzo avrà una sola corsia per senso di marcia. Ma in un Paese che nonostante le promesse continua a costruire infrastrutture con il contagocce, sarebbe perfino una spesa benedetta (sempre giustificandone il livello astronomico). Se invece, come qualcuno sostiene, fosse una strada completamente inutile? Così almeno la pensa un comitato locale che da anni la contesta. E così la pensano anche alcuni consiglieri del Piemonte (per esempio Angela Motta del Pd, stesso partito del governatore Mercedes Bresso) pronti a dare battaglia in previsione del parere che a giorni emetterà la Regione. Per nulla scoraggiati dallo scontato «sì» regionale, epitaffio per le loro residue speranze, gli oppositori sono decisi a far valere tutte le loro ragioni. Il 22 settembre due consiglieri rifondaroli, Paola Barassi e Alberto Deambrogio, hanno presentato una mozione contro il progetto preliminare depositato dall'Anas ad agosto. Nell'elenco delle rimostranze, anche l'allarme per il rischio che correrebbe una «particolare e rara specie di rospo presente solo in due aree del territorio piemontese»: il pelobates fuscus insubricus, sopravvissuto all'alluvione del 1994, il cui habitat naturale verrebbe seriamente compromesso dalla nuova arteria.
C'è da dire che l'anfibio avrebbe corso lo stesso rischio anche cinquant'anni fa, quando si cominciò a pensare a quella tangenziale e non esisteva nessun partito dei rospi. Le prime lettere di esproprio ai proprietari dei terreni partirono dal Comune di Asti nel 1960. Poi tutto si fermò. Finché nel 1974 la tangenziale spuntò nel piano regolatore della città. All'inizio attraversava gli orti a ridosso del centro abitato. Via via che il cemento invadeva il territorio, però, il tracciato veniva spostato sempre più in periferia. Mentre i costi del progetto si gonfiavano come un sufflè: l'ultima botta arrivò con l'alluvione del 1994 che ispirò un megaviadotto da oltre un chilometro. Tutto sulla carta, naturalmente, perché nessuno credeva davvero che la tangenziale si sarebbe mai fatta. Troppi soldi, troppo tempo, troppi problemi. Il partito del rospo, che intanto era sorto, si fregava le mani, ma non aveva fatto i conti con il progetto dell'autostrada Asti-Cuneo. Né, soprattutto, con il presidente della Provincia Roberto Marmo, forzista, che persuase l'Anas a fare la tangenziale con l'intento di collegare al casello di Asti Ovest l'Asti-Cuneo con la Torino-Piacenza. Entrambe gestite da società che fanno capo al potente concessionario privato Marcellino Gavio. Si fece quindi un progetto faraonico per un'autostrada a sei corsie.
Ma nel 2002 il nuovo sindaco di centrosinistra Vittorio Voglino, uscito da una campagna elettorale nella quale quattro candidati su cinque, tutti tranne quello di Forza Italia, avevano promesso che se eletti non avrebbero fatto la tangenziale, lo bloccò. La motivazione? Per collegare le due autostrade si poteva bene utilizzare un'altra strada, già esistente, arrivando così al casello di Asti est. Soluzione considerata più facile e più logica. L'Anas avrebbe però dovuto ampliare quella strada. E come compensare Comune e Provincia? Semplice: realizzando la tangenziale della discordia ma con un progetto diverso, sul quale Marmo e Voglino stavolta si erano messi d'accordo. Un progetto forse più modesto, ma a quanto pare non meno costoso. E i soldi? Nessun problema: c'è la Legge obiettivo. Inutili le proteste degli oppositori, secondo cui non è stato mai fatto uno studio di viabilità, e quindi nessuno sarebbe in grado di dire quante macchine passeranno su quella strada. Inutili anche le osservazioni avanzate dal comitato su alcuni aspetti dell'operazione. Per esempio, la circostanza che la società Autostrada Asti-Cuneo del gruppo Gavio, concessionaria della tangenziale, sia partecipata al 35% dall'Anas, cioè dal concedente. Per esempio, che il progetto sia stato affidato a un'altra società del medesimo gruppo Gavio, la Sina spa, di cui è amministratore delegato Agostino Spoglianti, contemporaneamente pure presidente della Asti-Cuneo...
Fonte: corriere.it
5 ott 2009
Assenze, choc a Montecitorio Pdl in crisi, si allo scudo per soli 20 voti. E il PD?
Attraversi il Transatlantico un attimo dopo il voto sullo Scudo fiscale, ieri a Montecitorio, e per un attimo ti pare di sorvolare una trincea bombardata da un ordigno fuori bersaglio. I due eserciti si contemplano stupiti, rintronati, cercano di capire cosa sia successo. Sul tabellone luminoso brillano numeri irrevocabili: 522 presenti, 520 votanti, 2 astenuti. Lo scudo fiscale è passato per soli 20 voti, in una Camera in cui il centrodestra vanta un vantaggio incolmabile. Incolmabile? Balle.
La rabbia di La Russa. Nulla è andato come doveva, nè da una parte, nè dall’altra. E adesso, sui tre portoni di accesso all’aula si formano i capannelli. I primi conti sono facili: nel centrodestra è crollato il Pdl, falcidiato da tanti deputati “doppiolavoristi”, che hanno preso l’abitudine di disertare le sedute più importanti. Il Pdl ha visto sottrarsi al voto ben 56 dei suoi deputati, ed è stato salvato dal fatto che 51 leghisti su 60 hanno garantito la tenuta della maggioranza. Ecco perchè Ignazio La Russa non tratteneva il suo sconcerto: “Ma siamo impazziti? Trenta deputati in meno? Questo è un fatto grave”. Subito dopo il ministro della Difesa puntava il dito sui presunti colpevoli, rompendo ogni diplomatismo: “Dovremo fare bene i conti con tutti. Anche con chi si rifugia nelle missioni per giustificare l’assenza grazie ai suoi incarichi istituzionali...”. Con chi ce l’aveva? Lo vedremo fra poco. Intanto continuiamo la nostra carrellata e passiamo nell’altro campo. Se Atene piange Sparta non ride. E infatti il vero choc - paradossalmente - si abbatte sul centrosinistra, che in tutta la mattinata, nei primi voti, era apparso in forte vantaggio. E che nel passaggio più importante, però, ha mancato il colpaccio per un soffio. Bastava che 22 dei 33 voti dispersi per diversi motivi non sfuggissero all’appello (un risultato possibile, per chi ha pratica del Parlamento) e ieri l’opposizione avrebbe festeggiato la caduta del governo Berlusconi.
Anche molti che avevano criticato questo giornale per la pubblicazione della lista degli assenti di martedì (soprattutto in casa Pd) ieri si mordevano le mani. Ed anche escludendo l’ irrecuperabile Capodicasa (risulta ricoverato) e l’errore di sistema che ha bloccato Furio Colombo (era in Aula, ha votato e ha fatto mettere immediatamente a verbale il suo No) sono molti gli assenti decisivi. E’ come attraversare un campo di battaglia, questa passeggiata dopo-voto. Nel capannello dell’Italia dei valori il vicecapogruppo Fabio Evangelisti sospira: “Ci è mancato solo un voto. Sarebbe stato meglio avere anche quello. Ma c’era il 96% di presenze, se le altre opposizioni fossero state presenti come noi. Avremmo vinto.”. Il disperso dipietrista, Aurelio Misiti era sotto un treno. “Da tre anni non manco un voto! Ma dovevo accompagnare mio fratello a una risonanza magnetica. L’avevo programmata da tre mesi, lo slittamento del voto mi ha fregato”. Già: alcuni sono stati spiazzati dalla dilazione dettata dall’ostruzionismo. Ma altri? A voto concluso si scopre che la presidenza del gruppo Pd aveva fatto una stima: “Erano 11 - spiega il piddino Emilio Quartiani - quelli che si erano giustificati con motivi inoppugnabili”: Lo stesso deputato, poco prima del voto, aveva chiesto lo scrutinio segreto: “Il motivo? Semplice: liberando i deputati dall’identificazione avremmo favorito i dissidenti”.
Il giallo. E su questo punto prende forma l’ultimo giallo. Con chi ce l’aveva La Russa? L’elenco dei deputati in missione a destra ha acceso qualche sospetto: oltre al ministro Ronchi mancavano un finiano di ferro come Roberto Menia, e l’uomo più vicino all’ex leader di An, Donato Lamorte. Fra quelli che non hanno partecipato al voto, un altro deputato un tempo molto legato al presidente della Camera, Manlio Contento, e l’ex ministro Mirko Tremaglia. Solo un caso? Oppure l’anima finiana e legalitaria del Pdl ha fornito un assist? Se così fosse stato, il Pd non l’ha capito, e l’Udc, con 7 assenti, non è stata all’altezza della sfida. Le frasi più dure, ieri, erano di Pierferdinando Casini: “Per gli assenti ingiustificati, che comunque non sarebbero stati determinanti ai fini del voto, la presidenza del gruppo prendera' immediate sanzioni". Casini annunciava - addirittura! - “sanzioni economiche”. Anche Antonello Soro, vergava parole di fuoco: “Ci saranno sanzioni per 11 deputati non giustificati”. Ma in casa Pd molti notano le assenze dell’ala rutelliana teodem: Binetti, Fioroni, Lanzillotta... Un altro caso? Nel Transatlantico bombardato aleggia di nuovo l’ombra del congresso Pd.
Fonte: antefatto.it
La rabbia di La Russa. Nulla è andato come doveva, nè da una parte, nè dall’altra. E adesso, sui tre portoni di accesso all’aula si formano i capannelli. I primi conti sono facili: nel centrodestra è crollato il Pdl, falcidiato da tanti deputati “doppiolavoristi”, che hanno preso l’abitudine di disertare le sedute più importanti. Il Pdl ha visto sottrarsi al voto ben 56 dei suoi deputati, ed è stato salvato dal fatto che 51 leghisti su 60 hanno garantito la tenuta della maggioranza. Ecco perchè Ignazio La Russa non tratteneva il suo sconcerto: “Ma siamo impazziti? Trenta deputati in meno? Questo è un fatto grave”. Subito dopo il ministro della Difesa puntava il dito sui presunti colpevoli, rompendo ogni diplomatismo: “Dovremo fare bene i conti con tutti. Anche con chi si rifugia nelle missioni per giustificare l’assenza grazie ai suoi incarichi istituzionali...”. Con chi ce l’aveva? Lo vedremo fra poco. Intanto continuiamo la nostra carrellata e passiamo nell’altro campo. Se Atene piange Sparta non ride. E infatti il vero choc - paradossalmente - si abbatte sul centrosinistra, che in tutta la mattinata, nei primi voti, era apparso in forte vantaggio. E che nel passaggio più importante, però, ha mancato il colpaccio per un soffio. Bastava che 22 dei 33 voti dispersi per diversi motivi non sfuggissero all’appello (un risultato possibile, per chi ha pratica del Parlamento) e ieri l’opposizione avrebbe festeggiato la caduta del governo Berlusconi.
Anche molti che avevano criticato questo giornale per la pubblicazione della lista degli assenti di martedì (soprattutto in casa Pd) ieri si mordevano le mani. Ed anche escludendo l’ irrecuperabile Capodicasa (risulta ricoverato) e l’errore di sistema che ha bloccato Furio Colombo (era in Aula, ha votato e ha fatto mettere immediatamente a verbale il suo No) sono molti gli assenti decisivi. E’ come attraversare un campo di battaglia, questa passeggiata dopo-voto. Nel capannello dell’Italia dei valori il vicecapogruppo Fabio Evangelisti sospira: “Ci è mancato solo un voto. Sarebbe stato meglio avere anche quello. Ma c’era il 96% di presenze, se le altre opposizioni fossero state presenti come noi. Avremmo vinto.”. Il disperso dipietrista, Aurelio Misiti era sotto un treno. “Da tre anni non manco un voto! Ma dovevo accompagnare mio fratello a una risonanza magnetica. L’avevo programmata da tre mesi, lo slittamento del voto mi ha fregato”. Già: alcuni sono stati spiazzati dalla dilazione dettata dall’ostruzionismo. Ma altri? A voto concluso si scopre che la presidenza del gruppo Pd aveva fatto una stima: “Erano 11 - spiega il piddino Emilio Quartiani - quelli che si erano giustificati con motivi inoppugnabili”: Lo stesso deputato, poco prima del voto, aveva chiesto lo scrutinio segreto: “Il motivo? Semplice: liberando i deputati dall’identificazione avremmo favorito i dissidenti”.
Il giallo. E su questo punto prende forma l’ultimo giallo. Con chi ce l’aveva La Russa? L’elenco dei deputati in missione a destra ha acceso qualche sospetto: oltre al ministro Ronchi mancavano un finiano di ferro come Roberto Menia, e l’uomo più vicino all’ex leader di An, Donato Lamorte. Fra quelli che non hanno partecipato al voto, un altro deputato un tempo molto legato al presidente della Camera, Manlio Contento, e l’ex ministro Mirko Tremaglia. Solo un caso? Oppure l’anima finiana e legalitaria del Pdl ha fornito un assist? Se così fosse stato, il Pd non l’ha capito, e l’Udc, con 7 assenti, non è stata all’altezza della sfida. Le frasi più dure, ieri, erano di Pierferdinando Casini: “Per gli assenti ingiustificati, che comunque non sarebbero stati determinanti ai fini del voto, la presidenza del gruppo prendera' immediate sanzioni". Casini annunciava - addirittura! - “sanzioni economiche”. Anche Antonello Soro, vergava parole di fuoco: “Ci saranno sanzioni per 11 deputati non giustificati”. Ma in casa Pd molti notano le assenze dell’ala rutelliana teodem: Binetti, Fioroni, Lanzillotta... Un altro caso? Nel Transatlantico bombardato aleggia di nuovo l’ombra del congresso Pd.
Fonte: antefatto.it
24 set 2009
A Viterbo l’aeroporto doppione, e costoso (che tutti vogliono)
I progetti per il terzo scalo laziale sostenuti da entrambi gli schieramenti
Strutture da rifare. Ciampino dovrà rinunciare ai low cost
Al Comune di Viterbo esiste anche un assessore per l’aeroporto che ancora non c’è. Il nome: Giovanni Bartoletti. Ha 42 anni, un passato da ufficiale pilota e un presente da presidente del comitato per l’aeroporto della Tuscia. È stato eletto nel 2008 per il centrodestra con la lista civica «Viterbo vola» e prontamente il nuovo sindaco Giulio Marini l’ha messo in giunta. Questo per dire che Gianni Alemanno avrà pane per i suoi denti.
Il sindaco di Roma parte lancia in resta alla difesa dell’aeroporto di Ciampino contro il futuro scalo che dovrebbe portargli via il traffico low cost da e per la Capitale, evocando il fantasma di una nuova Malpensa? Ebbene, a Viterbo i suoi colleghi di partito montano le artiglierie pesanti. Nel Paese dei campanili ognuno vuole anche la sua pista. E pazienza se già ne abbiamo (in rapporto alla superficie) il doppio della Francia, se si fagocitano l’un l’altro, se in qualche scalo i passeggeri sono rari come i canguri albini. Quando si deve perorare una causa aeroportuale non c’è politico, di destra o sinistra, che si tiri indietro. Nel novembre 2007 un aeroplanino sorvolò Viterbo trascinando uno striscione dove c’era scritto a caratteri cubitali: «Grazie!». Di che? Ma di aver scelto la città della Tuscia come base per il terzo aeroporto del Lazio. Il ringraziamento era rivolto al ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi ma soprattutto al suo collega dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, margheritino, viterbese ex sindaco di Viterbo, che si era battuto come un leone contro Latina e soprattutto contro Frosinone. In pieno dramma psicologico Francesco Scalia, presidente anch’egli margheritino della Provincia ciociara, arrivò a minacciare le dimissioni. Ma allora Fioroni era ministro e davvero c’era poco da fare. Tanto più considerando che l’aeroporto viterbese aveva anche il sostegno di un altro pezzo da novanta della maggioranza di governo: il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti. Lo schiacciasassi politico macinò chi contrastava il progetto, come il Comitato per il No guidato dall’ex sindaco di Soriano del Cimino, Alessandro Pizzi, che paventavano seri danni ambientali (l’aeroporto è a due passi dalle terme). Inutili si rivelarono gli appelli al leader della Margherita Francesco Rutelli e le proteste di Verdi e sinistra radicale.
C’è da dire che fra le tre soluzioni che erano state proposte l’Enav aveva chiaramente indicato Viterbo per motivi tecnici: Latina è congestionata e interferisce con Pratica di Mare e Napoli, Frosinone è in una conca fra le montagne, spesso nebbiosa. Ma c’è da dire che anche l’opposizione politica di allora non si oppose. Basti pensare che il comitato per l’aeroporto è capeggiato da un uomo di centrodestra. Per non parlare del nuovo sindaco Marini. Il quale, per inciso, è anche deputato del Popolo della libertà. E questo nonostante per legge l’incarico di parlamentare sia incompatibile con quello di sindaci di città con oltre 20 mila abitanti (Viterbo ne ha 59.308). Non che per l’aeroporto le cose sarebbero cambiate di molto se il centrodestra non avesse vinto le elezioni: candidato sindaco dello schieramento opposto era Sposetti. Senza contare che anche alla presidenza della Provincia, in mano al centrosinistra, c’è un altro sostenitore dello scalo, ovvero l’ex segretario provinciale diessino Alessandro Mazzoli. Nato, per ironia della sorte, a Frosinone. Sulla carta, dunque, l’aeroporto è blindato. «Su questo c’è forte sintonia fra il governo, la Regione, la Provincia e il Comune », ha detto ieri il governatore del Lazio Piero Marrazzo. Quanto al rischio di creare una Malpensa in sedicesimi, è un’altra faccenda. Innanzitutto i soldi.
Per l’adeguamento delle strutture aeroportuali servirebbero circa 260 milioni. Ma è il meno. Viterbo dista da Roma circa 90 chilometri: almeno un’ora e mezzo con l’automobile e un paio d’ore con il treno. Ci sono ben due ferrovie che collegano la Capitale con la città della Tuscia, ma servono fondamentalmente il traffico pendolare e andrebbero seriamente adeguate. Per la linea delle Ferrovie dello Stato (tempo di percorrenza da un’ora e tre quarti a due ore e dieci) è previsto un raddoppio fino a Bracciano, mentre non esiste un progetto, né un finanziamento, per il potenziamento del tratto fino a Viterbo. Per la linea ferroviaria regionale gestita dalla romana Metro (tempo di percorrenza due ore e mezzo) l’ipotesi del raddoppio invece esiste. Ma bisognerà trovare altri 600 milioni di euro, e comunque per la realizzazione si parla di svariati anni. Infine, va da sé che l’aeroporto low cost a Viterbo ha senso se si svuota Ciampino. Diversamente, non ce l’ha. Peccato che uno dei maggiori vettori, cioè Ryanair, non ne voglia sapere di rinunciare a un privilegio che in Europa non ha nessuna compagnia a basso costo: quello di un aeroporto praticamente in città. Il suo capo, Michael O’Leary, ha avvertito che se dovrà lasciare Ciampino la compagnia irlandese abbandonerà Roma: mettendo a rischio, argomento molto convincente, 3.500 posti di lavoro. E ha comunque avviato una dura resistenza legale. Nel frattempo, notizia della scorsa primavera, la Regione Lazio ha dato il via a un quarto aeroporto. Dove? Ma a Frosinone, che domande...
Fonte: corriere.it
Strutture da rifare. Ciampino dovrà rinunciare ai low cost
Al Comune di Viterbo esiste anche un assessore per l’aeroporto che ancora non c’è. Il nome: Giovanni Bartoletti. Ha 42 anni, un passato da ufficiale pilota e un presente da presidente del comitato per l’aeroporto della Tuscia. È stato eletto nel 2008 per il centrodestra con la lista civica «Viterbo vola» e prontamente il nuovo sindaco Giulio Marini l’ha messo in giunta. Questo per dire che Gianni Alemanno avrà pane per i suoi denti.
Il sindaco di Roma parte lancia in resta alla difesa dell’aeroporto di Ciampino contro il futuro scalo che dovrebbe portargli via il traffico low cost da e per la Capitale, evocando il fantasma di una nuova Malpensa? Ebbene, a Viterbo i suoi colleghi di partito montano le artiglierie pesanti. Nel Paese dei campanili ognuno vuole anche la sua pista. E pazienza se già ne abbiamo (in rapporto alla superficie) il doppio della Francia, se si fagocitano l’un l’altro, se in qualche scalo i passeggeri sono rari come i canguri albini. Quando si deve perorare una causa aeroportuale non c’è politico, di destra o sinistra, che si tiri indietro. Nel novembre 2007 un aeroplanino sorvolò Viterbo trascinando uno striscione dove c’era scritto a caratteri cubitali: «Grazie!». Di che? Ma di aver scelto la città della Tuscia come base per il terzo aeroporto del Lazio. Il ringraziamento era rivolto al ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi ma soprattutto al suo collega dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, margheritino, viterbese ex sindaco di Viterbo, che si era battuto come un leone contro Latina e soprattutto contro Frosinone. In pieno dramma psicologico Francesco Scalia, presidente anch’egli margheritino della Provincia ciociara, arrivò a minacciare le dimissioni. Ma allora Fioroni era ministro e davvero c’era poco da fare. Tanto più considerando che l’aeroporto viterbese aveva anche il sostegno di un altro pezzo da novanta della maggioranza di governo: il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti. Lo schiacciasassi politico macinò chi contrastava il progetto, come il Comitato per il No guidato dall’ex sindaco di Soriano del Cimino, Alessandro Pizzi, che paventavano seri danni ambientali (l’aeroporto è a due passi dalle terme). Inutili si rivelarono gli appelli al leader della Margherita Francesco Rutelli e le proteste di Verdi e sinistra radicale.
C’è da dire che fra le tre soluzioni che erano state proposte l’Enav aveva chiaramente indicato Viterbo per motivi tecnici: Latina è congestionata e interferisce con Pratica di Mare e Napoli, Frosinone è in una conca fra le montagne, spesso nebbiosa. Ma c’è da dire che anche l’opposizione politica di allora non si oppose. Basti pensare che il comitato per l’aeroporto è capeggiato da un uomo di centrodestra. Per non parlare del nuovo sindaco Marini. Il quale, per inciso, è anche deputato del Popolo della libertà. E questo nonostante per legge l’incarico di parlamentare sia incompatibile con quello di sindaci di città con oltre 20 mila abitanti (Viterbo ne ha 59.308). Non che per l’aeroporto le cose sarebbero cambiate di molto se il centrodestra non avesse vinto le elezioni: candidato sindaco dello schieramento opposto era Sposetti. Senza contare che anche alla presidenza della Provincia, in mano al centrosinistra, c’è un altro sostenitore dello scalo, ovvero l’ex segretario provinciale diessino Alessandro Mazzoli. Nato, per ironia della sorte, a Frosinone. Sulla carta, dunque, l’aeroporto è blindato. «Su questo c’è forte sintonia fra il governo, la Regione, la Provincia e il Comune », ha detto ieri il governatore del Lazio Piero Marrazzo. Quanto al rischio di creare una Malpensa in sedicesimi, è un’altra faccenda. Innanzitutto i soldi.
Per l’adeguamento delle strutture aeroportuali servirebbero circa 260 milioni. Ma è il meno. Viterbo dista da Roma circa 90 chilometri: almeno un’ora e mezzo con l’automobile e un paio d’ore con il treno. Ci sono ben due ferrovie che collegano la Capitale con la città della Tuscia, ma servono fondamentalmente il traffico pendolare e andrebbero seriamente adeguate. Per la linea delle Ferrovie dello Stato (tempo di percorrenza da un’ora e tre quarti a due ore e dieci) è previsto un raddoppio fino a Bracciano, mentre non esiste un progetto, né un finanziamento, per il potenziamento del tratto fino a Viterbo. Per la linea ferroviaria regionale gestita dalla romana Metro (tempo di percorrenza due ore e mezzo) l’ipotesi del raddoppio invece esiste. Ma bisognerà trovare altri 600 milioni di euro, e comunque per la realizzazione si parla di svariati anni. Infine, va da sé che l’aeroporto low cost a Viterbo ha senso se si svuota Ciampino. Diversamente, non ce l’ha. Peccato che uno dei maggiori vettori, cioè Ryanair, non ne voglia sapere di rinunciare a un privilegio che in Europa non ha nessuna compagnia a basso costo: quello di un aeroporto praticamente in città. Il suo capo, Michael O’Leary, ha avvertito che se dovrà lasciare Ciampino la compagnia irlandese abbandonerà Roma: mettendo a rischio, argomento molto convincente, 3.500 posti di lavoro. E ha comunque avviato una dura resistenza legale. Nel frattempo, notizia della scorsa primavera, la Regione Lazio ha dato il via a un quarto aeroporto. Dove? Ma a Frosinone, che domande...
Fonte: corriere.it
11 giu 2009
La rivelazione del tesoriere Pd. Mauro Agostini svela i meccanismi dei «rimborsi» e la difficile convivenza con i colleghi di Ds e Margherita
«In 5 anni ai partiti 941 milioni»
ROMA - «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po’ sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica ». Tanto basterebbe a spiegare perché nessun tesoriere di partito abbia mai scritto un libro. Nessuno
prima di Mauro Agostini, l’uomo che un anno e mezzo fa ha avuto (e ha tuttora) in mano i cordoni della borsa del Partito democratico: non si sa se per coraggio o incoscienza. Il suo libro, da cui sono tratte queste frasi, esce oggi in libreria, l’ha pubblicato Aliberti in una collana diretta da Pier Luigi Celli e si chiama semplicemente Il tesoriere. Da un titolo così è lecito attendersi anche qualche considerazione numerica. Che infatti non manca. A cominciare dal calcolo minuzioso di quanti soldi pubblici, attraverso il meccanismo ipocrita dei cosiddetti rimborsi elettorali, sono entrati nelle tasche dei partiti italiani soltanto negli ultimi cinque anni, dal 2004 al 2008. Reggetevi forte: 941 milioni 446.091 euro e 14 centesimi. Cifre senza eguali in Europa, se si eccettua, sostiene Agostini, la Germania. La ciccia, tuttavia, non è nei numeri. Il tesoriere sostiene che è necessario un sistema di finanziamento dei partiti «prevalentemente pubblico » senza più ipocrisie, ma con «forme di controllo incisive e penetranti » di natura «squisitamente pubblica» e il «vincolo esplicito» di una gestione sobria ed economica prevedendo anche «sanzioni reputazionali ». Ma al tempo stesso non può non ripercorrere la storia dei ruvidi rapporti con i suoi colleghi dei Ds, Ugo Sposetti, e della Margherita, Luigi Lusi, i due partiti che hanno dato vita al Pd. «Il nuovo partito nasceva senza un euro. L’obiettivo, mai esplicitato, ma evidente in comportamenti (...) dei tesorieri Ds e Margherita era quello di dare vita a una sorta di triumvirato nella gestione delle risorse, di cui però i veri sovrani avrebbero dovuto essere Ugo Sposetti e Luigi Lusi, in quanto titolari dei rimborsi elettorali.
Con le conseguenze facilmente immaginabili: quando le cose sarebbero andate secondo i desiderata dei due vecchi azionisti, i soldi sarebbero affluiti regolarmente, in caso contrario no. È evidente che la questione rivestiva un valore (...) squisitamente politico e di autonomia del nuovo partito». Una ricostruzione che indica senza mezzi termini fra le cause delle difficoltà interne del Pd la sopravvivenza dei vecchi apparati di partito, con le rispettive munizioni finanziarie. Agostini ricorda che i Ds avevano provveduto a blindare in fondazioni «con un percorso opaco» migliaia di immobili. E che il tesoriere della Margherita, Lusi, aveva dato sì la disponibilità a contribuire al Pd con i rimborsi elettorali, «a condizione che anche i Ds avessero fatto la loro parte, in ragione di quaranta a sessanta per cento». Ma «l’impossibilità dei Ds» a mettere mano al portafoglio motivata da quel partito con il forte indebitamento «assolveva tutti dall’obbligo politico di sostenere il Pd». Questa vicenda è chiaro sintomo di quella che Agostini definisce «un’ambiguità di fondo mai esplicitata ma che percorrerà il progetto sotto pelle in tutto il suo primo anno di vita e che rischia di essere anche la causa profonda della crisi che sfocia nelle dimissioni di Walter Veltroni ». Ancora: «L’ispirazione sembra più quella di dare vita a una specie di consorzio o di holding i cui diritti principali restano in mano ai soci fondatori, piuttosto che fondare una nuova formazione politica». La notizia con la quale comincia Il tesoriere, e cioè che il Pd ha fatto certificare il bilancio 2008 dalla Price Waterhouse Coopers («la prima volta», rivendica con orgoglio Agostini, che un partito italiano sottopone i suoi conti a una verifica del genere), valga a questo punto come una consolazione. Perché se la diagnosi politica è giusta, la strada è ancora tutta in salita. Dettaglio non trascurabile: il libro viene presentato oggi dal segretario del Pd, Dario Franceschini.
Fonte: corriere.it
ROMA - «Il tesoriere ha in mano i cordoni della borsa di un partito. Figura tradizionalmente oscura, un po’ sinistra, al punto da passare per colui che manovra non solo i denari ma anche i segreti più turpi della politica ». Tanto basterebbe a spiegare perché nessun tesoriere di partito abbia mai scritto un libro. Nessuno

Con le conseguenze facilmente immaginabili: quando le cose sarebbero andate secondo i desiderata dei due vecchi azionisti, i soldi sarebbero affluiti regolarmente, in caso contrario no. È evidente che la questione rivestiva un valore (...) squisitamente politico e di autonomia del nuovo partito». Una ricostruzione che indica senza mezzi termini fra le cause delle difficoltà interne del Pd la sopravvivenza dei vecchi apparati di partito, con le rispettive munizioni finanziarie. Agostini ricorda che i Ds avevano provveduto a blindare in fondazioni «con un percorso opaco» migliaia di immobili. E che il tesoriere della Margherita, Lusi, aveva dato sì la disponibilità a contribuire al Pd con i rimborsi elettorali, «a condizione che anche i Ds avessero fatto la loro parte, in ragione di quaranta a sessanta per cento». Ma «l’impossibilità dei Ds» a mettere mano al portafoglio motivata da quel partito con il forte indebitamento «assolveva tutti dall’obbligo politico di sostenere il Pd». Questa vicenda è chiaro sintomo di quella che Agostini definisce «un’ambiguità di fondo mai esplicitata ma che percorrerà il progetto sotto pelle in tutto il suo primo anno di vita e che rischia di essere anche la causa profonda della crisi che sfocia nelle dimissioni di Walter Veltroni ». Ancora: «L’ispirazione sembra più quella di dare vita a una specie di consorzio o di holding i cui diritti principali restano in mano ai soci fondatori, piuttosto che fondare una nuova formazione politica». La notizia con la quale comincia Il tesoriere, e cioè che il Pd ha fatto certificare il bilancio 2008 dalla Price Waterhouse Coopers («la prima volta», rivendica con orgoglio Agostini, che un partito italiano sottopone i suoi conti a una verifica del genere), valga a questo punto come una consolazione. Perché se la diagnosi politica è giusta, la strada è ancora tutta in salita. Dettaglio non trascurabile: il libro viene presentato oggi dal segretario del Pd, Dario Franceschini.
Fonte: corriere.it
9 apr 2009
Coca nel bagaglio: arrestata segretaria Lega Nord
E`una dipendente del Parlamento italiano una delle due persone arrestate, lo scorso due aprile a Lugano, con otto chili di cocaina in valigia. Insolito sequestro, quello avvenuto il 2 Si tratta, infatti, della segretaria del gruppo parlamentare della Lega Nord a Roma. Insieme a lei, lo ricordiamo, è stato arrestato anche un uomo. Entrambi provenivano dal Brasile.
Le Guardie di confine hanno scovato lo stupefacente stipato in alcune vaschette di alimenti. Non è chiaro se la droga fosse destinata al mercato ticinese, oppure se dovesse rientrare in Italia passando per lo scalo luganese, dove forse la coppia – di 40 e 50anni – sperava in controlli meno severi. In ogni caso, i due non avrebbero mai avuto alcun legame col Ticino.
Fonte: rsi.ch
Le Guardie di confine hanno scovato lo stupefacente stipato in alcune vaschette di alimenti. Non è chiaro se la droga fosse destinata al mercato ticinese, oppure se dovesse rientrare in Italia passando per lo scalo luganese, dove forse la coppia – di 40 e 50anni – sperava in controlli meno severi. In ogni caso, i due non avrebbero mai avuto alcun legame col Ticino.
Fonte: rsi.ch
17 feb 2009
Renzi e il gelo con il Pd: gli voglio bene, loro non so
Il vincitore: i complimenti di Walter? Mi son morso la lingua
FIRENZE — Sì, si pole. Alle pareti del comitato di via de Martelli, in faccia al Duomo, c'è John (Kennedy), c'è Bob (Kennedy), c'è Martin Luther King e c'è Obama. «Si pole» in fiorentino sta per «si può», «we can» e Matteo Renzi vuol fare Obama risciacquato in Arno. Stesso uso sfrenato delle tecnologie, Facebook più e-mail, abbinato al ritorno per le strade, al cosiddetto contatto umano. «Davanti alla Coop di Gavinana, quartiere super popolare — ricorda Renzi — un anziano guardandomi ha detto: "Quel Bobby Solo col ciuffo, lo voto, mi sa!"». Solo che qui il partito di Renzi, il Partito democratico, non ci aveva creduto in questo mix: battute, capacità di ascoltare, di fare una carezza e stare in rete, parlare con tutti, rispondere a tutti, l'antico e il moderno, metafora di quel che dovrebbe essere Firenze. «Orgogliosi del domani e gelosi del passato», è la frase che Renzi ha pensato per tv, radio e giornali. Renzi è diventato candidato sindaco del centrosinistra credendoci quasi da solo, contro Lapo Pistelli, responsabile esteri a Roma e Ventura, ministro ombra, e la Lastri, assessore da dieci anni. Ora, sulla porta del comitato c'è un cartello con scritto: «Chiuso per netta superiorità».
Ci fu un momento, durante le polemiche sull'inchiesta giudiziaria che coinvolse l'assessore Cioni, che si parlò di annullare le primarie e Renzi disse al Corriere Fiorentino: «Il Pd nazionale dica pubblicamente che non bisogna fare le primarie e che deve candidarsi a sindaco Fracazzo da Velletri». Poi si decise il ballottaggio, mai introdotto nelle primarie: «Per impedire a me di arrivare primo. Ieri mattina mi ha chiamato Veltroni e mi ha detto: "Meno male che non siamo andati al ballottaggio". Mi sono morso la lingua, mi sono morso...». Ora chiamano tutti. «Stamattina ha chiamato D'Alema ma non ho risposto, non avevo il telefonino sotto mano». Solo nel tardo pomeriggio chiama il sindaco Domenici: «Nel luglio 2008 in un'assemblea del Pd disse: "Tutti possono candidarsi, meno Renzi, che deve restare a fare il presidente della Provincia". Come se la politica fosse una fila alle poste, col numerino...». Ma Renzi è come Guazzaloca a Bologna, l'uomo che strapperà Firenze al dominio comunista e post-comunista? «Macché, io voglio stare nel Pd, voglio dare una mano al Pd».
Solo che adesso sembra che abbia più vantaggi il partito a stare con lei che lei a stare con il partito. Hanno voluto fare la conferenza stampa tutti assieme, segretario regionale, provinciale, cittadino... «Diciamo che io voglio più bene al partito di quanto il partito ne voglia a me». Matteo Renzi, che a 34 anni ha già tre figli (otto, sei e tre anni), va avanti per la sua strada. Addirittura «Cento cose per i primi cento giorni». Cose come isole interrate al posto dei cassonetti, affitti più bassi per le botteghe del centro, luci per vie e monumenti. E poi, dieci assessori invece di sedici e, con il risparmio degli stipendi, mutui per giovani coppie. Piero Luigi Vigna, ex procuratore generale antimafia, consulente per la sicurezza. E tante grazie a Riccardo Nencini, segretario dei socialisti, che ha aiutato tantissimo e conferma per la maggioranza allargata alla Sinistra (area Mussi più area Vendola). E cene con gli industriali, perché con i poteri forti bisogna parlare: «Non sono per far piangere i ricchi, ma perché ridano i poveri». E adesso chi schiererà il centrodestra contro Renzi? «Non so. Giovanni Galli, l'ex portiere della Fiorentina, mi ha mandato un sms di auguri. E' stato il primo. Io un sogno ce l'avrei...». Quale? «Lambertow. Lamberto Dini candidato del centrodestra. Potrei riposarmi un po'!». Renzi è così. Se gli chiedete qual è la zona di Firenze che preferisce, risponderà piazza Vittoria: «Quando andavo al liceo Dante, lì giocavamo la "Cialtrons Cup" di calcio, la Coppa dei cialtroni». E la famosa tramvia che passa accanto al Duomo, punto d'onore della giunta Domenici e del Pd? «Vorrei rivedere certi passaggi dove il tram ci va stretto. Ma per il resto, mica sono per girare per Firenze in mongolfiera!». Renzi è così, per ora ha ragione lui.
Fonte: corriere.it
FIRENZE — Sì, si pole. Alle pareti del comitato di via de Martelli, in faccia al Duomo, c'è John (Kennedy), c'è Bob (Kennedy), c'è Martin Luther King e c'è Obama. «Si pole» in fiorentino sta per «si può», «we can» e Matteo Renzi vuol fare Obama risciacquato in Arno. Stesso uso sfrenato delle tecnologie, Facebook più e-mail, abbinato al ritorno per le strade, al cosiddetto contatto umano. «Davanti alla Coop di Gavinana, quartiere super popolare — ricorda Renzi — un anziano guardandomi ha detto: "Quel Bobby Solo col ciuffo, lo voto, mi sa!"». Solo che qui il partito di Renzi, il Partito democratico, non ci aveva creduto in questo mix: battute, capacità di ascoltare, di fare una carezza e stare in rete, parlare con tutti, rispondere a tutti, l'antico e il moderno, metafora di quel che dovrebbe essere Firenze. «Orgogliosi del domani e gelosi del passato», è la frase che Renzi ha pensato per tv, radio e giornali. Renzi è diventato candidato sindaco del centrosinistra credendoci quasi da solo, contro Lapo Pistelli, responsabile esteri a Roma e Ventura, ministro ombra, e la Lastri, assessore da dieci anni. Ora, sulla porta del comitato c'è un cartello con scritto: «Chiuso per netta superiorità».
Ci fu un momento, durante le polemiche sull'inchiesta giudiziaria che coinvolse l'assessore Cioni, che si parlò di annullare le primarie e Renzi disse al Corriere Fiorentino: «Il Pd nazionale dica pubblicamente che non bisogna fare le primarie e che deve candidarsi a sindaco Fracazzo da Velletri». Poi si decise il ballottaggio, mai introdotto nelle primarie: «Per impedire a me di arrivare primo. Ieri mattina mi ha chiamato Veltroni e mi ha detto: "Meno male che non siamo andati al ballottaggio". Mi sono morso la lingua, mi sono morso...». Ora chiamano tutti. «Stamattina ha chiamato D'Alema ma non ho risposto, non avevo il telefonino sotto mano». Solo nel tardo pomeriggio chiama il sindaco Domenici: «Nel luglio 2008 in un'assemblea del Pd disse: "Tutti possono candidarsi, meno Renzi, che deve restare a fare il presidente della Provincia". Come se la politica fosse una fila alle poste, col numerino...». Ma Renzi è come Guazzaloca a Bologna, l'uomo che strapperà Firenze al dominio comunista e post-comunista? «Macché, io voglio stare nel Pd, voglio dare una mano al Pd».
Solo che adesso sembra che abbia più vantaggi il partito a stare con lei che lei a stare con il partito. Hanno voluto fare la conferenza stampa tutti assieme, segretario regionale, provinciale, cittadino... «Diciamo che io voglio più bene al partito di quanto il partito ne voglia a me». Matteo Renzi, che a 34 anni ha già tre figli (otto, sei e tre anni), va avanti per la sua strada. Addirittura «Cento cose per i primi cento giorni». Cose come isole interrate al posto dei cassonetti, affitti più bassi per le botteghe del centro, luci per vie e monumenti. E poi, dieci assessori invece di sedici e, con il risparmio degli stipendi, mutui per giovani coppie. Piero Luigi Vigna, ex procuratore generale antimafia, consulente per la sicurezza. E tante grazie a Riccardo Nencini, segretario dei socialisti, che ha aiutato tantissimo e conferma per la maggioranza allargata alla Sinistra (area Mussi più area Vendola). E cene con gli industriali, perché con i poteri forti bisogna parlare: «Non sono per far piangere i ricchi, ma perché ridano i poveri». E adesso chi schiererà il centrodestra contro Renzi? «Non so. Giovanni Galli, l'ex portiere della Fiorentina, mi ha mandato un sms di auguri. E' stato il primo. Io un sogno ce l'avrei...». Quale? «Lambertow. Lamberto Dini candidato del centrodestra. Potrei riposarmi un po'!». Renzi è così. Se gli chiedete qual è la zona di Firenze che preferisce, risponderà piazza Vittoria: «Quando andavo al liceo Dante, lì giocavamo la "Cialtrons Cup" di calcio, la Coppa dei cialtroni». E la famosa tramvia che passa accanto al Duomo, punto d'onore della giunta Domenici e del Pd? «Vorrei rivedere certi passaggi dove il tram ci va stretto. Ma per il resto, mica sono per girare per Firenze in mongolfiera!». Renzi è così, per ora ha ragione lui.
Fonte: corriere.it
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