Alla lettera dell'ex ministro replicò il legale vicino al responsabile del Consiglio dei lavori pubblici
ROMA - All’allarme del ministro rispose l’uomo sbagliato. O quello giusto, dipende dai punti di vista. Il parere sui dubbi sollevati da Antonio Di Pietro sugli appalti per il 150esimo dell’Unità d’Italia venne commissionato all’avvocato Guido Cerruti, uomo di fiducia di Angelo Balducci, arrestato con lui lo scorso marzo nell’ambito dell’inchiesta fiorentina sulla Scuola Marescialli, che proprio ieri ha conosciuto una svolta importante. La Procura ha infatti indagato per corruzione i due tecnici che da consulenti decisero con il loro parere la vittoria dell’imprenditore Riccardo Fusi, titolare della Baldassini Tognozzi Pontello (Btp), nel lodo arbitrale contro lo Stato, avviato dopo che alla sua azienda era stato tolto l’appalto della West point toscana per inadempienza. Un affare da 34 milioni di euro.
Un passo indietro. Il 14 dicembre 2007 Di Pietro, allora titolare delle Infrastrutture, scrive ai suoi colleghi che fanno parte del Comitato per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia: esprime dubbi sul funzionamento della Struttura di missione, fa notare come il suo ruolo di «stazione appaltante» non sia quello che si intendeva affidare a un ente «nato con compiti di mera assistenza agli organi di indirizzo politico». Sostiene l’assenza di copertura finanziaria, parla di situazioni «che confliggono in modo evidente con elementari principi di contabilità pubblica». Conclude: «Vi prego, ci stiamo avviando verso una macroscopica violazione di legge». Gli investigatori hanno ricostruito il viaggio compiuto da quella nota. Il 18 dicembre l’ingegner Enrico Bentivoglio, dirigente delle Infrastrutture, attuale responsabile unico per il restauro degli Uffizi, «già emerso - così scrivono i carabinieri del Ros di Firenze - nell’indagine in quanto appartenente all’Ufficio del Commissario Delegato per il Mondiali di Nuoto Roma 2009 ed in stretti rapporti con Angelo Balducci», manda via fax il testo del ministro all’avvocato Guido Cerruti. «Egregio, occorrerebbe una nota di replica, purtroppo entro domani pomeriggio». Sul frontespizio del documento, accanto al numero di protocollo compare una nota a mano. «Copia a Figliolia e Balducci». Il primo è Ettore Figliolia, avvocato dello Stato. All’epoca, Balducci dirigeva la Struttura di missione per il 150esimo dell’Unità d’Italia.
Il parere di Cerruti viene recapitato il 19 dicembre. La posizione «fortemente critica» del ministro appare ingiustificata, a parere dell’avvocato. Lo svolgimento del ruolo di stazione appaltante, «ancorché non espressamente previsto nel provvedimento istitutivo, rientra ontologicamente nei compiti della Struttura di missione». La copertura economica degli appalti? «Ad avviso di chi scrive i progetti sono stati intrapresi senza alcuna violazione dei principi regolatori della contabilità pubblica». Certo, sono stati finanziati in più tranche successive, «ma la suddetta soluzione si è resa necessaria in ragione dell’urgenza delle opere da realizzare ». Infine, sulla legittimità delle gare d’appalto, non c’è problema perché il 150esimo dell’Unità d’Italia è stato dichiarato «grande evento» e finisce sotto la legislazione speciale. Guido Cerruti è stato arrestato lo scorso 6 marzo. È accusato di corruzione. Viene considerato parte integrante della presunta «cricca», molto vicino a Balducci, al punto che quest’ultimo lo impone a Fusi, voglioso di riprendersi l’appalto della Scuola Marescialli. La tangente per l’ex provveditore alle Opere Pubbliche e per il suo funzionario Fabio De Santis sarebbe dovuta transitare nel compenso stipulato dall’avvocato per la sua consulenza. Il parere che gli fu affidato in risposta a Di Pietro dimostrerebbe, se non altro, che la «rete» di Balducci era ben stretta.
I magistrati fiorentini sono da sempre convinti che l’affaire della Scuola Marescialli sia marcio in ogni suo passaggio, gonfiato ad arte per spremere denaro pubblico. E il lodo arbitrale vinto dalla Btp contro lo Stato farebbe parte di questa filiera. I nuovi indagati sono il consulente di parte Paolo Leggeri e quello d’ufficio, Sandro Chiostrini. Quest’ultimo, teoricamente arbitro imparziale, avrebbe aiutato la Btp guidandola nella controversia, concordando con l’azienda i quesiti che il collegio arbitrale avrebbe sottoposto ai consulenti d’ufficio, e questo ancora prima di essere nominato. La sintesi dei magistrati: «Chiostrini ha messo a disposizione della Btp la propria funzione di consulente tecnico fin dal momento della nomina (essendo stato individuato dalla Btp per questa sua disponibilità) compiendo successivamente una serie di attività in violazione del dovere di imparzialità cui era tenuto ». In cambio, i dirigenti dell’azienda si sarebbero adoperati per garantirgli una «utilità» di centomila euro, ovvero la retribuzione per l’incarico di consulente d’ufficio. In primo grado Fusi e la Btp hanno vinto il lodo contro lo Stato, guadagnando così 34 milioni.
Fonte: corriere.it
29 giu 2010
Mafia, sette anni a Dell'Utri. Il senatore: «Sentenza pilatesca»
In appello ridotta la pena per il parlamentare del Pdl, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa
PALERMO - Dopo sei giorni di camera di consiglio, i giudici della seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo hanno condannato Marcello Dell'Utri a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Ridotta, dunque, la condanna a nove anni decisa in primo grado, nel dicembre del 2004. Il pg Nino Gatto, a conclusione della sua requisitoria, aveva chiesto per Dell'Utri una condanna a undici anni di reclusione. «Sono profondamente deluso», ha ammesso dopo la lettura della sentenza. Una verdetto «pilatesco» secondo il senatore del Pdl imputato.
SPATUZZA - Riformando la sentenza di primo grado, la corte ha assolto Dell'Utri limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perché «il fatto non sussiste», riducendo così la pena da nove a sette anni di reclusione. Sembrano non aver influito, dunque, nel processo Dell'Utri le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, piombate in aula quando il dibattimento si stava avviando a conclusione. La Corte d'Appello di Palermo (che ha anche dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell'altro imputato, Gaetano Cinà, nel frattempo deceduto) ha infatti condannato il senatore del Pdl a anni per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi prima del 1992. I verbali di Spatuzza, depositati nell'ottobre del 2009, si riferiscono invece ad anni successivi. «Con questa sentenza si mette una pietra tombale sulla presunta trattativa tra Stato e mafia durante il periodo delle stragi. Quello che ha detto Spatuzza non è stato evidentemente preso in considerazione come voleva l'accusa» ha detto l'avvocato Nino Mormino, legale di Dell'Utri, sottolineando che la corte ha assolto il suo assistito per le condotte contestate in epoca successiva al 1992, escludendo cioè qualunque «patto» tra lo Stato e Cosa Nostra subito dopo le stragi.
«SENTENZA PILATESCA» - Il senatore del Pdl non era presente in aula a Palermo al momento della lettura della sentenza: Dell’Utri è infatti rimasto a Milano. «È una sentenza pilatesca», ha detto poi all'inizio della conferenza stampa che ha indetto nel capoluogo lombardo, dopo la lettura del dispositivo dei giudici d'appello siciliani, aggiungendo che i magistrati - che lo hanno assolto per i fatti contestati successivamente al 1992 - non avrebbero avuto il coraggio di chiudere completamente la questione. «Non farò il ministro» ha aggiunto il senatore rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla provocazione del leader Idv Antonio Di Pietro («Speriamo che Berlusconi non lo faccia ministro» ha detto l'ex pm dopo la sentenza ironizzando sul caso Brancher).
«DELUSO» - «Processualmente parlando, Dell’Utri non ha favorito la mafia» ha spiegato il procuratore generale Antonino Gatto, commentando la sentenza. «Ma questo - ha aggiunto il pg - non vuol dire affatto che ciò non possa essere accaduto in natura. Bisognerà piuttosto leggere le motivazioni della sentenza per capire i motivi che hanno spinto la corte a prendere questa decisione. Forse perché le affermazioni di Spatuzza non sono state ritenute attendibili, o perchè le prove portate dall’accusa sono state considerate infondate, o perchè sono mancati i riscontri». «Sono profondamente deluso» ha ammesso il procuratore Gatto «perché ritengo che l’aspetto politico era la parte della vicenda sulla quale l’accusa aveva quagliato meglio». Alla domanda se questa sentenza rappresenti la tomba degli aspetti oscuri legati alla strategia stragista, il procuratore generale ha risposto: «Non parlerei affatto di tomba, ma ripeto, occorrerà leggere attentamente le motivazioni per comprendere questa decisione».
NOVE ANNI IN PRIMO GRADO - In primo grado Dell'Utri era stato condannato a nove anni di reclusione. In quel caso primo grado i giudici del tribunale rimasero in camera di consiglio, per emettere la sentenza di condanna a nove anni di carcere, per 13 giorni: un record. Entrarono in consiglio dopo le ore 13 del 29 novembre 2004 ma avvertirono che l'uscita dalla camera di consiglio sarebbe stata annunciata 24 ore prima. Il presidente del tribunale, Leonardo Guarnotta, lesse la sentenza l'11 dicembre poco dopo le 10.
Fonte: corriere.it
PALERMO - Dopo sei giorni di camera di consiglio, i giudici della seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo hanno condannato Marcello Dell'Utri a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Ridotta, dunque, la condanna a nove anni decisa in primo grado, nel dicembre del 2004. Il pg Nino Gatto, a conclusione della sua requisitoria, aveva chiesto per Dell'Utri una condanna a undici anni di reclusione. «Sono profondamente deluso», ha ammesso dopo la lettura della sentenza. Una verdetto «pilatesco» secondo il senatore del Pdl imputato.
SPATUZZA - Riformando la sentenza di primo grado, la corte ha assolto Dell'Utri limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perché «il fatto non sussiste», riducendo così la pena da nove a sette anni di reclusione. Sembrano non aver influito, dunque, nel processo Dell'Utri le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, piombate in aula quando il dibattimento si stava avviando a conclusione. La Corte d'Appello di Palermo (che ha anche dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell'altro imputato, Gaetano Cinà, nel frattempo deceduto) ha infatti condannato il senatore del Pdl a anni per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi prima del 1992. I verbali di Spatuzza, depositati nell'ottobre del 2009, si riferiscono invece ad anni successivi. «Con questa sentenza si mette una pietra tombale sulla presunta trattativa tra Stato e mafia durante il periodo delle stragi. Quello che ha detto Spatuzza non è stato evidentemente preso in considerazione come voleva l'accusa» ha detto l'avvocato Nino Mormino, legale di Dell'Utri, sottolineando che la corte ha assolto il suo assistito per le condotte contestate in epoca successiva al 1992, escludendo cioè qualunque «patto» tra lo Stato e Cosa Nostra subito dopo le stragi.
«SENTENZA PILATESCA» - Il senatore del Pdl non era presente in aula a Palermo al momento della lettura della sentenza: Dell’Utri è infatti rimasto a Milano. «È una sentenza pilatesca», ha detto poi all'inizio della conferenza stampa che ha indetto nel capoluogo lombardo, dopo la lettura del dispositivo dei giudici d'appello siciliani, aggiungendo che i magistrati - che lo hanno assolto per i fatti contestati successivamente al 1992 - non avrebbero avuto il coraggio di chiudere completamente la questione. «Non farò il ministro» ha aggiunto il senatore rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla provocazione del leader Idv Antonio Di Pietro («Speriamo che Berlusconi non lo faccia ministro» ha detto l'ex pm dopo la sentenza ironizzando sul caso Brancher).
«DELUSO» - «Processualmente parlando, Dell’Utri non ha favorito la mafia» ha spiegato il procuratore generale Antonino Gatto, commentando la sentenza. «Ma questo - ha aggiunto il pg - non vuol dire affatto che ciò non possa essere accaduto in natura. Bisognerà piuttosto leggere le motivazioni della sentenza per capire i motivi che hanno spinto la corte a prendere questa decisione. Forse perché le affermazioni di Spatuzza non sono state ritenute attendibili, o perchè le prove portate dall’accusa sono state considerate infondate, o perchè sono mancati i riscontri». «Sono profondamente deluso» ha ammesso il procuratore Gatto «perché ritengo che l’aspetto politico era la parte della vicenda sulla quale l’accusa aveva quagliato meglio». Alla domanda se questa sentenza rappresenti la tomba degli aspetti oscuri legati alla strategia stragista, il procuratore generale ha risposto: «Non parlerei affatto di tomba, ma ripeto, occorrerà leggere attentamente le motivazioni per comprendere questa decisione».
NOVE ANNI IN PRIMO GRADO - In primo grado Dell'Utri era stato condannato a nove anni di reclusione. In quel caso primo grado i giudici del tribunale rimasero in camera di consiglio, per emettere la sentenza di condanna a nove anni di carcere, per 13 giorni: un record. Entrarono in consiglio dopo le ore 13 del 29 novembre 2004 ma avvertirono che l'uscita dalla camera di consiglio sarebbe stata annunciata 24 ore prima. Il presidente del tribunale, Leonardo Guarnotta, lesse la sentenza l'11 dicembre poco dopo le 10.
Fonte: corriere.it
28 giu 2010
Maxi blitz contro la mafia cinese. Le Fiamme gialle hanno scoperto un'associazione criminale che riciclava milioni di denaro sporco.
Arresti, perquisizioni e sequestri di beni immobili e mobili, auto di lusso, quote societarie e denaro contante. 24 arresti tra Firenze e Prato
PRATO - Maxi-blitz della Guardia di Finanza contro la criminalità organizzata cinese: le Fiamme gialle hanno scoperto operazioni di riciclaggio di denaro sporco per centinaia di milioni di euro. Oltre mille militari della guardia di Finanza del comando regionale della Toscana stanno eseguendo arresti, perquisizioni e sequestri di beni immobili e mobili, auto di lusso, quote societarie e denaro contante, in otto regioni: Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Sicilia.
Oltre 100 le aziende ritenute coinvolte in un presunto maxi-riciclaggio tra le Province di Firenze e Prato. Secondo le indagini, le aziende individuate trasferivano verso la madrepatria centinaia di milioni di euro provenienti da vari reati. Nel corso dell’operazionela Finanza ha arrestato 24 persone tra italiani e cinesi per associazione di stampo mafioso. Inoltre ha sequestrato 73 aziende, 181 immobili e 166 auto di lusso.
Il fiume cinese di denaro sporco passa da Prato, e da lì, si riversa in tutto il mondo. E' quanto emerge con chiarezza dall'operazione delle Fiamme Gialle, coordinate dalla Procura nazionale Antimafia. Impressionante è il volume degli affari in gioco, nonché il continuo parallelo tra mafia italiana e mafia cinese che il procuratore Pietro Grasso ha ribadito, illustrando gli esiti del maxi-blitz. Prato come una qualunque città del mezzogiorno che sia in mano ai casalesi, dunque, e questo spiega perché le organizzazioni criminali cinesi siano da tempo finite nel mirino anche dalla procura nazionale Antimfia. Le loro strutture e le loro modalità di «corrompere» anche l'economia legale ricordano da vicino le organizzazioni mafiose, tanto che, ha detto Grasso, «quello di stamani è un colpo forte alle comunità illegali cinesi, perché mettere le mani nelle loro tasche è come metterle nelle mani dei mafiosi».
Il blitz della Guardia di Finanza presenta numeri da record: ai 24 arresti, si aggiungono i 134 indagati a piede libero, nell'ambito di un'inchiesta di portata nazionale. Al centro di tutta la vicenda vi è una semplice agenzia di «money transfer» che, a Prato, era l'epicentro di un imponente sistema di riciclaggio di denaro sporco. Da questo sportello, affluiva denaro da tutta Italia, pari a tre quarti di quanto finora la Guardia di Finanza è riuscita a calcolare, per un giro da 2,7 miliardi di euro. In questo «Cian Liu» («fiume di denaro»), confluivano a Prato soldi da e per otto regioni. Dai «money transfer», poi, in 5 anni, sono stati esportati qualcosa come 5 miliardi di euro. Le nuove norme anti-riciclaggio impongono un limite ai singoli trasferimenti di 2 mila euro, e il fatto che, se a presentare il deposito è qualcuno privo di permesso di soggiorno, scattano gli accertamenti delle autorità. Ad attirare l'attenzione delle quali ci ha pensato una grande quantità di versamenti da 1990 euro circa, anche se, in realtà, come hanno dimostrato le riprese da camere nascoste, nelle agenzie era un flusso continuo di denaro in contanti.
Le autorità hanno configurato un reato di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al riciclaggio di proveniente derivanti da: contraffazione, frode in commercio e vendita di prodotti industriali falsificati ed evasione fiscale. Ma ci sono anche reati connessi allo sfruttamento di persone: favoreggiamento della immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione. Tra gli arrestati, ci sono 18 cittadini cinesi e 7 italiani, per due dei quali è scatta la custodia cautelare domiciliare. Al centro di tutto, l'agenzia Money2Money, con sede a Bologna e sportelli sparsi in tutto il territorio nazionale. In particolare lo sportello di Prato, ma non solo quello, è servito alla famiglia cinese Cai per manipolare il denaro sporco. I Cai si servivano di una prestanome, una donna delle pulizie che lavorava presso l'abitazione della famiglia cinese. La Money2Money era stata fondata dalla famiglia italiana dei Bolzonaro che hanno messo a disposizione dell'organizzazione criminale la propria conoscenze del settore, controllando l'operato di ogni subagenzia.
«La direzione intrapresa è quella giusta e l’auspicio è dunque che lo Stato continui a dare vigore al ripristino della legalità sul nostro territorio dove l’illegalità ha assunto sviluppi di carattere criminale». È il commento del sindaco di Prato, Roberto Cenni, all’operazione della Finanza contro l’organizzazione cinese dedita al riciclaggio di denaro. «Gli strumenti messi in atto - aggiunge Cenni - ci fanno capire la vicinanza dello Stato, perchè non siamo soli». «I passi fatti per il ripristino della legalità sul nostro territorio sono fondamentali e ci fanno ben sperare - continua il sindaco - È evidente che operazioni come queste necessitano di un lungo lavoro preparatorio ma i frutti dati hanno una grande importanza ed ogni volta che emergono dobbiamo riconoscere un grande plauso alle forze dell’ordine».
Fonte: corriere.it
PRATO - Maxi-blitz della Guardia di Finanza contro la criminalità organizzata cinese: le Fiamme gialle hanno scoperto operazioni di riciclaggio di denaro sporco per centinaia di milioni di euro. Oltre mille militari della guardia di Finanza del comando regionale della Toscana stanno eseguendo arresti, perquisizioni e sequestri di beni immobili e mobili, auto di lusso, quote societarie e denaro contante, in otto regioni: Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Sicilia.
Oltre 100 le aziende ritenute coinvolte in un presunto maxi-riciclaggio tra le Province di Firenze e Prato. Secondo le indagini, le aziende individuate trasferivano verso la madrepatria centinaia di milioni di euro provenienti da vari reati. Nel corso dell’operazionela Finanza ha arrestato 24 persone tra italiani e cinesi per associazione di stampo mafioso. Inoltre ha sequestrato 73 aziende, 181 immobili e 166 auto di lusso.
Il fiume cinese di denaro sporco passa da Prato, e da lì, si riversa in tutto il mondo. E' quanto emerge con chiarezza dall'operazione delle Fiamme Gialle, coordinate dalla Procura nazionale Antimafia. Impressionante è il volume degli affari in gioco, nonché il continuo parallelo tra mafia italiana e mafia cinese che il procuratore Pietro Grasso ha ribadito, illustrando gli esiti del maxi-blitz. Prato come una qualunque città del mezzogiorno che sia in mano ai casalesi, dunque, e questo spiega perché le organizzazioni criminali cinesi siano da tempo finite nel mirino anche dalla procura nazionale Antimfia. Le loro strutture e le loro modalità di «corrompere» anche l'economia legale ricordano da vicino le organizzazioni mafiose, tanto che, ha detto Grasso, «quello di stamani è un colpo forte alle comunità illegali cinesi, perché mettere le mani nelle loro tasche è come metterle nelle mani dei mafiosi».
Il blitz della Guardia di Finanza presenta numeri da record: ai 24 arresti, si aggiungono i 134 indagati a piede libero, nell'ambito di un'inchiesta di portata nazionale. Al centro di tutta la vicenda vi è una semplice agenzia di «money transfer» che, a Prato, era l'epicentro di un imponente sistema di riciclaggio di denaro sporco. Da questo sportello, affluiva denaro da tutta Italia, pari a tre quarti di quanto finora la Guardia di Finanza è riuscita a calcolare, per un giro da 2,7 miliardi di euro. In questo «Cian Liu» («fiume di denaro»), confluivano a Prato soldi da e per otto regioni. Dai «money transfer», poi, in 5 anni, sono stati esportati qualcosa come 5 miliardi di euro. Le nuove norme anti-riciclaggio impongono un limite ai singoli trasferimenti di 2 mila euro, e il fatto che, se a presentare il deposito è qualcuno privo di permesso di soggiorno, scattano gli accertamenti delle autorità. Ad attirare l'attenzione delle quali ci ha pensato una grande quantità di versamenti da 1990 euro circa, anche se, in realtà, come hanno dimostrato le riprese da camere nascoste, nelle agenzie era un flusso continuo di denaro in contanti.
Le autorità hanno configurato un reato di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al riciclaggio di proveniente derivanti da: contraffazione, frode in commercio e vendita di prodotti industriali falsificati ed evasione fiscale. Ma ci sono anche reati connessi allo sfruttamento di persone: favoreggiamento della immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione. Tra gli arrestati, ci sono 18 cittadini cinesi e 7 italiani, per due dei quali è scatta la custodia cautelare domiciliare. Al centro di tutto, l'agenzia Money2Money, con sede a Bologna e sportelli sparsi in tutto il territorio nazionale. In particolare lo sportello di Prato, ma non solo quello, è servito alla famiglia cinese Cai per manipolare il denaro sporco. I Cai si servivano di una prestanome, una donna delle pulizie che lavorava presso l'abitazione della famiglia cinese. La Money2Money era stata fondata dalla famiglia italiana dei Bolzonaro che hanno messo a disposizione dell'organizzazione criminale la propria conoscenze del settore, controllando l'operato di ogni subagenzia.
«La direzione intrapresa è quella giusta e l’auspicio è dunque che lo Stato continui a dare vigore al ripristino della legalità sul nostro territorio dove l’illegalità ha assunto sviluppi di carattere criminale». È il commento del sindaco di Prato, Roberto Cenni, all’operazione della Finanza contro l’organizzazione cinese dedita al riciclaggio di denaro. «Gli strumenti messi in atto - aggiunge Cenni - ci fanno capire la vicinanza dello Stato, perchè non siamo soli». «I passi fatti per il ripristino della legalità sul nostro territorio sono fondamentali e ci fanno ben sperare - continua il sindaco - È evidente che operazioni come queste necessitano di un lungo lavoro preparatorio ma i frutti dati hanno una grande importanza ed ogni volta che emergono dobbiamo riconoscere un grande plauso alle forze dell’ordine».
Fonte: corriere.it
Il ruolo del Quirinale e il giallo delle deleghe a Brancher
Il retroscena: le telefonate di Napolitano con Letta e Berlusconi prima della nomina di Brancher
La linea del Quirinale ieri mattina era chiara. E l’ultimatum netto. O Aldo Brancher si presenta, senza ulteriori indugi al giudice di Milano, oppure si dimette. E ieri sera il neoministro ha scelto di rinunciare ad avvalersi dello scudo ministeriale con una mossa goffa, ma obbligata dopo quella, impropria e avventata di giovedì, quando i suoi avvocati si erano affrettati ad avanzare la richiesta di legittimo impedimento al tribunale del capoluogo lombardo dove si celebra il processo che lo vede accusato di appropriazione indebita e ricettazione. La prossima udienza è fissata già per il 5 luglio. Per la presidenza della Repubblica, che venerdì sera aveva contrastato, con una nota, definita irrituale da Palazzo Chigi, il ricorso al legittimo impedimento (legge 51 del 7 aprile scorso), il ministro è senza portafoglio. Dunque, non vi è alcun dicastero da organizzare.
Brancher non poteva dire di essere pieno di cose da fare quando non si sa esattamente che cosa debba fare. Ed è questa la nuova fonte di irritazione di Napolitano che la ritirata di Brancher non placa. Ieri mattina, Napolitano non ha trovato traccia, sulla Gazzetta Ufficiale, del provvedimento della presidenza del Consiglio sull’attribuzione delle deleghe. Nonostante la rinuncia al legittimo impedimento, il mistero sul ministro «che non si sa che fa» continua. E la tensione fra Quirinale e palazzo Chigi rimane alta. Il presidente sta trascorrendo il primo fine settimana d’estate nella tenuta di Castelporziano. L’umore non è dei migliori. Nelle sue conversazioni private, oscilla nel definire la vicenda Brancher: una pagliacciata o un gioco delle tre carte. L’espressione partenopea è ancora più colorita. Napolitano ha particolarmente apprezzato il commento di Michele Ainis apparso sulla Stampa di ieri, specialmente là dove il costituzionalista spiega che il legittimo impedimento non è mai assoluto e l’attività ministeriale è disciplinata da una norma, non dai desideri dell’interessato. Per cui si può immaginare come sia stata accolta dal Capo dello Stato la reazione di Brancher alla nota del Quirinale di venerdì sera («Si basa su presupposti sbagliati»). Malissimo. Per non dire di più.
La storia della nomina repentina di Brancher vale la pena di essere raccontata così com’è stata vissuta nelle stanze della presidenza della Repubblica. Due settimane fa, Napolitano riceve una telefonata del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta che è ormai il suo interlocutore naturale, e molto apprezzato. Letta gli annuncia l’intenzione del governo di nominare un nuovo ministro. Allo Sviluppo economico, dicastero senza titolare (l’interim è del premier) ormai da tre mesi dopo le dimissioni di Scajola? No, al federalismo. Il presidente rimane sorpreso e chiama, nelle ore successive, Berlusconi. La telefonata non è cordiale, non è la prima volta. Il presidente del Consiglio spiega che la scelta è tutta di natura politica, la Lega preme per riavere il ministero dell’Agricoltura, lasciato libero da Zaia, e chiede lo spostamento di Galan allo Sviluppo economico. Il premier parla delle difficoltà nei rapporti con l’alleato padano e sostiene, indubbiamente con buone ragioni politiche, che il Pdl non può lasciare nel Nord le questioni agricole al monopolio leghista; gli uomini di Bossi poi controllano tutti gli assessorati regionali. Convincente, però... Scusi, presidente, ma Brancher non è del Pdl? Risposta di Berlusconi: sì, però è l’uomo di collegamento con la Lega, molto vicino a Tremonti e Calderoli. D’accordo, ma le deleghe quali sono? Non si preoccupi, gliele mando subito.
Al Quirinale arriva un testo che il presidente della Repubblica, nell’esaminarlo con i suoi collaboratori, definisce né più né meno un pastrocchio. Nonostante tutte le riserve, il nuovo ministro per l’Attuazione del federalismo fiscale giura l’indomani, siamo a venerdì 18 giugno, nelle mani del capo dello Stato che nota un’altra curiosa anomalia: la presenza alla cerimonia degli stessi Tremonti e Calderoli. Napolitano non esita a definirli, scherzando ma non troppo, «i padrini dello sposo». Chiede a entrambi del testo «pastrocchio» e ne ricava quasi l’impressione che nessuno dei due l’abbia letto. Si informa sui costi. Tremonti parla di ministro « low cost ». Battuta efficace. Tutto finito? Per nulla. I malumori, anche all’interno dello stesso governo e della maggioranza, dai finiani agli stessi esponenti della Lega, crescono con il passare delle ore finché, dal prato umido di Pontida, la domenica successiva, Bossi se ne esce con una dichiarazione ormai famosa. L’unico ministro del federalismo è lui. Macché Brancher!
E il Quirinale assiste, fra lo sconcerto e l’irritazione, al cambiamento in corsa delle attribuzioni del nuovo ministro senza portafoglio, ma più ricco di deleghe presunte che vi sia mai stato: dall’attuazione del federalismo fiscale e istituzionale al decentramento e la sussidiarietà. E non si sa ancora, perché il provvedimento del presidente del Consiglio dei ministri sulle deleghe ministeriali, che non richiede controfirma del Capo dello Stato, non è ancora apparso sulla Gazzetta Ufficiale. Giovedì mattina, Brancher annuncia che si avvarrà della legge sul legittimo impedimento, come ormai tutti avevano capito. Sentendosi un po’ preso in giro (come dirà anche il pm di Milano), Napolitano alza il telefono e chiama Letta. La telefonata, con quest’ultimo sulla difensiva, non è delle più piacevoli. Poi il presidente prende carta e penna e scrive la sua nota contraria all’uso da parte di Brancher della legge sul legittimo impedimento. Ieri la rinuncia, ma il caso del ministro low cost (come dice Tremonti o law, nel senso di legge, cost) è tutt’altro che chiuso. Che spettacolo amaro...
Fonte: corriere.it
La linea del Quirinale ieri mattina era chiara. E l’ultimatum netto. O Aldo Brancher si presenta, senza ulteriori indugi al giudice di Milano, oppure si dimette. E ieri sera il neoministro ha scelto di rinunciare ad avvalersi dello scudo ministeriale con una mossa goffa, ma obbligata dopo quella, impropria e avventata di giovedì, quando i suoi avvocati si erano affrettati ad avanzare la richiesta di legittimo impedimento al tribunale del capoluogo lombardo dove si celebra il processo che lo vede accusato di appropriazione indebita e ricettazione. La prossima udienza è fissata già per il 5 luglio. Per la presidenza della Repubblica, che venerdì sera aveva contrastato, con una nota, definita irrituale da Palazzo Chigi, il ricorso al legittimo impedimento (legge 51 del 7 aprile scorso), il ministro è senza portafoglio. Dunque, non vi è alcun dicastero da organizzare.
Brancher non poteva dire di essere pieno di cose da fare quando non si sa esattamente che cosa debba fare. Ed è questa la nuova fonte di irritazione di Napolitano che la ritirata di Brancher non placa. Ieri mattina, Napolitano non ha trovato traccia, sulla Gazzetta Ufficiale, del provvedimento della presidenza del Consiglio sull’attribuzione delle deleghe. Nonostante la rinuncia al legittimo impedimento, il mistero sul ministro «che non si sa che fa» continua. E la tensione fra Quirinale e palazzo Chigi rimane alta. Il presidente sta trascorrendo il primo fine settimana d’estate nella tenuta di Castelporziano. L’umore non è dei migliori. Nelle sue conversazioni private, oscilla nel definire la vicenda Brancher: una pagliacciata o un gioco delle tre carte. L’espressione partenopea è ancora più colorita. Napolitano ha particolarmente apprezzato il commento di Michele Ainis apparso sulla Stampa di ieri, specialmente là dove il costituzionalista spiega che il legittimo impedimento non è mai assoluto e l’attività ministeriale è disciplinata da una norma, non dai desideri dell’interessato. Per cui si può immaginare come sia stata accolta dal Capo dello Stato la reazione di Brancher alla nota del Quirinale di venerdì sera («Si basa su presupposti sbagliati»). Malissimo. Per non dire di più.
La storia della nomina repentina di Brancher vale la pena di essere raccontata così com’è stata vissuta nelle stanze della presidenza della Repubblica. Due settimane fa, Napolitano riceve una telefonata del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta che è ormai il suo interlocutore naturale, e molto apprezzato. Letta gli annuncia l’intenzione del governo di nominare un nuovo ministro. Allo Sviluppo economico, dicastero senza titolare (l’interim è del premier) ormai da tre mesi dopo le dimissioni di Scajola? No, al federalismo. Il presidente rimane sorpreso e chiama, nelle ore successive, Berlusconi. La telefonata non è cordiale, non è la prima volta. Il presidente del Consiglio spiega che la scelta è tutta di natura politica, la Lega preme per riavere il ministero dell’Agricoltura, lasciato libero da Zaia, e chiede lo spostamento di Galan allo Sviluppo economico. Il premier parla delle difficoltà nei rapporti con l’alleato padano e sostiene, indubbiamente con buone ragioni politiche, che il Pdl non può lasciare nel Nord le questioni agricole al monopolio leghista; gli uomini di Bossi poi controllano tutti gli assessorati regionali. Convincente, però... Scusi, presidente, ma Brancher non è del Pdl? Risposta di Berlusconi: sì, però è l’uomo di collegamento con la Lega, molto vicino a Tremonti e Calderoli. D’accordo, ma le deleghe quali sono? Non si preoccupi, gliele mando subito.
Al Quirinale arriva un testo che il presidente della Repubblica, nell’esaminarlo con i suoi collaboratori, definisce né più né meno un pastrocchio. Nonostante tutte le riserve, il nuovo ministro per l’Attuazione del federalismo fiscale giura l’indomani, siamo a venerdì 18 giugno, nelle mani del capo dello Stato che nota un’altra curiosa anomalia: la presenza alla cerimonia degli stessi Tremonti e Calderoli. Napolitano non esita a definirli, scherzando ma non troppo, «i padrini dello sposo». Chiede a entrambi del testo «pastrocchio» e ne ricava quasi l’impressione che nessuno dei due l’abbia letto. Si informa sui costi. Tremonti parla di ministro « low cost ». Battuta efficace. Tutto finito? Per nulla. I malumori, anche all’interno dello stesso governo e della maggioranza, dai finiani agli stessi esponenti della Lega, crescono con il passare delle ore finché, dal prato umido di Pontida, la domenica successiva, Bossi se ne esce con una dichiarazione ormai famosa. L’unico ministro del federalismo è lui. Macché Brancher!
E il Quirinale assiste, fra lo sconcerto e l’irritazione, al cambiamento in corsa delle attribuzioni del nuovo ministro senza portafoglio, ma più ricco di deleghe presunte che vi sia mai stato: dall’attuazione del federalismo fiscale e istituzionale al decentramento e la sussidiarietà. E non si sa ancora, perché il provvedimento del presidente del Consiglio dei ministri sulle deleghe ministeriali, che non richiede controfirma del Capo dello Stato, non è ancora apparso sulla Gazzetta Ufficiale. Giovedì mattina, Brancher annuncia che si avvarrà della legge sul legittimo impedimento, come ormai tutti avevano capito. Sentendosi un po’ preso in giro (come dirà anche il pm di Milano), Napolitano alza il telefono e chiama Letta. La telefonata, con quest’ultimo sulla difensiva, non è delle più piacevoli. Poi il presidente prende carta e penna e scrive la sua nota contraria all’uso da parte di Brancher della legge sul legittimo impedimento. Ieri la rinuncia, ma il caso del ministro low cost (come dice Tremonti o law, nel senso di legge, cost) è tutt’altro che chiuso. Che spettacolo amaro...
Fonte: corriere.it
Bpi, il ministro Brancher invoca il «legittimo impedimento». Il motivo? Deve organizzare il ministero.
Probabile che i giudici stralcino la sua posizione e proseguano il processo per la moglie accusata di ricettazione
MILANO - La necessità di organizzare il nuovo ministero. È questo il motivo del legittimo impedimento eccepito in base alla legge giovedì a Milano dai legali del ministro per l'Attuazione del federalismo Aldo Brancher, imputato con la moglie in uno stralcio del processo per il tentativo di scalata ad Antonveneta da parte di Bpi in calendario per sabato. I legali di Brancher fanno riferimento al Lodo Alfano che consente il rinvio dei processi per il presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Con il legittimo impedimento il ministro chiede la sospensione del processo fino al prossimo 7 ottobre e non per sei mesi. Per quella data, salvo altri impegni, Brancher potrà essere in aula.
SABATO - Sabato prossimo in aula, davanti al giudice Anna Maria Gatto, si discuterà della questione del legittimo impedimento e non è escluso che il pm Eugenio Fusco sollevi l'eccezione di legittimità costituzionale e possa chiedere anche lo stralcio della posizione di Brancher (per il quale sono sospesi i termini di prescrizione) da quella della moglie. Il problema della separazione delle due posizioni sarà comunque uno dei nodi da affrontare anche se non dovesse essere eccepita l'illegittimità della legge. Il giudice dovrebbe decidere per il 5 luglio, giorno in cui è già stata fissata da tempo un'altra udienza. Brancher è imputato di appropriazione indebita e la moglie, Luana Maniezzo, di ricettazione.
Fonte: corriere.it
MILANO - La necessità di organizzare il nuovo ministero. È questo il motivo del legittimo impedimento eccepito in base alla legge giovedì a Milano dai legali del ministro per l'Attuazione del federalismo Aldo Brancher, imputato con la moglie in uno stralcio del processo per il tentativo di scalata ad Antonveneta da parte di Bpi in calendario per sabato. I legali di Brancher fanno riferimento al Lodo Alfano che consente il rinvio dei processi per il presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Con il legittimo impedimento il ministro chiede la sospensione del processo fino al prossimo 7 ottobre e non per sei mesi. Per quella data, salvo altri impegni, Brancher potrà essere in aula.
SABATO - Sabato prossimo in aula, davanti al giudice Anna Maria Gatto, si discuterà della questione del legittimo impedimento e non è escluso che il pm Eugenio Fusco sollevi l'eccezione di legittimità costituzionale e possa chiedere anche lo stralcio della posizione di Brancher (per il quale sono sospesi i termini di prescrizione) da quella della moglie. Il problema della separazione delle due posizioni sarà comunque uno dei nodi da affrontare anche se non dovesse essere eccepita l'illegittimità della legge. Il giudice dovrebbe decidere per il 5 luglio, giorno in cui è già stata fissata da tempo un'altra udienza. Brancher è imputato di appropriazione indebita e la moglie, Luana Maniezzo, di ricettazione.
Fonte: corriere.it
Scalata Antonveneta chiuse le indagini. Le accuse a Brancher
Il sottosegretario: mai interrogato in quattro anni
VERONA — L’aveva ribadito a più riprese, l’ultima durante l’incidente probatorio. Parola di Gianpiero Fiorani, l’ex amministratore delegato della Banca popolare di Lodi a suo tempo travolto da un’autentica bufera sia per la scalata Antonveneta che per la bancarotta Hdc: «Sì, confermo tutto: pagai anche Aldo Brancher. Al sottosegretario veronese ho dato dei soldi». Nessun ripensamento, anzi: ulteriori particolari, quelli via via svelati da Fiorani, per ribadire che quella presunta «dazione di denaro» a favore del politico forzista ci sarebbe «effettivamente stata». Mesi e mesi di indagini culminate, adesso, nella chiusura dell’inchiesta da parte della procura di Milano, che ha inviato l’avviso di fine- indagini, il cosiddetto 415-bis, sia a Roberto Calderoli che allo stesso Brancher per i presunti versamenti in contanti ricevuti da Fiorani, ipotizzando a carico dell’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio l'accusa di appropriazione indebita e, per il ministro della Semplificazione, quella di ricettazione.
A rigor di codice, ora avranno a disposizione una ventina di giorni per presentare memoriali o chiedere di essere interrogati, dopodiché starà alla procura meneghina decidere se sollecitare al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione o, al contrario, il rinvio a giudizio. Secondo l’accusa, l’episodio più grave si collocherebbe tra febbraio e marzo del 2005 e a raccontarlo fu lo stesso Fiorani nel verbale reso ai pm di Lodi il 19 giugno del 2007: «Brancher nel corso di un incontro a Roma, mi aveva detto che lui e Calderoli avevano bisogno della somma di 200 mila euro per le spese della campagna elettorale. In seguito Brancher si legge nel verbale - mi comunicò la data in cui lui e Calderoli sarebbero stati a Lodi per un convegno. Nella tarda mattinata del giorno comunicatomi dal Brancher, lui e il Calderoli si sono presentati nel mio ufficio. Spinelli (funzionario di Bpl, ndr) che io avevo preavvertito era anche lui nei pressi del mio ufficio con una busta gialla contenente la somma di 200mila euro. Quindi vi è stato un dialogo tra me Spinelli e Brancher nel corso del quale Spinelli ha consegnato la busta a Brancher senza dire nulla al riguardo. Ricevuta la busta, Brancher ha raggiunto Calderoli che si trovava in un'altra sala. Non ho assistito alla divisione della somma tra di loro ma ho potuto notare che il Calderoli era visibilmente entusiasta, tenendo in seguito un accalorato discorso in favore di Bpl».
Pronta la replica di Brancher: «Da una parte sono allibito. Dall’altra, in un certo senso, sono quasi contento: almeno adesso spero si possa chiarire questa vicenda. Sono ormai quattro anni - sottolinea Brancher - che questa vicenda va avanti, senza che io sia mai stato sentito in qualsiasi modo dai magistrati». Si parla di affidamenti ingenti, concessi da Giampiero Fiorani… «Partiamo dal fatto che si tratta di vicende di quattro anni fa. Una vicenda di cui io non conosco nessun dettaglio, visto che nessuno, ufficialmente, mi ha mai interrogato». Ma quei finanziamenti ci sono stati? «Ecco, sento che si parla di ingenti finanziamenti. Allora chiariamo prima di tutto che stiamo parlando di un prestito da parte della banca di trecentomila euro. Un prestito, non altro! Un prestito fatto negli anni ancora precedenti, e legato alla mia attività di imprenditore, prima che io entrassi in politica. Un prestito che poi è stato regolarmente restituito. Cosa c’è di illecito? Tutto il resto sono pure e semplici illazioni che io sono in grado di smentire l’una dopo l’altra». Peoccupato? «No, guardi, io sono assolutamente tranquillo, non c'è nessun problema. Anzi. Rispetto a quattro anni fa, quando non riuscivo a rendermi conto di quel che stava succedendo, adesso per lo meno comincio a capire che si parla di cose tutte da dimostrare, sulle quali non ho nessun problema eventualmente a rispondere a qualsiasi contestazione».
Fonte: corriere.it
VERONA — L’aveva ribadito a più riprese, l’ultima durante l’incidente probatorio. Parola di Gianpiero Fiorani, l’ex amministratore delegato della Banca popolare di Lodi a suo tempo travolto da un’autentica bufera sia per la scalata Antonveneta che per la bancarotta Hdc: «Sì, confermo tutto: pagai anche Aldo Brancher. Al sottosegretario veronese ho dato dei soldi». Nessun ripensamento, anzi: ulteriori particolari, quelli via via svelati da Fiorani, per ribadire che quella presunta «dazione di denaro» a favore del politico forzista ci sarebbe «effettivamente stata». Mesi e mesi di indagini culminate, adesso, nella chiusura dell’inchiesta da parte della procura di Milano, che ha inviato l’avviso di fine- indagini, il cosiddetto 415-bis, sia a Roberto Calderoli che allo stesso Brancher per i presunti versamenti in contanti ricevuti da Fiorani, ipotizzando a carico dell’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio l'accusa di appropriazione indebita e, per il ministro della Semplificazione, quella di ricettazione.
A rigor di codice, ora avranno a disposizione una ventina di giorni per presentare memoriali o chiedere di essere interrogati, dopodiché starà alla procura meneghina decidere se sollecitare al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione o, al contrario, il rinvio a giudizio. Secondo l’accusa, l’episodio più grave si collocherebbe tra febbraio e marzo del 2005 e a raccontarlo fu lo stesso Fiorani nel verbale reso ai pm di Lodi il 19 giugno del 2007: «Brancher nel corso di un incontro a Roma, mi aveva detto che lui e Calderoli avevano bisogno della somma di 200 mila euro per le spese della campagna elettorale. In seguito Brancher si legge nel verbale - mi comunicò la data in cui lui e Calderoli sarebbero stati a Lodi per un convegno. Nella tarda mattinata del giorno comunicatomi dal Brancher, lui e il Calderoli si sono presentati nel mio ufficio. Spinelli (funzionario di Bpl, ndr) che io avevo preavvertito era anche lui nei pressi del mio ufficio con una busta gialla contenente la somma di 200mila euro. Quindi vi è stato un dialogo tra me Spinelli e Brancher nel corso del quale Spinelli ha consegnato la busta a Brancher senza dire nulla al riguardo. Ricevuta la busta, Brancher ha raggiunto Calderoli che si trovava in un'altra sala. Non ho assistito alla divisione della somma tra di loro ma ho potuto notare che il Calderoli era visibilmente entusiasta, tenendo in seguito un accalorato discorso in favore di Bpl».
Pronta la replica di Brancher: «Da una parte sono allibito. Dall’altra, in un certo senso, sono quasi contento: almeno adesso spero si possa chiarire questa vicenda. Sono ormai quattro anni - sottolinea Brancher - che questa vicenda va avanti, senza che io sia mai stato sentito in qualsiasi modo dai magistrati». Si parla di affidamenti ingenti, concessi da Giampiero Fiorani… «Partiamo dal fatto che si tratta di vicende di quattro anni fa. Una vicenda di cui io non conosco nessun dettaglio, visto che nessuno, ufficialmente, mi ha mai interrogato». Ma quei finanziamenti ci sono stati? «Ecco, sento che si parla di ingenti finanziamenti. Allora chiariamo prima di tutto che stiamo parlando di un prestito da parte della banca di trecentomila euro. Un prestito, non altro! Un prestito fatto negli anni ancora precedenti, e legato alla mia attività di imprenditore, prima che io entrassi in politica. Un prestito che poi è stato regolarmente restituito. Cosa c’è di illecito? Tutto il resto sono pure e semplici illazioni che io sono in grado di smentire l’una dopo l’altra». Peoccupato? «No, guardi, io sono assolutamente tranquillo, non c'è nessun problema. Anzi. Rispetto a quattro anni fa, quando non riuscivo a rendermi conto di quel che stava succedendo, adesso per lo meno comincio a capire che si parla di cose tutte da dimostrare, sulle quali non ho nessun problema eventualmente a rispondere a qualsiasi contestazione».
Fonte: corriere.it
Brancher: «L'Italia ha perso ai Mondiali e se la prende con me »
Intervista al Tg3 del neoministro. «Cattiveria a tutti i livelli. E' vergognoso. Continuo a lavorare»
MILANO - Aldo Brancher ha parlato anche di calcio, facendo riferimento all'eliminazione dell'Italia dai Mondiali: «È indecente, non si è mai visto che l'Italia dopo aver perso i Mondiali se la prende con me». Lo ha detto durante un'intervista al Tg3. «È vergognoso - ha aggiunto il ministro per il Decentramento - mi ritengo una persona equilibrata, onesta e di buon senso. Continuo a lavorare. L'opposizione vada a vedere le deleghe, ne ho un sacco che devo portare avanti. Sono quelle che sono scritte, sono in Gazzetta ufficiale, se le leggano tutti». Ora «aspetto di capire le cose», ha concluso Brancher, che, sull'appoggio della Lega, ha affermato: «non penso mi abbia abbandonato, non penso proprio».
SONO SERENO - «Sono tranquillo e sereno, vado avanti». Erano state queste le prime dichiarazioni alla stampa di Aldo Brancher, ministro al Decentramento, dopo la rinuncia al legittimo impedimento nel processo Antonveneta. «Non mi aspettavo tanta cattiveria a tutti i livelli - aggiunge Brancher - . Nella vita ne ho passate di tutti i colori, ma fino a questo punto...».
ORLANDO: DIMISSIONI - Nessun annuncio, da parte di Brancher, a eventuali dimissioni, come era stato chiesto per esempio da Andrea Orlando, responsabile giustizia del Partito democratico. «Al momento non sappiamo neppure di che cosa dovrebbe occuparsi Brancher, visto che nessuna delega gli è stata assegnata a dieci giorni dalla sua nomina - ha dichiarato Orlando-. È l'ulteriore prova che ci troviamo di fronte a una incredibile buffonata finalizzata a evitare i processi. Se nella maggioranza c'è ancora un po' di senso delle istituzioni si farebbe dimettere subito il ministro al legittimo impedimento e si cancellerebbe il suo inutile e inesistente ministero».
L'IDV - Sulla stessa linea l'Idv: «La vicenda di Brancher è grottesca e paradossale e tutt'altro che conclusa. Il vero scandalo, lo ribadiamo, è la sua nomina a ministro per sfuggire alle aule giudiziarie e la rinuncia di ieri al legittimo impedimento non cambia di una virgola la sostanza del problema. Qui c'è un intero Paese preso in giro», dichiarano i presidenti dei gruppi parlamentari di Idv di Camera e Senato, Massimo Donadi e Felice Belisario. «La sua nomina - rimarcano gli esponenti dipietristi - è un imbroglio dimostrato dal fatto che non ha uno straccio di delega o competenza. Il ministro Brancher deve andare a casa. Per questo, Italia dei Valori ribadisce l'invito a tutte le opposizioni e a tutti i parlamentari che hanno ancora a cuore le istituzioni e la dignità di questo Paese a sottoscrivere una mozione di sfiducia unitaria. Siamo disponibili ad incontrarli il più presto possibile».
BONDI - Prende invece le parti del ministro Sandro Bondi, coordinatore del Pdl. «Anche nel caso del ministro Brancher, che ha dimostrato senso di responsabilità e coscienza degli interessi nazionali, il Pd dimostra di non sapersi affrancare nei momenti decisivi da un furore propagandistico e accusatorio indistinguibile rispetto a quello di Di Pietro», ha detto Bondi. «In questo modo, però, il Pd non riuscirà mai a svincolarsi dall'abbraccio soffocante del partito di Di Pietro e delineare un'opposizione che sia politicamente e culturalmente diversa e probabilmente più incisiva», conclude.
GELMINI - «La rinuncia di Brancher ad avvalersi del legittimo impedimento e la decisione di presentarsi in udienza, dimostrano la correttezza di un ministro che, grazie al suo lavoro, darà forte impulso alle riforme, uno degli obiettivi primari di questo Governo. Lo dichiara il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini. «Le sue decisioni - aggiunge il ministro - mettono a tacere quel polverone, del tutto strumentale, sollevato dalla sinistra in questi giorni. Brancher è stato oggetto infatti di attacchi personali inaccettabili e per questo gli esprimo la mia profonda solidarietà».
Fonte: corriere.it
MILANO - Aldo Brancher ha parlato anche di calcio, facendo riferimento all'eliminazione dell'Italia dai Mondiali: «È indecente, non si è mai visto che l'Italia dopo aver perso i Mondiali se la prende con me». Lo ha detto durante un'intervista al Tg3. «È vergognoso - ha aggiunto il ministro per il Decentramento - mi ritengo una persona equilibrata, onesta e di buon senso. Continuo a lavorare. L'opposizione vada a vedere le deleghe, ne ho un sacco che devo portare avanti. Sono quelle che sono scritte, sono in Gazzetta ufficiale, se le leggano tutti». Ora «aspetto di capire le cose», ha concluso Brancher, che, sull'appoggio della Lega, ha affermato: «non penso mi abbia abbandonato, non penso proprio».
SONO SERENO - «Sono tranquillo e sereno, vado avanti». Erano state queste le prime dichiarazioni alla stampa di Aldo Brancher, ministro al Decentramento, dopo la rinuncia al legittimo impedimento nel processo Antonveneta. «Non mi aspettavo tanta cattiveria a tutti i livelli - aggiunge Brancher - . Nella vita ne ho passate di tutti i colori, ma fino a questo punto...».
ORLANDO: DIMISSIONI - Nessun annuncio, da parte di Brancher, a eventuali dimissioni, come era stato chiesto per esempio da Andrea Orlando, responsabile giustizia del Partito democratico. «Al momento non sappiamo neppure di che cosa dovrebbe occuparsi Brancher, visto che nessuna delega gli è stata assegnata a dieci giorni dalla sua nomina - ha dichiarato Orlando-. È l'ulteriore prova che ci troviamo di fronte a una incredibile buffonata finalizzata a evitare i processi. Se nella maggioranza c'è ancora un po' di senso delle istituzioni si farebbe dimettere subito il ministro al legittimo impedimento e si cancellerebbe il suo inutile e inesistente ministero».
L'IDV - Sulla stessa linea l'Idv: «La vicenda di Brancher è grottesca e paradossale e tutt'altro che conclusa. Il vero scandalo, lo ribadiamo, è la sua nomina a ministro per sfuggire alle aule giudiziarie e la rinuncia di ieri al legittimo impedimento non cambia di una virgola la sostanza del problema. Qui c'è un intero Paese preso in giro», dichiarano i presidenti dei gruppi parlamentari di Idv di Camera e Senato, Massimo Donadi e Felice Belisario. «La sua nomina - rimarcano gli esponenti dipietristi - è un imbroglio dimostrato dal fatto che non ha uno straccio di delega o competenza. Il ministro Brancher deve andare a casa. Per questo, Italia dei Valori ribadisce l'invito a tutte le opposizioni e a tutti i parlamentari che hanno ancora a cuore le istituzioni e la dignità di questo Paese a sottoscrivere una mozione di sfiducia unitaria. Siamo disponibili ad incontrarli il più presto possibile».
BONDI - Prende invece le parti del ministro Sandro Bondi, coordinatore del Pdl. «Anche nel caso del ministro Brancher, che ha dimostrato senso di responsabilità e coscienza degli interessi nazionali, il Pd dimostra di non sapersi affrancare nei momenti decisivi da un furore propagandistico e accusatorio indistinguibile rispetto a quello di Di Pietro», ha detto Bondi. «In questo modo, però, il Pd non riuscirà mai a svincolarsi dall'abbraccio soffocante del partito di Di Pietro e delineare un'opposizione che sia politicamente e culturalmente diversa e probabilmente più incisiva», conclude.
GELMINI - «La rinuncia di Brancher ad avvalersi del legittimo impedimento e la decisione di presentarsi in udienza, dimostrano la correttezza di un ministro che, grazie al suo lavoro, darà forte impulso alle riforme, uno degli obiettivi primari di questo Governo. Lo dichiara il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini. «Le sue decisioni - aggiunge il ministro - mettono a tacere quel polverone, del tutto strumentale, sollevato dalla sinistra in questi giorni. Brancher è stato oggetto infatti di attacchi personali inaccettabili e per questo gli esprimo la mia profonda solidarietà».
Fonte: corriere.it
25 giu 2010
La Procura di Roma: processare Vittorio Emanuele e altri cinque imputati
Arriva davanti a gup la vicenda legata a riciclaggio e gioco d'azzardo che portò in cella il principe nel 2006
ROMA - Vittorio Emanuele di Savoia e altre 5 persone avrebbero messo in piedi, a partire dal 2004, un’associazione per delinquere «impegnata nel settore del ’gioco d’azzardo fuori legge’, attiva nel ’mercato illegale dei nulla osta’ per videopoker procurati e rilasciati dai Monopoli di Stato attraverso il sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso». La Procura di Roma, con il pm Andrea De Gasperis, ha chiesto il rinvio a giudizio del principe, ritenendo che l’organizzazione da lui guidata era «dedita anche al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita tramite l’instaurazione di relazione con Casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia con cui Savoia e altri imputati avevano ’instaurato un rapporto stabile’ che prevedeva l’impegno (di uno degli altri imputati) di coinvolgere, «con l’evidente finalità di farli giocare, facoltosi personaggi siciliani», suoi amici.
DA POTENZA A ROMA - La vicenda è quella per la quale, nell’estate del 2006, Vittorio Emanuele fu arrestato e finì in carcere, a Potenza. Vi rimase una settimana. Poi gli furono concessi i domiciliari. Era il ’Savoiagate’, l’inchiesta nata a Potenza nel 2006 e condotta dal pm Henry John Woodcock, poi trasferita a Roma lo scorso febbraio quando lo stesso tribunale lucano dichiarò la propria incompetenza territoriale accogliendo un'istanza della difesa del principe. Il 14 luglio prossimo sarà il gup, Marina Finiti a pronunciarsi sui rinvii a giudizio sollecitati dalla procura. Vittorio Emanuele, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati, rimase in carcere per una settimana.
GLI ALTRI IMPUTATI - Insieme con Vittorio Emanuele di Savoia sono sotto accusa l’imprenditore messinese Rocco Migliardi detto ’Rocco delle macchinette’ («soggetto legato alla criminalita’ organizzata», stando al capo di imputazione), il suo braccio destro Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, ritenuti dall’ufficio dell’accusa, organizzatori della ’holding del malaffare’. Per la difesa semplici collaboratori del principe o persone che avevano cercato di accreditarsi nel suo entourage.
Fonte: corriere.it
ROMA - Vittorio Emanuele di Savoia e altre 5 persone avrebbero messo in piedi, a partire dal 2004, un’associazione per delinquere «impegnata nel settore del ’gioco d’azzardo fuori legge’, attiva nel ’mercato illegale dei nulla osta’ per videopoker procurati e rilasciati dai Monopoli di Stato attraverso il sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso». La Procura di Roma, con il pm Andrea De Gasperis, ha chiesto il rinvio a giudizio del principe, ritenendo che l’organizzazione da lui guidata era «dedita anche al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita tramite l’instaurazione di relazione con Casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia con cui Savoia e altri imputati avevano ’instaurato un rapporto stabile’ che prevedeva l’impegno (di uno degli altri imputati) di coinvolgere, «con l’evidente finalità di farli giocare, facoltosi personaggi siciliani», suoi amici.
DA POTENZA A ROMA - La vicenda è quella per la quale, nell’estate del 2006, Vittorio Emanuele fu arrestato e finì in carcere, a Potenza. Vi rimase una settimana. Poi gli furono concessi i domiciliari. Era il ’Savoiagate’, l’inchiesta nata a Potenza nel 2006 e condotta dal pm Henry John Woodcock, poi trasferita a Roma lo scorso febbraio quando lo stesso tribunale lucano dichiarò la propria incompetenza territoriale accogliendo un'istanza della difesa del principe. Il 14 luglio prossimo sarà il gup, Marina Finiti a pronunciarsi sui rinvii a giudizio sollecitati dalla procura. Vittorio Emanuele, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati, rimase in carcere per una settimana.
GLI ALTRI IMPUTATI - Insieme con Vittorio Emanuele di Savoia sono sotto accusa l’imprenditore messinese Rocco Migliardi detto ’Rocco delle macchinette’ («soggetto legato alla criminalita’ organizzata», stando al capo di imputazione), il suo braccio destro Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, ritenuti dall’ufficio dell’accusa, organizzatori della ’holding del malaffare’. Per la difesa semplici collaboratori del principe o persone che avevano cercato di accreditarsi nel suo entourage.
Fonte: corriere.it
La fabbrica dei diplomi. Privatisti a caccia dell'esame facile
Maturità tra frodi e prof compiacenti. Ma c'è chi si ribella Ma gli istituti privati sono tutti uguali? Come distinguere quelli che premiano i fannulloni da quelli che si comportano come scuola pubblica?
26.000 ragazzi che non hanno frequentato neppure un giorno di scuola e che in queste ore si presentano alla maturità: sono i "fantasmi del diploma", l'esercito dei privatisti, quelli che avendo perso uno, due o tre anni di scuola (o non essendoci andati del tutto) vengono comunque sospinti da mamme e papà ad afferrare quel "pezzo di carta" che consentirà loro di entrare all'università, partecipare ai concorsi pubblici, candidarsi a qualunque ricerca di personale. E se per ottenere il diploma studiando regolarmente in un liceo paritario (che per legge adotta gli stessi programmi e gli stessi orari di uno statale) si spendono mediamente 22.000 euro per cinque anni di retta, per candidarsi come privatisti le tariffe possono partire dai 4.000 euro che la Guardia di Finanza di Gela ha appena scoperto essere il prezzo fissato da dieci "diplomifici" chiusi in Sicilia e in Calabria, per arrivare ai 10.000 di un anno di preparazione "personalizzata" concluso con l'esame facile. Studiare in una scuola privata "seria", come ne esistono centinaia in Italia, o presentarsi solo al momento dell'esame contribuendo così al business dei diplomifici sono due cose ben diverse. Non è un caso, del resto, se i privatisti cercano di scegliersi la scuola (e ci riescono in oltre il 90 per cento dei casi) dove affronteranno la maturità. Solo quattro studenti su 100 negli istituti statali si presenta da esterno, mentre nei privati la percentuale sale all'11 per cento sul totale dei candidati, con un
aumento del 15 per cento rispetto al 2009.
Ma gli istituti privati sono tutti uguali? Come distinguere quelli che facilitano chi non ha voluto o potuto frequentare la scuola da quelli che si comportano in tutto e per tutto come una scuola pubblica? E com'è fatta la mappa dei diplomifici italiani?
Una mini-classifica si può tentare, partendo da quelli che, per presenza di studenti "esterni", superano di oltre dieci punti la media nazionale. Quelli che accettano i privatisti, anzi li incoraggiano, e magari li preparano anche attraverso i propri canali paralleli, con tanto di tutor che durante l'anno aiutano gli sventurati giovani a fare la minor fatica possibile. Oltre al "Rousseau" di Viterbo, che vanta addirittura il 44 per cento di privatisti (89 esterni contro 112 interni), c'è "Il Nazareno" di Pescara (47 candidati esterni, pari al 24 per cento), l'Icos di Lecce (32 per cento di privatisti), il "Pascoli" di Palmi (in provincia di Reggio Calabria, col 31 per cento) il "Quasimodo" di Siracusa (27 per cento di esterni). Poi c'è chi non vuole sentirne parlare: "Privatisti non ne vogliamo, e del resto loro non vogliono noi", spiega senza giri di parole Antonello Famà, direttore del "Sociale", il liceo dei Gesuiti torinesi. "Ci vuole più rigore contro intrallazzi e imbrogli negli esami dei candidati esterni, i diplomifici vanno contrastati e noi lo abbiamo sempre chiesto", aggiunge Francesco Macrì, presidente della Fidae, l'associazione che riunisce 3.000 scuole paritarie cattoliche.
FALSI DIPLOMI E TRUCCHI PER GLI ESAMI
Inchieste e processi per ora si concentrano soprattutto al Sud. A Palermo, nel 2006, un'indagine della Procura ha portato alla chiusura di 7 istituti e all'arresto di 11 persone. La Guardia di Finanza ha scoperto irregolarità di ogni genere: diplomi autentici consegnati in bianco dal Ministero e assegnati a studenti bocciati, altri del tutto "taroccati", destinati a chi non poteva pagare troppo. Quattrocento i titoli sicuramente falsi venduti agli studenti impreparati e alle loro famiglie. E in molti casi, all'arrivo della Guardia di Finanza, gli ex bocciati avevano già trovato lavoro proprio grazie al diploma fasullo. Introvabili anche i registri di "carico e scarico" sui quali gli istituti parificati coinvolti nell'inchiesta avrebbero dovuto annotare i diplomi bianchi giunti da Roma e quelli consegnati ai promossi. Per evitare questo genere di frode, da quest'anno, il Miur ha avviato la produzione di nuove pergamene in carta filigranata, più difficili da falsificare. Più difficili se non impossibili da prevenire i trucchi a esame in corso, come racconta A. R., ispettore di un Ufficio scolastico regionale: "Nel corso dell'anno, si inizia a far comparire come presenti alunni che sono assenti. La valutazione dipende anche dalla frequenza scolastica e un ragazzo con troppe assenze, perché magari lavora, non potrebbe avere i voti che si ritrova a fine anno. Poi, ci sono i compiti in classe fatti da qualche insegnante compiacente (fino a 25 crediti scolastici su 100). E i panini con le soluzioni dentro: la mattina degli scritti alcuni gruppi si organizzano a casa di qualcuno e aspettano le tracce. Ormai si sa che le tracce dopo qualche ora sono disponibili, il compito risolto altrove entra col panino di metà mattinata, specialmente negli istituti dove la prova dura 8 ore".
UNA MATURITÀ FATTA SU MISURA
Il "diploma facile", però, parte da lontano. All'inizio dell'anno scolastico, e comunque entro novembre, gli aspiranti privatisti devono presentare domanda all'Ufficio scolastico provinciale esprimendo fino a tre opzioni sugli istituti dove vorrebbe sostenere l'esame. In pratica, il candidato cerca di scegliersi se non una commissione "amica" quanto meno una non troppo severa. Prendiamo il caso di Torino, una città dove - fino ad ora - non sono stati scoperti illeciti in questo campo ma dove cresce di anno in anno la quota di famiglie che preferisce proteggere i figli nella costosa cornice di un liceo privato. "Da noi - spiegano gli uffici - si cerca nei limiti del possibile di accogliere la prima scelta del candidato. Se poi ci sono troppi studenti che chiedono la stessa scuola, li si chiama e li si informa che i posti disponibili verranno sorteggiati". Nel caso del liceo classico (un tipo di diploma poco richiesto dai privatisti) tutti i candidati finiscono nella stessa scuola, il paritario "Giusti". Nessuno si sogna di chiedere altri istituti, anche privati, con fama di severità: "Da noi non capita da almeno dieci anni - dice ancora Antonello Famà, direttore del "Sociale" - Non giudico chi non conosco, ma certo qui non regaliamo nulla e i nostri piani didattici non sono dettati da criteri economici". Insomma, il vecchio slogan "esami in sede" - per anni al centro della pubblicità dei privati - funziona ancora. È possibile cambiare città pur di ottenere il diploma? E alla fine la promozione arriva davvero? Che differenza c'è tra pubblico, privato e diplomifici?
L'ITALIA DELL'ESAME FACILE
Viterbo quest'anno vanta il primato assoluto, col 27,8 per cento di candidati esterni che si presentano alla maturità, seguita da Livorno e Pescara, che superano il 24, Chieti e Lecce, oltre il 22, Reggio Calabria e Siracusa (prima delle indagini che hanno portato alla chiusura di parecchie scuola) viaggiavano sul 22 per cento, mentre Latina, Firenze, Teramo, Agrigento e Vibo Valentia si collocano intorno al 20. Dopo essersi visto assegnare la scuola desiderata, il candidato sostiene in maggio un "pre-esame" con i soli docenti dell'istituto privato dove poi darà la maturità: naturalmente il servizio ha un costo (le famose "tasse") e del resto non è particolarmente selettivo. Lo scopo - oltre a rispettare formalmente la legge - è quello di riferire alla commissione di maturità "vera", e in parte composta dagli stessi docenti, se il candidato conosce i programmi dei cinque anni precedenti. Poi arriva l'esame, come per tutti gli altri. Che fine fanno i privatisti? Quelli delle statali vengono decimati (27 bocciati su 100 nel 2008), nelle paritarie se ne salvano parecchi di più: solo 14 bocciati su cento. E, quando nel 2004 il ministro Letizia Moratti cambiò la commissione della maturità (con tutti commissari interni e il solo presidente esterno) le cose andarono a gonfie vele per le paritarie: i 1.242 esterni del 2002 diventarono 12 mila nel 2005, quasi tutti promossi (appena 5 bocciati su 100), nelle statali ne vennero fermati addirittura 22 su 100.
DA DOVE ARRIVA L'AIUTINO?
Il modo nel quale si può influire sui commissari nominati dal ministero, lo si comincia a scoprire parlando con i giovani insegnanti precari che lavorano negli istituti privati. Molti si sfogano su appositi blog, gli stessi sui quali si lamentano gli studenti "truffati" (c'è anche chi "compra" l'esame ma poi non ottiene il diploma...). "L'ultima volta che ho fatto questo lavoro - racconta Andrea Pappalettera, segretario della Cisl scuola di Torino - sono stato l'unico della mia commissione a non subire pressioni. C'era chi veniva chiamato a casa, chi raggiunto direttamente sul portone da un collega o da un papà facoltoso... A me non capitò perché ero noto come sindacalista". Daniela N., 38 anni, da dieci insegnante di inglese in un linguistico privato, è più esplicita: "Appena arrivata qui mi hanno fatto passare la fantasia dicendomi che non dovevo "disturbare" i ragazzi. I compiti in classe si fanno col libro aperto davanti, le interrogazioni su un tema a piacere. Spesso i privatisti sono studenti che già conosciamo e che non hanno frequentato regolarmente. Il pre-esame è una burla. Quanto ai commissari esterni, non so e non voglio sapere come vengono incoraggiati a promuovere chi non se lo merita, certo la scuola non fa mancare loro nulla...". Perché non si denuncia? "Perché ho bisogno dei 1.000 euro che mi danno ogni mese, anche se ci trattano come schiavi e, di fatto, ci ricattano per non farci fare il nostro lavoro". È questo il business delle scuole private? Può sopravvivere chi esercita la stessa severità? Che diploma cerca chi non ha studiato?
PRIVATISTI NO GRAZIE
"Le nostre scuole non hanno fini di lucro, altre evidentemente sì", chiarisce ancora Macrì a nome della Fidae. "Per questo, se si guarda ai numeri dal 2002 ad oggi, si registra una lieve ma costante flessione degli istituti cattolici: in quell'anno, i finanziamenti pubblici che il nostro settore riceveva oscillavano intorno ai 565 milioni di euro, da allora sono costantemente calati". Le sole rette non sono sufficienti a restare sul mercato, chi non è sostenuto da robuste convinzioni etiche non può che orientarsi a sfornare diplomi. E da Macrì arriva anche un'altra ammissione: "Solo il ministro Berlinguer fece qualcosa per arginare il numero dei privatisti fissando dei tetti. Ovunque si verificano scorrettezze e anomalie lo Stato dovrebbe intervenire con estremo rigore, lo abbiamo detto a tutti i ministri ma non siamo stati ascoltati. A noi i privatisti creano problemi, li accettiamo solo se ce lo impongono".
LA VIA PIÙ BREVE
"I privatisti ritengono che il diploma da dirigente di comunità sia il più facile da ottenere. Inutile spiegare loro che non dovrebbe essere così". Wilma Marchino, a lungo dirigente in un istituto scolastico torinese, oggi sindacalista Cisl, spiega così il numero record di esterni che affollano l'esame per questa maturità "amichevole". "Arrivano da scuole non parificate, e intasano i pochi istituti statali - spiega Marchino - Negli anni scorsi si sono verificate situazioni esplosive, da Mantova a Forlì a Roma, puntualmente denunciate al Ministero, che ha introdotto la clausola dell'obbligo di residenza. Il risultato? I candidati si sono suddivisi un po' in tutta Italia, ma hanno continuato a aumentare, quest'anno solo a Torino ne avremo oltre 300. Oltre il 40 per cento ha una preparazione insufficiente, si tratta perlopiù di dipendenti di amministrazioni locali, di ospedali e della Polizia, che hanno bisogno del titolo per poter accedere ai concorsi. Alcune materie, in particolare quelle scientifiche vengono saltate a piedi pari nella preparazione fornita da molte scuole private, altrettanto spesso i candidati si presentano senza aver fatto neppure un giorno di tirocinio, che invece sarebbe obbligatorio". Nessuna vocazione a lavorare nel welfare, dunque, ma la convinzione che tra le molte scorciatoie sia questa la più facile di tutte.
Fonte: repubblica.it
26.000 ragazzi che non hanno frequentato neppure un giorno di scuola e che in queste ore si presentano alla maturità: sono i "fantasmi del diploma", l'esercito dei privatisti, quelli che avendo perso uno, due o tre anni di scuola (o non essendoci andati del tutto) vengono comunque sospinti da mamme e papà ad afferrare quel "pezzo di carta" che consentirà loro di entrare all'università, partecipare ai concorsi pubblici, candidarsi a qualunque ricerca di personale. E se per ottenere il diploma studiando regolarmente in un liceo paritario (che per legge adotta gli stessi programmi e gli stessi orari di uno statale) si spendono mediamente 22.000 euro per cinque anni di retta, per candidarsi come privatisti le tariffe possono partire dai 4.000 euro che la Guardia di Finanza di Gela ha appena scoperto essere il prezzo fissato da dieci "diplomifici" chiusi in Sicilia e in Calabria, per arrivare ai 10.000 di un anno di preparazione "personalizzata" concluso con l'esame facile. Studiare in una scuola privata "seria", come ne esistono centinaia in Italia, o presentarsi solo al momento dell'esame contribuendo così al business dei diplomifici sono due cose ben diverse. Non è un caso, del resto, se i privatisti cercano di scegliersi la scuola (e ci riescono in oltre il 90 per cento dei casi) dove affronteranno la maturità. Solo quattro studenti su 100 negli istituti statali si presenta da esterno, mentre nei privati la percentuale sale all'11 per cento sul totale dei candidati, con un
aumento del 15 per cento rispetto al 2009.
Ma gli istituti privati sono tutti uguali? Come distinguere quelli che facilitano chi non ha voluto o potuto frequentare la scuola da quelli che si comportano in tutto e per tutto come una scuola pubblica? E com'è fatta la mappa dei diplomifici italiani?
Una mini-classifica si può tentare, partendo da quelli che, per presenza di studenti "esterni", superano di oltre dieci punti la media nazionale. Quelli che accettano i privatisti, anzi li incoraggiano, e magari li preparano anche attraverso i propri canali paralleli, con tanto di tutor che durante l'anno aiutano gli sventurati giovani a fare la minor fatica possibile. Oltre al "Rousseau" di Viterbo, che vanta addirittura il 44 per cento di privatisti (89 esterni contro 112 interni), c'è "Il Nazareno" di Pescara (47 candidati esterni, pari al 24 per cento), l'Icos di Lecce (32 per cento di privatisti), il "Pascoli" di Palmi (in provincia di Reggio Calabria, col 31 per cento) il "Quasimodo" di Siracusa (27 per cento di esterni). Poi c'è chi non vuole sentirne parlare: "Privatisti non ne vogliamo, e del resto loro non vogliono noi", spiega senza giri di parole Antonello Famà, direttore del "Sociale", il liceo dei Gesuiti torinesi. "Ci vuole più rigore contro intrallazzi e imbrogli negli esami dei candidati esterni, i diplomifici vanno contrastati e noi lo abbiamo sempre chiesto", aggiunge Francesco Macrì, presidente della Fidae, l'associazione che riunisce 3.000 scuole paritarie cattoliche.
FALSI DIPLOMI E TRUCCHI PER GLI ESAMI
Inchieste e processi per ora si concentrano soprattutto al Sud. A Palermo, nel 2006, un'indagine della Procura ha portato alla chiusura di 7 istituti e all'arresto di 11 persone. La Guardia di Finanza ha scoperto irregolarità di ogni genere: diplomi autentici consegnati in bianco dal Ministero e assegnati a studenti bocciati, altri del tutto "taroccati", destinati a chi non poteva pagare troppo. Quattrocento i titoli sicuramente falsi venduti agli studenti impreparati e alle loro famiglie. E in molti casi, all'arrivo della Guardia di Finanza, gli ex bocciati avevano già trovato lavoro proprio grazie al diploma fasullo. Introvabili anche i registri di "carico e scarico" sui quali gli istituti parificati coinvolti nell'inchiesta avrebbero dovuto annotare i diplomi bianchi giunti da Roma e quelli consegnati ai promossi. Per evitare questo genere di frode, da quest'anno, il Miur ha avviato la produzione di nuove pergamene in carta filigranata, più difficili da falsificare. Più difficili se non impossibili da prevenire i trucchi a esame in corso, come racconta A. R., ispettore di un Ufficio scolastico regionale: "Nel corso dell'anno, si inizia a far comparire come presenti alunni che sono assenti. La valutazione dipende anche dalla frequenza scolastica e un ragazzo con troppe assenze, perché magari lavora, non potrebbe avere i voti che si ritrova a fine anno. Poi, ci sono i compiti in classe fatti da qualche insegnante compiacente (fino a 25 crediti scolastici su 100). E i panini con le soluzioni dentro: la mattina degli scritti alcuni gruppi si organizzano a casa di qualcuno e aspettano le tracce. Ormai si sa che le tracce dopo qualche ora sono disponibili, il compito risolto altrove entra col panino di metà mattinata, specialmente negli istituti dove la prova dura 8 ore".
UNA MATURITÀ FATTA SU MISURA
Il "diploma facile", però, parte da lontano. All'inizio dell'anno scolastico, e comunque entro novembre, gli aspiranti privatisti devono presentare domanda all'Ufficio scolastico provinciale esprimendo fino a tre opzioni sugli istituti dove vorrebbe sostenere l'esame. In pratica, il candidato cerca di scegliersi se non una commissione "amica" quanto meno una non troppo severa. Prendiamo il caso di Torino, una città dove - fino ad ora - non sono stati scoperti illeciti in questo campo ma dove cresce di anno in anno la quota di famiglie che preferisce proteggere i figli nella costosa cornice di un liceo privato. "Da noi - spiegano gli uffici - si cerca nei limiti del possibile di accogliere la prima scelta del candidato. Se poi ci sono troppi studenti che chiedono la stessa scuola, li si chiama e li si informa che i posti disponibili verranno sorteggiati". Nel caso del liceo classico (un tipo di diploma poco richiesto dai privatisti) tutti i candidati finiscono nella stessa scuola, il paritario "Giusti". Nessuno si sogna di chiedere altri istituti, anche privati, con fama di severità: "Da noi non capita da almeno dieci anni - dice ancora Antonello Famà, direttore del "Sociale" - Non giudico chi non conosco, ma certo qui non regaliamo nulla e i nostri piani didattici non sono dettati da criteri economici". Insomma, il vecchio slogan "esami in sede" - per anni al centro della pubblicità dei privati - funziona ancora. È possibile cambiare città pur di ottenere il diploma? E alla fine la promozione arriva davvero? Che differenza c'è tra pubblico, privato e diplomifici?
L'ITALIA DELL'ESAME FACILE
Viterbo quest'anno vanta il primato assoluto, col 27,8 per cento di candidati esterni che si presentano alla maturità, seguita da Livorno e Pescara, che superano il 24, Chieti e Lecce, oltre il 22, Reggio Calabria e Siracusa (prima delle indagini che hanno portato alla chiusura di parecchie scuola) viaggiavano sul 22 per cento, mentre Latina, Firenze, Teramo, Agrigento e Vibo Valentia si collocano intorno al 20. Dopo essersi visto assegnare la scuola desiderata, il candidato sostiene in maggio un "pre-esame" con i soli docenti dell'istituto privato dove poi darà la maturità: naturalmente il servizio ha un costo (le famose "tasse") e del resto non è particolarmente selettivo. Lo scopo - oltre a rispettare formalmente la legge - è quello di riferire alla commissione di maturità "vera", e in parte composta dagli stessi docenti, se il candidato conosce i programmi dei cinque anni precedenti. Poi arriva l'esame, come per tutti gli altri. Che fine fanno i privatisti? Quelli delle statali vengono decimati (27 bocciati su 100 nel 2008), nelle paritarie se ne salvano parecchi di più: solo 14 bocciati su cento. E, quando nel 2004 il ministro Letizia Moratti cambiò la commissione della maturità (con tutti commissari interni e il solo presidente esterno) le cose andarono a gonfie vele per le paritarie: i 1.242 esterni del 2002 diventarono 12 mila nel 2005, quasi tutti promossi (appena 5 bocciati su 100), nelle statali ne vennero fermati addirittura 22 su 100.
DA DOVE ARRIVA L'AIUTINO?
Il modo nel quale si può influire sui commissari nominati dal ministero, lo si comincia a scoprire parlando con i giovani insegnanti precari che lavorano negli istituti privati. Molti si sfogano su appositi blog, gli stessi sui quali si lamentano gli studenti "truffati" (c'è anche chi "compra" l'esame ma poi non ottiene il diploma...). "L'ultima volta che ho fatto questo lavoro - racconta Andrea Pappalettera, segretario della Cisl scuola di Torino - sono stato l'unico della mia commissione a non subire pressioni. C'era chi veniva chiamato a casa, chi raggiunto direttamente sul portone da un collega o da un papà facoltoso... A me non capitò perché ero noto come sindacalista". Daniela N., 38 anni, da dieci insegnante di inglese in un linguistico privato, è più esplicita: "Appena arrivata qui mi hanno fatto passare la fantasia dicendomi che non dovevo "disturbare" i ragazzi. I compiti in classe si fanno col libro aperto davanti, le interrogazioni su un tema a piacere. Spesso i privatisti sono studenti che già conosciamo e che non hanno frequentato regolarmente. Il pre-esame è una burla. Quanto ai commissari esterni, non so e non voglio sapere come vengono incoraggiati a promuovere chi non se lo merita, certo la scuola non fa mancare loro nulla...". Perché non si denuncia? "Perché ho bisogno dei 1.000 euro che mi danno ogni mese, anche se ci trattano come schiavi e, di fatto, ci ricattano per non farci fare il nostro lavoro". È questo il business delle scuole private? Può sopravvivere chi esercita la stessa severità? Che diploma cerca chi non ha studiato?
PRIVATISTI NO GRAZIE
"Le nostre scuole non hanno fini di lucro, altre evidentemente sì", chiarisce ancora Macrì a nome della Fidae. "Per questo, se si guarda ai numeri dal 2002 ad oggi, si registra una lieve ma costante flessione degli istituti cattolici: in quell'anno, i finanziamenti pubblici che il nostro settore riceveva oscillavano intorno ai 565 milioni di euro, da allora sono costantemente calati". Le sole rette non sono sufficienti a restare sul mercato, chi non è sostenuto da robuste convinzioni etiche non può che orientarsi a sfornare diplomi. E da Macrì arriva anche un'altra ammissione: "Solo il ministro Berlinguer fece qualcosa per arginare il numero dei privatisti fissando dei tetti. Ovunque si verificano scorrettezze e anomalie lo Stato dovrebbe intervenire con estremo rigore, lo abbiamo detto a tutti i ministri ma non siamo stati ascoltati. A noi i privatisti creano problemi, li accettiamo solo se ce lo impongono".
LA VIA PIÙ BREVE
"I privatisti ritengono che il diploma da dirigente di comunità sia il più facile da ottenere. Inutile spiegare loro che non dovrebbe essere così". Wilma Marchino, a lungo dirigente in un istituto scolastico torinese, oggi sindacalista Cisl, spiega così il numero record di esterni che affollano l'esame per questa maturità "amichevole". "Arrivano da scuole non parificate, e intasano i pochi istituti statali - spiega Marchino - Negli anni scorsi si sono verificate situazioni esplosive, da Mantova a Forlì a Roma, puntualmente denunciate al Ministero, che ha introdotto la clausola dell'obbligo di residenza. Il risultato? I candidati si sono suddivisi un po' in tutta Italia, ma hanno continuato a aumentare, quest'anno solo a Torino ne avremo oltre 300. Oltre il 40 per cento ha una preparazione insufficiente, si tratta perlopiù di dipendenti di amministrazioni locali, di ospedali e della Polizia, che hanno bisogno del titolo per poter accedere ai concorsi. Alcune materie, in particolare quelle scientifiche vengono saltate a piedi pari nella preparazione fornita da molte scuole private, altrettanto spesso i candidati si presentano senza aver fatto neppure un giorno di tirocinio, che invece sarebbe obbligatorio". Nessuna vocazione a lavorare nel welfare, dunque, ma la convinzione che tra le molte scorciatoie sia questa la più facile di tutte.
Fonte: repubblica.it
23 giu 2010
Calabria, colpo alle cosche: 42 arresti, ricercato il sindaco di San Procopio
Maroni: "Operazione eccezionale"
Ordinanza di custodia cautelare in varie regioni nei confronti di affiliati delle famiglie Condello e De Stefano-Libri. San Procopio (Reggio Calabria), irreperibile il primo cittadino. Il procuratore Pignatone: "Lavoriamo per individuare i collegamenti esterni, anche politici, delle cosche". Sequestrati beni per 100 milioni
REGGIO CALABRIA - Colpo alle più importanti cosche della 'ndrangheta: 42 affiliati sono stati raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare eseguita dai carabinieri in Calabria, Lombardia, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna. Tra gli arrestati anche un avvocato, mentre si è reso irreperibile il sindaco di San Procopio, anch'egli tra i destinatari dell'ordinanza di custodia cautelare. Indagata una trentina di imprenditori collusi. Alle persone coinvolte nell'operazione, denominata Meta, vengono contestati tra gli altri i reati di associazione mafiosa, estorsione e turbata libertà degli incanti. L'operazione, condotta dal Ros di Reggio Calabria e coordinata dalla direzione distrettuale antimafia, ha portato anche al sequestro di beni per circa 100 milioni di euro.
Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, si è congratulato con il comandante generale dell'arma dei carabinieri, Leonardo Gallitelli, definendo l'operazione "di eccezionale importanza". Per il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, "i risultati ottenuti fino ad oggi sono l'esempio reale di questa grande stagione antimafia. Le mie congratulazioni, quindi, al procuratore della Dda Giuseppe Pignatone e agli uomini dei Ros dell'Arma dei Carabinieri per il risultato ottenuto contro le cosche calabresi".
"Stiamo facendo un lavoro progressivo che ci porterà, alla fine, a scoprire anche i collegamenti esterni delle cosche reggine, compresi quelli politici - spiega il procuratore Giuseppe Pignatone, illustrando ai giornalisti i risultati dell'operazione "Meta" -. Il nostro lavoro è come un film. Al momento abbiamo montato alcune scene che ci forniscono un quadro che speriamo di completare col prosieguo del nostro lavoro. I risultati sinora acquisiti rappresentano la base per impostare il lavoro futuro e giungere ai livelli superiori".
Il procuratore sottolinea l'elemento di novità rappresentato dall'alleanza tra le cosche per gestire pacificamente i proventi delle attività illecite, in particolare le estorsioni e l'usura. "Fino a poco tempo fa - ricorda il procuratore di Reggio Calabria - era impensabile che Pasquale Condello affidasse a Giuseppe De Stefano, figlio di Paolo, ucciso nella guerra di mafia, la gestione dei proventi delle estorsioni. Stiamo parlando di due gruppi criminali che hanno dato vita, tra il 1985 e il 1991, alla 'guerra di mafia' che provocò centinaia di morti, tra cui lo stesso Paolo De Stefano. Adesso quei tempi sono passati e si bada soprattutto agli affari".
Lo stesso Pignatone rivela che le richieste di custodia cautelare avanzate dalla Dda erano 72, ma una trentina non è stata accolta dal Gip. "Le persone nei confronti delle quali non è stato disposto l'arresto - spiega il procuratore - sono indagati di secondo piano nell'ambito dell'indagine, il cui nucleo centrale resta intatto. Abbiamo ricostruito la geografia delle cosche, una 'fotografia' allo stato attuale, che dimostra l'alleanza tra i diversi gruppi per la gestione degli affari, che riguardavano soprattutto lavori di natura privata ad eccezione del Comune di San Procopio".
Una delle ordinanze di custodia riguarda proprio il sindaco del comune reggino, Rocco Palermo. Secondo quanto riferito dal procuratore Pignatone, Palermo sarebbe legato alla cosca degli Alvaro che avrebbe pesantemente condizionato le ultime elezioni comunali. Il gruppo criminale, in particolare, avrebbe appoggiato direttamente la lista capeggiata da Palermo e avrebbe anche presentato un'altra lista, destinata a risultare sconfitta in modo da fare apparire che le elezioni si svolgessero regolarmente. Al momento, Palermo risulta irreperibile ed è quindi ricercato.
Tra gli arrestati, l'avvocato Vitaliano Grillo Brancati, accusato di essersi adoperato, nel corso di alcune aste giudiziarie, al fine di consentire alle cosche di rientrare in possesso dei beni sequestrati. Indagati una trentina di imprenditori collusi con la 'ndrangheta: avrebbero gestito gli appalti pubblici a Reggio Calabria e in altri centri della provincia per conto delle cosche Condello e De Stefano.
Quanto ai beni sequestrati, si tratta di mobili e immobili nella disponibilità delle cosche Condello e De Stefano-Libri. Tra questi figurano il lido "Cala Iunco", situato sul lungomare di Reggio Calabria, la clinica privata "Villa Speranza", sempre di Reggio, oltre a 18 imprese dei settori edilizia e ristorazione, centri sportivi, 26 appezzamenti di terreno, 22 appartamenti, 12 unità immobiliari per uso commerciale, tutti a Reggio Calabria e provincia, nonché 26 autovetture e 6 motocicli.
"In due anni - ricorda ancora Pignatone - abbiamo sequestrato beni per un miliardo di euro smantellando i patrimoni di molte cosche e incidendo, così, concretamente sul loro assetto. Un altro dato significativo è quello sui latitanti arrestati, che sono stati 54, tra cui molti boss come Giovanni Tegano, Giuseppe Pelle e Giuseppe De Stefano".
Fonte: repubblica.it
Ordinanza di custodia cautelare in varie regioni nei confronti di affiliati delle famiglie Condello e De Stefano-Libri. San Procopio (Reggio Calabria), irreperibile il primo cittadino. Il procuratore Pignatone: "Lavoriamo per individuare i collegamenti esterni, anche politici, delle cosche". Sequestrati beni per 100 milioni
REGGIO CALABRIA - Colpo alle più importanti cosche della 'ndrangheta: 42 affiliati sono stati raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare eseguita dai carabinieri in Calabria, Lombardia, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna. Tra gli arrestati anche un avvocato, mentre si è reso irreperibile il sindaco di San Procopio, anch'egli tra i destinatari dell'ordinanza di custodia cautelare. Indagata una trentina di imprenditori collusi. Alle persone coinvolte nell'operazione, denominata Meta, vengono contestati tra gli altri i reati di associazione mafiosa, estorsione e turbata libertà degli incanti. L'operazione, condotta dal Ros di Reggio Calabria e coordinata dalla direzione distrettuale antimafia, ha portato anche al sequestro di beni per circa 100 milioni di euro.
Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, si è congratulato con il comandante generale dell'arma dei carabinieri, Leonardo Gallitelli, definendo l'operazione "di eccezionale importanza". Per il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, "i risultati ottenuti fino ad oggi sono l'esempio reale di questa grande stagione antimafia. Le mie congratulazioni, quindi, al procuratore della Dda Giuseppe Pignatone e agli uomini dei Ros dell'Arma dei Carabinieri per il risultato ottenuto contro le cosche calabresi".
"Stiamo facendo un lavoro progressivo che ci porterà, alla fine, a scoprire anche i collegamenti esterni delle cosche reggine, compresi quelli politici - spiega il procuratore Giuseppe Pignatone, illustrando ai giornalisti i risultati dell'operazione "Meta" -. Il nostro lavoro è come un film. Al momento abbiamo montato alcune scene che ci forniscono un quadro che speriamo di completare col prosieguo del nostro lavoro. I risultati sinora acquisiti rappresentano la base per impostare il lavoro futuro e giungere ai livelli superiori".
Il procuratore sottolinea l'elemento di novità rappresentato dall'alleanza tra le cosche per gestire pacificamente i proventi delle attività illecite, in particolare le estorsioni e l'usura. "Fino a poco tempo fa - ricorda il procuratore di Reggio Calabria - era impensabile che Pasquale Condello affidasse a Giuseppe De Stefano, figlio di Paolo, ucciso nella guerra di mafia, la gestione dei proventi delle estorsioni. Stiamo parlando di due gruppi criminali che hanno dato vita, tra il 1985 e il 1991, alla 'guerra di mafia' che provocò centinaia di morti, tra cui lo stesso Paolo De Stefano. Adesso quei tempi sono passati e si bada soprattutto agli affari".
Lo stesso Pignatone rivela che le richieste di custodia cautelare avanzate dalla Dda erano 72, ma una trentina non è stata accolta dal Gip. "Le persone nei confronti delle quali non è stato disposto l'arresto - spiega il procuratore - sono indagati di secondo piano nell'ambito dell'indagine, il cui nucleo centrale resta intatto. Abbiamo ricostruito la geografia delle cosche, una 'fotografia' allo stato attuale, che dimostra l'alleanza tra i diversi gruppi per la gestione degli affari, che riguardavano soprattutto lavori di natura privata ad eccezione del Comune di San Procopio".
Una delle ordinanze di custodia riguarda proprio il sindaco del comune reggino, Rocco Palermo. Secondo quanto riferito dal procuratore Pignatone, Palermo sarebbe legato alla cosca degli Alvaro che avrebbe pesantemente condizionato le ultime elezioni comunali. Il gruppo criminale, in particolare, avrebbe appoggiato direttamente la lista capeggiata da Palermo e avrebbe anche presentato un'altra lista, destinata a risultare sconfitta in modo da fare apparire che le elezioni si svolgessero regolarmente. Al momento, Palermo risulta irreperibile ed è quindi ricercato.
Tra gli arrestati, l'avvocato Vitaliano Grillo Brancati, accusato di essersi adoperato, nel corso di alcune aste giudiziarie, al fine di consentire alle cosche di rientrare in possesso dei beni sequestrati. Indagati una trentina di imprenditori collusi con la 'ndrangheta: avrebbero gestito gli appalti pubblici a Reggio Calabria e in altri centri della provincia per conto delle cosche Condello e De Stefano.
Quanto ai beni sequestrati, si tratta di mobili e immobili nella disponibilità delle cosche Condello e De Stefano-Libri. Tra questi figurano il lido "Cala Iunco", situato sul lungomare di Reggio Calabria, la clinica privata "Villa Speranza", sempre di Reggio, oltre a 18 imprese dei settori edilizia e ristorazione, centri sportivi, 26 appezzamenti di terreno, 22 appartamenti, 12 unità immobiliari per uso commerciale, tutti a Reggio Calabria e provincia, nonché 26 autovetture e 6 motocicli.
"In due anni - ricorda ancora Pignatone - abbiamo sequestrato beni per un miliardo di euro smantellando i patrimoni di molte cosche e incidendo, così, concretamente sul loro assetto. Un altro dato significativo è quello sui latitanti arrestati, che sono stati 54, tra cui molti boss come Giovanni Tegano, Giuseppe Pelle e Giuseppe De Stefano".
Fonte: repubblica.it
Viaggio nella Palermo sommersa dall'immondizia
Cataste di rifiuti, mobili e eternit. I cassonetti traboccano. L'accusa: «Sono i signori che ristrutturano le loro ville»
PALERMO - Per loro fortuna i duemila turisti sbarcati ieri mattina da due palazzi galleggianti come la Fantastica e la Concordia per scoprire la città fra carrozzelle addobbate come carretti hanno seguito la direttrice che dal porto arriva a Piazza Politeama, lungo via Emerico Amari, cinquecento metri puntellati da cassonetti sporchi e scoperchiati, lerci e maleodoranti, ma svuotati nella notte. Così, forse, Palermo ha evitato di offrire ai croceristi per l’ennesima volta l’immagine e il disastro di una nuova Napoli. O, come ha sferzato con un titolo della scorsa settimana Le Monde, di «città pattumiera». Sporca, ma senza montagn
e di rifiuti. Anche se resta nelle foto ricordo il profilo tetro di contenitori simili a bocche spalancate di vecchi sdentati, i coperchi piegati o spezzati. Poteva andare peggio, direbbe con una delle sue battute Fiorello. Sarebbe bastata, infatti, una piccola deviazione sulla destra, prima della cupola del Teatro Politeama, per restare ancora più sconvolti davanti alla discarica a cielo aperto del Borgo Vecchio, un mercato nel cuore della vecchia Palermo dove si può comprare di tutto, anche la notte. A due passi da botteghe e bancarelle, da griglie con sgombri e «stigghiole» fumanti, ecco una catasta di materassi sfatti, armadi sfondati, sedie e tavoli squinternati, resti di frigo, radio e tutto ciò di cui ci si può liberare. Compreso un serbatoio di eternit, come succede nella piazzetta trasformata dai ragazzi in un campetto di calcio recintato, una gabbia, unico modo per delimitare lo spazio fra gioco e monnezza.
Inferno Bellolampo
È una delle immagini consegnate dal cuore di Palermo, dal «cuore di cactus», per usare il titolo di un libro di Antonio Calabrò che, come ogni scrittore nato da queste parti, ama e odia una terra dove sui rifiuti si scatena una guerra politica e rischia di esplodere una bomba ecologica chiamata Bellolampo. Nome di un brutto monte dove i gabbiani sembrano topi volanti. Una discarica al collasso che alimenta i liquami del cosiddetto percolato, un lago di melma che si infiltra insidiando la falda. Un girone dantesco, meta di autocompattatori rotti e insufficienti. Specchio di un’azienda colabrodo, l’Amia, un buco di oltre cento milioni di euro, proprio ieri mattina inseguita in tribunale da 2.400 creditori che chiedono 44 milioni per forniture mai saldate. Forniture in qualche caso ai raggi X di ben altre indagini. È il caso del lavaggio «esterno » al
quale si appoggiava l’Amia, quello dei boss Lo Piccolo a San Lorenzo. Sotto processo un’intera gestione, il sindaco Diego Cammarata con dodici fra direttori e amministratori. Compreso l’ex presidente Enzo Galioto, ancora ben protetto dal suo seggio di senatore Pdl. Resteranno nella storia degli scandali i viaggi ad Abu Dhabi per trasferire negli Emirati un presunto know how della «differenziata » allora mai sperimentata in Sicilia. Un buco nell’acqua. E un buco nel bilancio di un Comune sull’orlo del dissesto. Bocciata la proposta del sindaco per l’aumento della tassa immondizia, la Tarsu, non si sa cosa fare perché la prima voce dei tagli è la Gesip con i suoi duemila dipendenti assunti per cooptazione.
Sindaco in vacanza
È questa la catena di guasti antichi e recenti che sta dietro un viaggio fatto ieri mattina spostandoci da borgate decentrate come Pagliarelli e Bonagia a Villa Sperlinga, il cuore residenziale di una Palermo do ve gli abitanti di via Libertà o piazza Leoni scoprono con soddisfazione i primi esperimenti di «differenziata». Anche se proprio a piazza Leoni, di fronte all’ingresso di Villa Airoldi, sede di un Golf Club fra giardini e vasche del Settecento, la titolare dell’edicola all’angolo, Giovanna Calabrese, indica esterrefatta una vasca dei nostri giorni colma di rifiuti, come fosse un cassonetto: «La differenziata è una gran cosa, ma se i signori della cosiddetta "Palermo bene" ristrutturano casa buttando tutto per strada vince l’inciviltà...». S’intrecciano così le colpe degli amministratori e le cattive abitudini di chi a Palermo vive. Anche se fra siti web e manifesti prevale il refrain sul sindaco, «Cammarata vattene». È lo slogan pennellato su un paio di teli stesi da cittadini semplici ai loro balconi, quartiere Matteotti, il più signorile, a due passi dalla elementare Garzilli. È un crescendo. E Cammarata, appena tornato dal Sudafrica dopo una gita «mondiale», respinge le critiche di chi ha pure presentato una mozione di sfiducia: «Che male c’è a prendersi tre giorni di vacanza?». Quesito che rimbalza in una città da dove parte una sua disperata lettera appello alla Prestigiacomo, a Bertolaso, a Gianni Letta perché ministero dell’Ambiente, Protezione civile e Palazzo Chigi lo ascoltino: «Chiedo da gennaio dell’anno scorso lo stato di crisi...».
Percolato d'oro
Lo ascoltano un po' meno alla Regione, dove prevale il contropiede con Raffaele Lombardo, il governatore che ha detto no ai termovalorizzatori facendo saltare «un affare criminale», stando all’accusa lanciata anche dal suo assessore all’Energia Pier Camillo Russo. Un tecnico già andato in Procura per l’«emergenza percolato», convinto che qualcuno abbia interesse ad ampliare la misura del fenomeno: «Mi hanno chiesto di conteggiare 45 mila tonnellate di percolato smaltite in quattro mesi. Cioè 11.250 tonnellate al mese. Lavoro eseguito con autocisterne fornite di rimorchio. Trenta tonnellate ognuna a viaggio. Significa che ogni mese per 11.250 tonnellate occorrono 375 autocisterne che fanno la spola con Gioia Tauro ». I conti non tornano e Russo bacchetta: «Smaltire ogni tonnellata di percolato costa 80 euro. Così, per 45 mila tonnellate dovrei firmare un assegno da 3 milioni e 600 mila euro. Ecco perché il percolato non deve mai mancare. Non bisogna farlo finire mai...». È materia di indagine. E non è l’unico scontro, visto che adesso l’Amia litiga anche col prefetto Giancarlo Trevisone per la quinta vasca di Bellolampo collaudata senza loro tecnici. Una boccata d’ossigeno. Appena sei mesi per un nuovo possibile collasso che forse non può essere rovesciato solo sul sindaco. Ma echeggia nei suoi confronti il malessere. Nascono su Facebook gruppi come «Carta 9 gennaio» e Calabrò dialoga con uno degli allievi di Piersanti Mattarella, Antonio Piraino, un manager di Banca Nuova, sulla scia di altri scrittori, di Roberto Alajmo che denuncia incuria e degrado. In sintonia con chi raccoglie centinaia di foto sui rifiuti di Palermo e li piazza nella vetrina internet, «Il Valore delle Piccole Cose».
Cassonetti sudici
Sono foto come quella scattata ieri mattina alle 10.45 a piazza Pagliarelli, la borgata oltre la circonvallazione, dove Giuseppe Di Simone mostra schifato i cassonetti zeppi, i coperchi a pezzi: «L’autocompattatore passa, ma dentro restano luridi e nessuno li ha mai puliti». È quel che succede alle 11.10 in via del Bassotto, quartiere Bonagia. Divani, sedie, armadietti rotti circondano i cassonetti stracolmi, scrutati con disappunto da Giuseppe Santoro, pensionato: «Tutti si lamentano, ma nessuno si ribella». Venti minuti dopo ecco il replay su via Montegrappa, villaggio Santa Rosalia, vicino all’ospedale Civico. Cassonetti e discarica in area parcheggio. Un gatto spaventato dal fotografo mentre sfalda sacchetti e cerca cibo, indicato da Davide Giannini, titolare dell’autoscuola Jolly: «Adesso, anche il pomeriggio, il camion passa, ma puzza più dei cassonetti che restano sudici». Dalla periferia a piazza Unità d’Italia la rabbia è la stessa. E alle 12.30 sotto la pioggerellina una signora si tura il naso all’angolo con via Giusti. Come succede alle 12.50 a piazza Leoni davanti alla vasca-cassonetto. O alle 13.30 al mercato di via La Marmora, angolo via Sanpolo, fra panieri di insalate e pomodori stesi accanto alla spazzatura da un ambulante abusivo che non protesta: «Cade il mondo se per una notte non se la portano?». E passa veloce pure la signora che alle due del pomeriggio rischia di inciampare nell’armadio di ferro arrugginito da dieci giorni sul marciapiede di via Francesco Lo Jacono, a 50 metri dall’albero Falcone di via Notarbartolo, simbolo di un riscatto che anche la monnezza allontana.
Fonte: corriere.it
PALERMO - Per loro fortuna i duemila turisti sbarcati ieri mattina da due palazzi galleggianti come la Fantastica e la Concordia per scoprire la città fra carrozzelle addobbate come carretti hanno seguito la direttrice che dal porto arriva a Piazza Politeama, lungo via Emerico Amari, cinquecento metri puntellati da cassonetti sporchi e scoperchiati, lerci e maleodoranti, ma svuotati nella notte. Così, forse, Palermo ha evitato di offrire ai croceristi per l’ennesima volta l’immagine e il disastro di una nuova Napoli. O, come ha sferzato con un titolo della scorsa settimana Le Monde, di «città pattumiera». Sporca, ma senza montagn

Inferno Bellolampo
È una delle immagini consegnate dal cuore di Palermo, dal «cuore di cactus», per usare il titolo di un libro di Antonio Calabrò che, come ogni scrittore nato da queste parti, ama e odia una terra dove sui rifiuti si scatena una guerra politica e rischia di esplodere una bomba ecologica chiamata Bellolampo. Nome di un brutto monte dove i gabbiani sembrano topi volanti. Una discarica al collasso che alimenta i liquami del cosiddetto percolato, un lago di melma che si infiltra insidiando la falda. Un girone dantesco, meta di autocompattatori rotti e insufficienti. Specchio di un’azienda colabrodo, l’Amia, un buco di oltre cento milioni di euro, proprio ieri mattina inseguita in tribunale da 2.400 creditori che chiedono 44 milioni per forniture mai saldate. Forniture in qualche caso ai raggi X di ben altre indagini. È il caso del lavaggio «esterno » al

Sindaco in vacanza
È questa la catena di guasti antichi e recenti che sta dietro un viaggio fatto ieri mattina spostandoci da borgate decentrate come Pagliarelli e Bonagia a Villa Sperlinga, il cuore residenziale di una Palermo do ve gli abitanti di via Libertà o piazza Leoni scoprono con soddisfazione i primi esperimenti di «differenziata». Anche se proprio a piazza Leoni, di fronte all’ingresso di Villa Airoldi, sede di un Golf Club fra giardini e vasche del Settecento, la titolare dell’edicola all’angolo, Giovanna Calabrese, indica esterrefatta una vasca dei nostri giorni colma di rifiuti, come fosse un cassonetto: «La differenziata è una gran cosa, ma se i signori della cosiddetta "Palermo bene" ristrutturano casa buttando tutto per strada vince l’inciviltà...». S’intrecciano così le colpe degli amministratori e le cattive abitudini di chi a Palermo vive. Anche se fra siti web e manifesti prevale il refrain sul sindaco, «Cammarata vattene». È lo slogan pennellato su un paio di teli stesi da cittadini semplici ai loro balconi, quartiere Matteotti, il più signorile, a due passi dalla elementare Garzilli. È un crescendo. E Cammarata, appena tornato dal Sudafrica dopo una gita «mondiale», respinge le critiche di chi ha pure presentato una mozione di sfiducia: «Che male c’è a prendersi tre giorni di vacanza?». Quesito che rimbalza in una città da dove parte una sua disperata lettera appello alla Prestigiacomo, a Bertolaso, a Gianni Letta perché ministero dell’Ambiente, Protezione civile e Palazzo Chigi lo ascoltino: «Chiedo da gennaio dell’anno scorso lo stato di crisi...».
Percolato d'oro
Lo ascoltano un po' meno alla Regione, dove prevale il contropiede con Raffaele Lombardo, il governatore che ha detto no ai termovalorizzatori facendo saltare «un affare criminale», stando all’accusa lanciata anche dal suo assessore all’Energia Pier Camillo Russo. Un tecnico già andato in Procura per l’«emergenza percolato», convinto che qualcuno abbia interesse ad ampliare la misura del fenomeno: «Mi hanno chiesto di conteggiare 45 mila tonnellate di percolato smaltite in quattro mesi. Cioè 11.250 tonnellate al mese. Lavoro eseguito con autocisterne fornite di rimorchio. Trenta tonnellate ognuna a viaggio. Significa che ogni mese per 11.250 tonnellate occorrono 375 autocisterne che fanno la spola con Gioia Tauro ». I conti non tornano e Russo bacchetta: «Smaltire ogni tonnellata di percolato costa 80 euro. Così, per 45 mila tonnellate dovrei firmare un assegno da 3 milioni e 600 mila euro. Ecco perché il percolato non deve mai mancare. Non bisogna farlo finire mai...». È materia di indagine. E non è l’unico scontro, visto che adesso l’Amia litiga anche col prefetto Giancarlo Trevisone per la quinta vasca di Bellolampo collaudata senza loro tecnici. Una boccata d’ossigeno. Appena sei mesi per un nuovo possibile collasso che forse non può essere rovesciato solo sul sindaco. Ma echeggia nei suoi confronti il malessere. Nascono su Facebook gruppi come «Carta 9 gennaio» e Calabrò dialoga con uno degli allievi di Piersanti Mattarella, Antonio Piraino, un manager di Banca Nuova, sulla scia di altri scrittori, di Roberto Alajmo che denuncia incuria e degrado. In sintonia con chi raccoglie centinaia di foto sui rifiuti di Palermo e li piazza nella vetrina internet, «Il Valore delle Piccole Cose».
Cassonetti sudici
Sono foto come quella scattata ieri mattina alle 10.45 a piazza Pagliarelli, la borgata oltre la circonvallazione, dove Giuseppe Di Simone mostra schifato i cassonetti zeppi, i coperchi a pezzi: «L’autocompattatore passa, ma dentro restano luridi e nessuno li ha mai puliti». È quel che succede alle 11.10 in via del Bassotto, quartiere Bonagia. Divani, sedie, armadietti rotti circondano i cassonetti stracolmi, scrutati con disappunto da Giuseppe Santoro, pensionato: «Tutti si lamentano, ma nessuno si ribella». Venti minuti dopo ecco il replay su via Montegrappa, villaggio Santa Rosalia, vicino all’ospedale Civico. Cassonetti e discarica in area parcheggio. Un gatto spaventato dal fotografo mentre sfalda sacchetti e cerca cibo, indicato da Davide Giannini, titolare dell’autoscuola Jolly: «Adesso, anche il pomeriggio, il camion passa, ma puzza più dei cassonetti che restano sudici». Dalla periferia a piazza Unità d’Italia la rabbia è la stessa. E alle 12.30 sotto la pioggerellina una signora si tura il naso all’angolo con via Giusti. Come succede alle 12.50 a piazza Leoni davanti alla vasca-cassonetto. O alle 13.30 al mercato di via La Marmora, angolo via Sanpolo, fra panieri di insalate e pomodori stesi accanto alla spazzatura da un ambulante abusivo che non protesta: «Cade il mondo se per una notte non se la portano?». E passa veloce pure la signora che alle due del pomeriggio rischia di inciampare nell’armadio di ferro arrugginito da dieci giorni sul marciapiede di via Francesco Lo Jacono, a 50 metri dall’albero Falcone di via Notarbartolo, simbolo di un riscatto che anche la monnezza allontana.
Fonte: corriere.it
Gli sprechi delle Regioni. Spese pazze per 178 sedi nel mondo Veneto, Lombardia e Piemonte al top della classifica.
La Regione Marche ha 9 presenze all’estero, di cui ben quattro in Cina
E nessuno vuole rinunciare all'ufficio di Bruxelles
ROMA - Seguendo le orme di Marco Polo anche i moderni Dogi del Veneto hanno fatto rotta a Oriente: puntando dritti alla Città Proibita. Magari, esagerando un tantino. Il leghista Luca Zaia si è quindi ritrovato a governare una Regione che ha 10 (dieci) uffici in Cina. Avete letto bene: dieci. Ma la moltiplicazione dei «baili», come si chiamavano anticamente gli ambasciatori della Serenissima, non si è certamente fermata lì. Poteva forse il Veneto rinunciare ad aprire un ufficetto in Bielorussia? O un appartamento in Bosnia? Un paio di punti d’appoggio in Canada? Tre in Romania? Quattro negli Stati Uniti e altrettanti in Bulgaria (sì, la Bulgaria)? Un pied à terre in Vietnam? Un appartamento in Uzbekistan? Una tenda negli Emirati arabi uniti? Un bungalow a Porto Rico? E un consolato in Turchia, alla memoria dell’ambasciata veneziana alla Sublime Porta, quello forse no?
Si arriva così a 60 sedi in 31 Paesi: alla quale si deve aggiungere, ovviamente, quella di Bruxelles. E si sale a 61. Irraggiungibile, il Veneto: a elencarle tutte, sarebbe già finito l’articolo e non ci sarebbe spazio per raccontare quello che combinano invece le altre Regioni italiane. Perché scorrendo i dati che sono in un dossier del Tesoro su questo incredibile fenomeno della diplomazia regionale «fai da te», il Veneto è soltanto in cima a una piramide molto più grossa. Le Regioni italiane hanno all’estero qualcosa come 157 uffici, ai quali si devono aggiungere i 21 di Bruxelles. Per un totale di 178. Già: a un’antenna nel quartier generale dell’Unione europea non ha voluto rinunciare proprio nessuna. «D’altra parte», ha spiegato il governatore lombardo Roberto Formigoni, «è importante avere un presidio a Roma e Bruxelles. Non è affatto un lavoro inutile quello che i nostri funzionari svolgono organizzando a esempio numerosissimi incontri istituzionali per aziende, centri culturali, organizzazioni non governative e così via, che vengono supportati nel dialogo con le autorità nazionali ed europee». La Lombardia, che ha quasi 10 milioni di abitanti: ma il Molise? Che senso ha per una Regione con 320 mila abitanti come quella di Michele Iorio mantenere un ufficio a Bruxelles, peraltro pagato un milione 600 mila euro, oltre ai due di Roma?
Per non parlare dei valdostani, che sono 124 mila. Peccato però che la Lombardia non abbia solo un presidio Roma e uno a Bruxelles. Bensì, secondo il Tesoro, altri 27 sparsi in giro per il mondo. Ce n’è uno in Argentina, un paio in Brasile e Cina, quattro in Russia (esattamente come la Regione Veneto), e poi uno in Giappone, Lituania, Israele, Moldova, Polonia, Perù, Uruguay, Kazakistan... E il Piemonte? Che dire del Piemonte? La Regione appena conquistata da un altro leghista, Roberto Cota, presidia 23 Paesi esteri. Con la bellezza di 33 basi. Frutto di scelte apparentemente sorprendenti. Per esempio, ce ne sono due in Corea del Sud. Altrettanti in Costa Rica (perché il Costa Rica?). Altri due in Lettonia (perché la Lettonia?). Roba da far impallidire i siciliani, che avevano riempito mezzo mondo di «Case Sicilia»: dalla pampa argentina a Boulevard Haussmann, Parigi. Poi la Tunisia, e New York, Empire state building. Ma volete mettere il fascino della Grande Mela? Dove gli uomini dell’ex governatore Salvatore Totò Cuffaro si ritrovarono in ottima compagnia. Quella dei dipendenti della Regione Campania, allora governata da Antonio Bassolino, che aveva preso in affitto un appartamento giusto sopra il negozio del celebre sarto napoletano Ciro Paone. Nientemeno.
Costo: un milione 140 mila euro l’anno. A quale scopo, se lo chiese nell’autunno del 2005 Sandra Lonardo Mastella, in quel momento presidente del Consiglio regionale, visitando una struttura il cui responsabile, parole della signora, «viene solo alcuni giorni ogni mese ». Struttura per la quale venivano pagati tre addetti il cui compito consisteva nell’organizzare, per promuovere l’immagine regionale, eventi ai quali non soltanto non partecipava «alcun esponente americano », ma nessuno «che parlasse inglese». Quello che colpisce, però, sono sempre i luoghi. La Regione Marche, tanto per dirne una, ha nove basi all’estero. Di queste, ben quattro nella Cina. Il Paese decisamente più gettonato: alla Corte di Hu Jintao ci sono ben sette enti locali italiani, con addirittura ventitrè uffici. Il doppio che nella federazione russa. Quattro, in Cina, ne ha pure il Piemonte. Regione che si distingue da tutte le altre per avere attivato anche una sede a Cuba. Oltre a due in India, dove hanno un punto d’appoggio pure le Marche. Ma non l’Emilia-Romagna, che paradossalmente ha meno presidi esteri della piccola Regione confinante: cinque anziché nove, numeri a cui bisogna sempre aggiungere quello di Bruxelles. Quasi tenerezza fanno gli ultimi in classifica. Il Friuli-Venezia Giulia, che si «accontenta» (si fa per dire) di tre «consolati» oltre a quello europeo: in Slovacchia, Moldova e Federazione russa.
La Basilicata, andata in soccorso ai lucani dell’Uruguay e dell’Argentina. La Valle D’Aosta, che non sazia della sede di Bruxelles ne ha pure una in Francia. Ma dove, altrimenti? Infine la Puglia: come avrebbe fatto senza un comodo rifugio dai dirimpettai albanesi? Quello che non dice, il dossier del Tesoro, è quanto paghiamo per tale gigantesca e incomprensibile Farnesina in salsa regionale. Per saperlo bisognerebbe spulciare uno a uno i bilanci degli enti locali. Dove intanto non è sempre facile trovare i numeri «veri». E soprattutto non è spiegato a che cosa serva tutto questo Ambaradam. A favorire gli affari delle imprese di quelle Regioni? Al prestigio dei governatori presenti o passati? A mantenere qualche stipendiato illustre? Il sospetto, diciamolo chiaramente, è che nella maggior parte dei casi l’utilità di tutte queste feluche di periferia sia perlomeno discutibile. Come quel Federico Badoere, nel 1557 ambasciatore veneziano a Madrid presso la corte di Filippo II, autore di una strepitosa relazione spedita al Senato della Serenissima nella quale liquidava come una trascurabile quisquilia ciò che stava succedendo dopo la scoperta dell’America, evento che un suo predecessore si era addirittura «dimenticato» di riferire a Venezia: «Sopra le cose delle Indie non mi pare di dovermi allargare, stimando più a proposito compatire il tempo che mi avanza a narrare le cose degli altri stati di Sua Maestà».
Fonte: corriere.it
E nessuno vuole rinunciare all'ufficio di Bruxelles
ROMA - Seguendo le orme di Marco Polo anche i moderni Dogi del Veneto hanno fatto rotta a Oriente: puntando dritti alla Città Proibita. Magari, esagerando un tantino. Il leghista Luca Zaia si è quindi ritrovato a governare una Regione che ha 10 (dieci) uffici in Cina. Avete letto bene: dieci. Ma la moltiplicazione dei «baili», come si chiamavano anticamente gli ambasciatori della Serenissima, non si è certamente fermata lì. Poteva forse il Veneto rinunciare ad aprire un ufficetto in Bielorussia? O un appartamento in Bosnia? Un paio di punti d’appoggio in Canada? Tre in Romania? Quattro negli Stati Uniti e altrettanti in Bulgaria (sì, la Bulgaria)? Un pied à terre in Vietnam? Un appartamento in Uzbekistan? Una tenda negli Emirati arabi uniti? Un bungalow a Porto Rico? E un consolato in Turchia, alla memoria dell’ambasciata veneziana alla Sublime Porta, quello forse no?
Si arriva così a 60 sedi in 31 Paesi: alla quale si deve aggiungere, ovviamente, quella di Bruxelles. E si sale a 61. Irraggiungibile, il Veneto: a elencarle tutte, sarebbe già finito l’articolo e non ci sarebbe spazio per raccontare quello che combinano invece le altre Regioni italiane. Perché scorrendo i dati che sono in un dossier del Tesoro su questo incredibile fenomeno della diplomazia regionale «fai da te», il Veneto è soltanto in cima a una piramide molto più grossa. Le Regioni italiane hanno all’estero qualcosa come 157 uffici, ai quali si devono aggiungere i 21 di Bruxelles. Per un totale di 178. Già: a un’antenna nel quartier generale dell’Unione europea non ha voluto rinunciare proprio nessuna. «D’altra parte», ha spiegato il governatore lombardo Roberto Formigoni, «è importante avere un presidio a Roma e Bruxelles. Non è affatto un lavoro inutile quello che i nostri funzionari svolgono organizzando a esempio numerosissimi incontri istituzionali per aziende, centri culturali, organizzazioni non governative e così via, che vengono supportati nel dialogo con le autorità nazionali ed europee». La Lombardia, che ha quasi 10 milioni di abitanti: ma il Molise? Che senso ha per una Regione con 320 mila abitanti come quella di Michele Iorio mantenere un ufficio a Bruxelles, peraltro pagato un milione 600 mila euro, oltre ai due di Roma?
Per non parlare dei valdostani, che sono 124 mila. Peccato però che la Lombardia non abbia solo un presidio Roma e uno a Bruxelles. Bensì, secondo il Tesoro, altri 27 sparsi in giro per il mondo. Ce n’è uno in Argentina, un paio in Brasile e Cina, quattro in Russia (esattamente come la Regione Veneto), e poi uno in Giappone, Lituania, Israele, Moldova, Polonia, Perù, Uruguay, Kazakistan... E il Piemonte? Che dire del Piemonte? La Regione appena conquistata da un altro leghista, Roberto Cota, presidia 23 Paesi esteri. Con la bellezza di 33 basi. Frutto di scelte apparentemente sorprendenti. Per esempio, ce ne sono due in Corea del Sud. Altrettanti in Costa Rica (perché il Costa Rica?). Altri due in Lettonia (perché la Lettonia?). Roba da far impallidire i siciliani, che avevano riempito mezzo mondo di «Case Sicilia»: dalla pampa argentina a Boulevard Haussmann, Parigi. Poi la Tunisia, e New York, Empire state building. Ma volete mettere il fascino della Grande Mela? Dove gli uomini dell’ex governatore Salvatore Totò Cuffaro si ritrovarono in ottima compagnia. Quella dei dipendenti della Regione Campania, allora governata da Antonio Bassolino, che aveva preso in affitto un appartamento giusto sopra il negozio del celebre sarto napoletano Ciro Paone. Nientemeno.
Costo: un milione 140 mila euro l’anno. A quale scopo, se lo chiese nell’autunno del 2005 Sandra Lonardo Mastella, in quel momento presidente del Consiglio regionale, visitando una struttura il cui responsabile, parole della signora, «viene solo alcuni giorni ogni mese ». Struttura per la quale venivano pagati tre addetti il cui compito consisteva nell’organizzare, per promuovere l’immagine regionale, eventi ai quali non soltanto non partecipava «alcun esponente americano », ma nessuno «che parlasse inglese». Quello che colpisce, però, sono sempre i luoghi. La Regione Marche, tanto per dirne una, ha nove basi all’estero. Di queste, ben quattro nella Cina. Il Paese decisamente più gettonato: alla Corte di Hu Jintao ci sono ben sette enti locali italiani, con addirittura ventitrè uffici. Il doppio che nella federazione russa. Quattro, in Cina, ne ha pure il Piemonte. Regione che si distingue da tutte le altre per avere attivato anche una sede a Cuba. Oltre a due in India, dove hanno un punto d’appoggio pure le Marche. Ma non l’Emilia-Romagna, che paradossalmente ha meno presidi esteri della piccola Regione confinante: cinque anziché nove, numeri a cui bisogna sempre aggiungere quello di Bruxelles. Quasi tenerezza fanno gli ultimi in classifica. Il Friuli-Venezia Giulia, che si «accontenta» (si fa per dire) di tre «consolati» oltre a quello europeo: in Slovacchia, Moldova e Federazione russa.
La Basilicata, andata in soccorso ai lucani dell’Uruguay e dell’Argentina. La Valle D’Aosta, che non sazia della sede di Bruxelles ne ha pure una in Francia. Ma dove, altrimenti? Infine la Puglia: come avrebbe fatto senza un comodo rifugio dai dirimpettai albanesi? Quello che non dice, il dossier del Tesoro, è quanto paghiamo per tale gigantesca e incomprensibile Farnesina in salsa regionale. Per saperlo bisognerebbe spulciare uno a uno i bilanci degli enti locali. Dove intanto non è sempre facile trovare i numeri «veri». E soprattutto non è spiegato a che cosa serva tutto questo Ambaradam. A favorire gli affari delle imprese di quelle Regioni? Al prestigio dei governatori presenti o passati? A mantenere qualche stipendiato illustre? Il sospetto, diciamolo chiaramente, è che nella maggior parte dei casi l’utilità di tutte queste feluche di periferia sia perlomeno discutibile. Come quel Federico Badoere, nel 1557 ambasciatore veneziano a Madrid presso la corte di Filippo II, autore di una strepitosa relazione spedita al Senato della Serenissima nella quale liquidava come una trascurabile quisquilia ciò che stava succedendo dopo la scoperta dell’America, evento che un suo predecessore si era addirittura «dimenticato» di riferire a Venezia: «Sopra le cose delle Indie non mi pare di dovermi allargare, stimando più a proposito compatire il tempo che mi avanza a narrare le cose degli altri stati di Sua Maestà».
Fonte: corriere.it
22 giu 2010
Protezione civile. Emergenze e grandi eventi, tutti i lavori affidati con iter straordinario
Appalti e procedure speciali: 13 miliardi in nove anni
E la Corte dei conti contesta i fondi per la regata alla Maddalena
ROMA — Nel Paese (l’Italia) dove ci sono più di tredicimila «stazioni appaltanti», cioè soggetti con il potere di bandire gare per opere pubbliche, ce n’è una che le surclassa tutte. Si chiama Protezione civile. Volete sapere quanti soldi sono passati per le mani di Guido Bertolaso da quando, nel 2001, Silvio Berlusconi lo ha rimesso a capo del Dipartimento e gli ha dato pure le competenze sui grandi eventi? La bellezza di 12 miliardi 894 milioni 770.574 euro. E 38 centesimi: pure quelli ha contato l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nel suo ultimo rapporto. Sottolineando ancora una volta con la precisione delle cifre la gigantesca anomalia di una struttura con licenza di deroga alle procedure ordinarie: non soltanto per le calamità naturali, ma anche incomprensibilmente per la gestione di gare sportive, vertici internazionali, manifestazioni varie.
Illuminante è una relazione della Corte dei conti su una regata alla Maddalena svoltasi mesi (con solita ordinanza di Protezione civile) davanti ai luoghi del G8, pietra dello scandalo che sta travolgendo affaristi pubblici e privati. Costretto a ingoiare il rospo, il magistrato si è tolto comunque un sassolino dalla scarpa, giudicando ingiustificabile che per una competizione velica come la «Louis Vuitton world series» siano stati impiegati dipendenti pubblici e soldi sulla carta accantonati per le calamità. E su una cosa non ha voluto transigere, rifiutando il proprio visto di conformità: il fatto che al comitato organizzatore siano stati versati 2,3 milioni di denari pubblici. Prelevati anch’essi dallo stesso fondo per la protezione civile.
Come si è arrivati a spendere con procedure in deroga quasi 13 miliardi, cifra che sarebbe sufficiente a fare due ponti sullo stretto di Messina, è spiegato in dettaglio nel rapporto dell’authority presieduta da Luigi Giampaolino. Dove si racconta che le ordinanze di Bertolaso le quali implicano il ricorso all’appalto sono lievitate con un crescendo rossiniano: 28 nel 2001, 34 nel 2006, 49 nel 2009 (anche a causa del terremoto). Prendiamo la spazzatura in Campania: se dal 2001 al 2005 la Protezione civile aveva emanato in media un’ordinanza l’anno, nel 2007 si è passati a sette, poi a 11 nel 2008. Da brivido la cifra finale: l’importo destinato in soli nove anni all’emergenza rifiuti in quella Regione avrebbe ha raggiunto 3 miliardi 548 milioni 878.439 euro. Ben 613 euro per ogni cittadino campano.
Poi, fra quelle 302 ordinanze di Protezione civile emanate dal 2001 al 2009, ci sono i famosi Grandi eventi. Come i mondiali di nuoto dell’anno scorso, che hanno fatto scattare un’inchiesta giudiziaria e sui quali l’autorità di Giampaolino aveva già avuto qualcosa da ridire. Oppure come il G8 della Maddalena su cui indagano i giudici e per il quale sarebbe stata stanziata, anche se poi non effettivamente utilizzata, una somma sbalorditiva. Tenetevi forte: un miliardo, 6 milioni 415.139 euro e 68 centesimi. O, ancora, come le iniziative per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, altro capitolo che non ha mancato di interessare i magistrati e a proposito del quale la stessa authority ha sollevato una serie di questioni. Per esempio, che non siano state fornite indicazioni sulle procedure seguite per affidare incarichi a progettisti e collaudatori. Per esempio, che visti i tempi stretti si sia deciso di riconoscere alle imprese «premi di accelerazione» (?) non contemplati nelle gare. Per esempio, che fra avviso «di preinformazione » e pubblicazione dei bandi siano passati soli 14 giorni: troppo pochi «per poter ritenere di fatto efficace il relativo avviso».
Stranezze. Seguite da altre «stranezze», come l’immediata sparizione dalla manovra di una norma voluta dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti per ricondurre sotto il controllo della ragioneria generale dello Stato tutte le spese che fanno capo alla presidenza del Consiglio: una ventina di miliardi di euro l’anno. Fra queste, manco a farlo apposta, ci sono quelle della Protezione civile. Che continueranno quindi a essere svincolate dai controlli del Tesoro.
Né è stato possibile ripristinare una disposizione che aveva introdotto l’ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro: l’abolizione degli arbitrati. Perciò si andrà avanti con quella forma di giustizia privata, gestita in prima persona da magistrati amministrativi e contabili e alti funzionari pubblici lautamente retribuiti (oltre allo stipendio, s’intende) per tali prestazioni: dalla quale, nonostante ciò, lo Stato esce regolarmente a pezzi. Anche nel 2009 la pubblica amministrazione è risultata «soccombente » nel 94% dei 136 arbitrati cosiddetti «liberi», cioè dove gli arbitri sono scelti «liberamente» fra le parti. Per una spesa aggiuntiva di 414 milioni di euro. Siamo arrivati al punto che ogni due appalti di importo superiore a 15 milioni di euro scatta un arbitrato. E con questo sistema il costo delle opere pubbliche è lievitato mediamente del 18%.
Fonte: corriere.it
E la Corte dei conti contesta i fondi per la regata alla Maddalena
ROMA — Nel Paese (l’Italia) dove ci sono più di tredicimila «stazioni appaltanti», cioè soggetti con il potere di bandire gare per opere pubbliche, ce n’è una che le surclassa tutte. Si chiama Protezione civile. Volete sapere quanti soldi sono passati per le mani di Guido Bertolaso da quando, nel 2001, Silvio Berlusconi lo ha rimesso a capo del Dipartimento e gli ha dato pure le competenze sui grandi eventi? La bellezza di 12 miliardi 894 milioni 770.574 euro. E 38 centesimi: pure quelli ha contato l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nel suo ultimo rapporto. Sottolineando ancora una volta con la precisione delle cifre la gigantesca anomalia di una struttura con licenza di deroga alle procedure ordinarie: non soltanto per le calamità naturali, ma anche incomprensibilmente per la gestione di gare sportive, vertici internazionali, manifestazioni varie.
Illuminante è una relazione della Corte dei conti su una regata alla Maddalena svoltasi mesi (con solita ordinanza di Protezione civile) davanti ai luoghi del G8, pietra dello scandalo che sta travolgendo affaristi pubblici e privati. Costretto a ingoiare il rospo, il magistrato si è tolto comunque un sassolino dalla scarpa, giudicando ingiustificabile che per una competizione velica come la «Louis Vuitton world series» siano stati impiegati dipendenti pubblici e soldi sulla carta accantonati per le calamità. E su una cosa non ha voluto transigere, rifiutando il proprio visto di conformità: il fatto che al comitato organizzatore siano stati versati 2,3 milioni di denari pubblici. Prelevati anch’essi dallo stesso fondo per la protezione civile.
Come si è arrivati a spendere con procedure in deroga quasi 13 miliardi, cifra che sarebbe sufficiente a fare due ponti sullo stretto di Messina, è spiegato in dettaglio nel rapporto dell’authority presieduta da Luigi Giampaolino. Dove si racconta che le ordinanze di Bertolaso le quali implicano il ricorso all’appalto sono lievitate con un crescendo rossiniano: 28 nel 2001, 34 nel 2006, 49 nel 2009 (anche a causa del terremoto). Prendiamo la spazzatura in Campania: se dal 2001 al 2005 la Protezione civile aveva emanato in media un’ordinanza l’anno, nel 2007 si è passati a sette, poi a 11 nel 2008. Da brivido la cifra finale: l’importo destinato in soli nove anni all’emergenza rifiuti in quella Regione avrebbe ha raggiunto 3 miliardi 548 milioni 878.439 euro. Ben 613 euro per ogni cittadino campano.
Poi, fra quelle 302 ordinanze di Protezione civile emanate dal 2001 al 2009, ci sono i famosi Grandi eventi. Come i mondiali di nuoto dell’anno scorso, che hanno fatto scattare un’inchiesta giudiziaria e sui quali l’autorità di Giampaolino aveva già avuto qualcosa da ridire. Oppure come il G8 della Maddalena su cui indagano i giudici e per il quale sarebbe stata stanziata, anche se poi non effettivamente utilizzata, una somma sbalorditiva. Tenetevi forte: un miliardo, 6 milioni 415.139 euro e 68 centesimi. O, ancora, come le iniziative per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, altro capitolo che non ha mancato di interessare i magistrati e a proposito del quale la stessa authority ha sollevato una serie di questioni. Per esempio, che non siano state fornite indicazioni sulle procedure seguite per affidare incarichi a progettisti e collaudatori. Per esempio, che visti i tempi stretti si sia deciso di riconoscere alle imprese «premi di accelerazione» (?) non contemplati nelle gare. Per esempio, che fra avviso «di preinformazione » e pubblicazione dei bandi siano passati soli 14 giorni: troppo pochi «per poter ritenere di fatto efficace il relativo avviso».
Stranezze. Seguite da altre «stranezze», come l’immediata sparizione dalla manovra di una norma voluta dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti per ricondurre sotto il controllo della ragioneria generale dello Stato tutte le spese che fanno capo alla presidenza del Consiglio: una ventina di miliardi di euro l’anno. Fra queste, manco a farlo apposta, ci sono quelle della Protezione civile. Che continueranno quindi a essere svincolate dai controlli del Tesoro.
Né è stato possibile ripristinare una disposizione che aveva introdotto l’ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro: l’abolizione degli arbitrati. Perciò si andrà avanti con quella forma di giustizia privata, gestita in prima persona da magistrati amministrativi e contabili e alti funzionari pubblici lautamente retribuiti (oltre allo stipendio, s’intende) per tali prestazioni: dalla quale, nonostante ciò, lo Stato esce regolarmente a pezzi. Anche nel 2009 la pubblica amministrazione è risultata «soccombente » nel 94% dei 136 arbitrati cosiddetti «liberi», cioè dove gli arbitri sono scelti «liberamente» fra le parti. Per una spesa aggiuntiva di 414 milioni di euro. Siamo arrivati al punto che ogni due appalti di importo superiore a 15 milioni di euro scatta un arbitrato. E con questo sistema il costo delle opere pubbliche è lievitato mediamente del 18%.
Fonte: corriere.it
20 giu 2010
Inchiesta G8, il cardinale Sepe e Lunardi indagati per corruzione
Nelle operazioni sarebbero coinvolti Anemone e Balducci
Per l'alto prelato l'indagine riguarda la ristrutturazione e la vendita di immobili di Propaganda Fide nel 2005
PERUGIA - Il cardinale Crescenzio Sepe e l'ex ministro Pietro Lunardi sono indagati dalla Procura di Perugia nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta "cricca" che avrebbe lucrato sui Grandi eventi. Corruzione il reato contestato a entrambi. I loro nomi compaiono in due diversi tronconi dell'indagine. A entrambi sono stati notificati gli avvisi di garanzia emessi dai pm Alessia Tavarnesi e Sergio Sottani.
LE ACCUSE
Per il cardinale Sepe, arcivescovo di Napoli, l'indagine riguarda in particolare la ristrutturazione e la vendita di alcuni immobili di Propaganda Fide nel 2005. Operazioni nelle quali risulterebbe coinvolto il costruttore Diego Anemone, considerato personaggio centrale dell'inchiesta sui Grandi eventi. Il sospetto degli inquirenti perugini è che l'alto prelato abbia ricevuto in cambio dei favori. Anche per quanto riguarda Lunardi l'accusa fa riferimento alla ristrutturazione e alla vendita di un immobile. In entrambe le operazioni sarebbe coinvolto l'ex presidente del Consiglio dei lavori pubblici Angelo Balducci, tuttora detenuto nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta cricca degli appalti.
«CHIARIRÀ LA SUA POSIZIONE»
«Il cardinale aveva già dato la sua disponibilità a parlare con i magistrati di Perugia. Lo farà e chiarirà la sua posizione - afferma un'autorevole fonte vaticana -. Ha detto di essere sereno e auspichiamo che anche questa fase dell'inchiesta sia portata avanti in un clima altrettanto sereno». La notizia dell'avviso di garanzia ha scosso la curia di Napoli. A dieci anni esatti dalla conclusione dell'indagine che coinvolse il predecessore di Sepe, Michele Giordano, accusato di usura e poi assolto da ogni addebito, un altro arcivescovo di Napoli finisce in una inchiesta giudiziaria: da giorni si parlava di una sua testimonianza di fronte ai magistrati di Perugia per la vicenda dell'alloggio romano dato in uso a Bertolaso, ma nessuno si aspettava che i rapporti di Sepe con alcuni altri personaggi coinvolti nell'inchiesta potessero trasformare l'ex potentissimo "Papa rosso" in un indagato. «Il cardinale è fuori sede» dicono i suoi più stretti collaboratori, confermando la strategia del silenzio. No comment anche dal portavoce di largo Donnaregina, e nessuna conferma sulla possibilità, sempre più concreta, che il cardinale Sepe cancelli gli appuntamenti pubblici dei prossimi giorni (una celebrazione religiosa domenica pomeriggio per la Comunità di Sant'Egidio e la presentazione lunedì mattina di un progetto degli industriali per i minori a rischio).
STILE "POPOLARE"
Tra i sacerdoti napoletani la notizia è accolta con stupore e incredulità. Sperano che la vicenda giudiziaria possa avere comunque tempi brevi, in modo da far durare al minimo l'inevitabile tempesta mediatica e le sue ripercussioni sull'attività pastorale. Quella stessa attività pastorale che Sepe, dal luglio 2006 arcivescovo di Napoli, ha improntato a uno stile immediato e "popolare", come sintetizza la frase in dialetto diventata da quattro anni il suo slogan: «A Maronna v'accumpagna». Un cardinale che non disdegna di parlare in napoletano, che ha iniziato il suo ministero in diocesi da un quartiere-simbolo come Scampia e che ha inventato iniziative religiose di grande impatto mediatico, dalle aste annuali di beneficenza per progetti sociali al grande falò dei coltelli come segno contro la violenza, fino al pranzo di Natale per i poveri organizzato nei saloni dell'episcopio: la foto di Sepe che serve ai tavoli con tanto di grembiule sopra la veste talare è di quelle che colpiscono l'opinione pubblica. Nei suoi quattro anni di episcopato c'è stato spazio anche per accogliere Benedetto XVI, nell'ottobre 2007, per una giornata a Napoli caratterizzata da un pranzo ecumenico, con i capi di diverse confessioni seduti intorno allo stesso tavolo. Pagine di un episcopato che ora deve affrontare una fase difficile e inattesa.
LA CASA DI BERTOLASO
Il cardinale Sepe è stato chiamato in causa giorni fa dal capo della Protezione Civile Guido Bertolaso. Questi ha detto ai magistrati di Perugia che era stato lui a indirizzarlo nel 2003 al professor Francesco Silvano, collaboratore di Propaganda Fide, che poi gli mise a disposizione l'appartamento di via Giulia a Roma. Tre anni dopo, nel 2006, il cardinale, allora prefetto di Propaganda Fide, fu allontanato da Benedetto XVI alla scadenza del primo quinquennio: una cosa «inconsueta», si fa notare, visto che il predecessore era rimasto sedici anni e tutti gli altri prefetti del Novecento erano andati ben oltre il primo mandato, salvo un caso di morte prematura. I beni di Propaganda Fide, un patrimonio immenso (si stimano oltre 9 miliardi di euro) frutto di proprietà e donazioni secolari, sono gestiti in totale autonomia dalla Congregazione e servono a sostenere le terre di missione, Africa e Asia in testa: per questo il prefetto viene definito "Papa rosso".
IL CARDINALE SEPE
Sepe, 67 anni, dopo aver trascorso una vita nella diplomazia vaticana, è divenuto nel 1992 segretario della Congregazione per il clero. In questo ruolo ha cominciato a farsi conoscere come abile organizzatore di grandi eventi. Ha promosso, tra l'altro, gli incontri internazionali dei sacerdoti di tutto il mondo in preparazione al Giubileo del 2000 a Fatima e a Yamossoukro. In qualità di segretario della Congregazione per il clero, ha organizzato inoltre tutte le celebrazioni per i trent'anni della "Presbyterorum Ordinis" e per il cinquantesimo di sacerdozio di Giovanni Paolo II. Grazie a questi meriti, il 3 novembre 1997 è stato nominato segretario generale del Comitato e del Consiglio di presidenza del Giubileo del 2000. Ha dunque seguito in prima persona l'itinerario di preparazione all'Anno Santo, collaborando tra l'altro con Angelo Balducci e Guido Bertolaso, entrambi coinvolti - per parte italiana - nella preparazione del Giubileo. Il 9 aprile 2001 Giovanni Paolo II lo ha nominato prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, ex Propaganda Fide, il dicastero più ricco di tutta la Santa Sede. Poco dopo anche Balducci è diventato consultore della Congregazione.
L'EX MINISTRO LUNARDI
L'ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi è nato a Parma il 19 luglio 1939. Sposato con figli, laureato in ingegneria civile, è un esperto in materia di gallerie e sottosuolo. Professore di geotecnica del sottosuolo alla facoltà di Ingegneria dell'università di Parma e presidente della Società italiana gallerie (Sig), ha cominciato la sua esperienza nella Cogefar, per la quale ha seguito la progettazione e la realizzazione di importanti opere in Italia e nel mondo. Nel 1980 ha fondato una sua società di ingegneria, la Rocksoil. È stato diverse volte consulente del governo come "consigliere per i problemi della conservazione del suolo e grandi infrastrutture", membro della Commissione per la Valtellina, della Commissione grandi rischi della Protezione civile, consulente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, membro della commissione di super esperti nominata per valutare i danni provocati nel 1999 dall'incendio nel tunnel del monte Bianco, consulente della società Autostrade per il tunnel della variante di Valico.
GRANDI OPERE
Nel 2001, alla formazione del governo Berlusconi bis, diventa ministro per le Infrastrutture e i trasporti ed è il firmatario della legge Lunardi sulle Grandi opere. A lui è legata anche l'introduzione nel luglio 2003 della patente a punti. È stato tra i progettisti del traforo del monte Bianco e di quello del Frejus, ha realizzato tratti di metropolitane a Lione e Marsiglia, a Singapore e a Canton e anche a Roma, nel periodo dell'amministrazione Rutelli. Ha coordinato il programma delle grandi opere per la Casa delle Libertà. Alle elezioni politiche del 2006, Lunardi viene eletto per la prima volta in Parlamento, come senatore per Forza Italia nella regione Emilia-Romagna. Nell'inchiesta G8 spunta il suo nome dopo quello del ministro Scajola: secondo un testimone sarebbe stato il beneficiario di un'altra operazione targata Diego Anemone per la compravendita di un immobile di pregio.
Fonte: corriere.it
Per l'alto prelato l'indagine riguarda la ristrutturazione e la vendita di immobili di Propaganda Fide nel 2005
PERUGIA - Il cardinale Crescenzio Sepe e l'ex ministro Pietro Lunardi sono indagati dalla Procura di Perugia nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta "cricca" che avrebbe lucrato sui Grandi eventi. Corruzione il reato contestato a entrambi. I loro nomi compaiono in due diversi tronconi dell'indagine. A entrambi sono stati notificati gli avvisi di garanzia emessi dai pm Alessia Tavarnesi e Sergio Sottani.
LE ACCUSE
Per il cardinale Sepe, arcivescovo di Napoli, l'indagine riguarda in particolare la ristrutturazione e la vendita di alcuni immobili di Propaganda Fide nel 2005. Operazioni nelle quali risulterebbe coinvolto il costruttore Diego Anemone, considerato personaggio centrale dell'inchiesta sui Grandi eventi. Il sospetto degli inquirenti perugini è che l'alto prelato abbia ricevuto in cambio dei favori. Anche per quanto riguarda Lunardi l'accusa fa riferimento alla ristrutturazione e alla vendita di un immobile. In entrambe le operazioni sarebbe coinvolto l'ex presidente del Consiglio dei lavori pubblici Angelo Balducci, tuttora detenuto nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta cricca degli appalti.
«CHIARIRÀ LA SUA POSIZIONE»
«Il cardinale aveva già dato la sua disponibilità a parlare con i magistrati di Perugia. Lo farà e chiarirà la sua posizione - afferma un'autorevole fonte vaticana -. Ha detto di essere sereno e auspichiamo che anche questa fase dell'inchiesta sia portata avanti in un clima altrettanto sereno». La notizia dell'avviso di garanzia ha scosso la curia di Napoli. A dieci anni esatti dalla conclusione dell'indagine che coinvolse il predecessore di Sepe, Michele Giordano, accusato di usura e poi assolto da ogni addebito, un altro arcivescovo di Napoli finisce in una inchiesta giudiziaria: da giorni si parlava di una sua testimonianza di fronte ai magistrati di Perugia per la vicenda dell'alloggio romano dato in uso a Bertolaso, ma nessuno si aspettava che i rapporti di Sepe con alcuni altri personaggi coinvolti nell'inchiesta potessero trasformare l'ex potentissimo "Papa rosso" in un indagato. «Il cardinale è fuori sede» dicono i suoi più stretti collaboratori, confermando la strategia del silenzio. No comment anche dal portavoce di largo Donnaregina, e nessuna conferma sulla possibilità, sempre più concreta, che il cardinale Sepe cancelli gli appuntamenti pubblici dei prossimi giorni (una celebrazione religiosa domenica pomeriggio per la Comunità di Sant'Egidio e la presentazione lunedì mattina di un progetto degli industriali per i minori a rischio).
STILE "POPOLARE"
Tra i sacerdoti napoletani la notizia è accolta con stupore e incredulità. Sperano che la vicenda giudiziaria possa avere comunque tempi brevi, in modo da far durare al minimo l'inevitabile tempesta mediatica e le sue ripercussioni sull'attività pastorale. Quella stessa attività pastorale che Sepe, dal luglio 2006 arcivescovo di Napoli, ha improntato a uno stile immediato e "popolare", come sintetizza la frase in dialetto diventata da quattro anni il suo slogan: «A Maronna v'accumpagna». Un cardinale che non disdegna di parlare in napoletano, che ha iniziato il suo ministero in diocesi da un quartiere-simbolo come Scampia e che ha inventato iniziative religiose di grande impatto mediatico, dalle aste annuali di beneficenza per progetti sociali al grande falò dei coltelli come segno contro la violenza, fino al pranzo di Natale per i poveri organizzato nei saloni dell'episcopio: la foto di Sepe che serve ai tavoli con tanto di grembiule sopra la veste talare è di quelle che colpiscono l'opinione pubblica. Nei suoi quattro anni di episcopato c'è stato spazio anche per accogliere Benedetto XVI, nell'ottobre 2007, per una giornata a Napoli caratterizzata da un pranzo ecumenico, con i capi di diverse confessioni seduti intorno allo stesso tavolo. Pagine di un episcopato che ora deve affrontare una fase difficile e inattesa.
LA CASA DI BERTOLASO
Il cardinale Sepe è stato chiamato in causa giorni fa dal capo della Protezione Civile Guido Bertolaso. Questi ha detto ai magistrati di Perugia che era stato lui a indirizzarlo nel 2003 al professor Francesco Silvano, collaboratore di Propaganda Fide, che poi gli mise a disposizione l'appartamento di via Giulia a Roma. Tre anni dopo, nel 2006, il cardinale, allora prefetto di Propaganda Fide, fu allontanato da Benedetto XVI alla scadenza del primo quinquennio: una cosa «inconsueta», si fa notare, visto che il predecessore era rimasto sedici anni e tutti gli altri prefetti del Novecento erano andati ben oltre il primo mandato, salvo un caso di morte prematura. I beni di Propaganda Fide, un patrimonio immenso (si stimano oltre 9 miliardi di euro) frutto di proprietà e donazioni secolari, sono gestiti in totale autonomia dalla Congregazione e servono a sostenere le terre di missione, Africa e Asia in testa: per questo il prefetto viene definito "Papa rosso".
IL CARDINALE SEPE
Sepe, 67 anni, dopo aver trascorso una vita nella diplomazia vaticana, è divenuto nel 1992 segretario della Congregazione per il clero. In questo ruolo ha cominciato a farsi conoscere come abile organizzatore di grandi eventi. Ha promosso, tra l'altro, gli incontri internazionali dei sacerdoti di tutto il mondo in preparazione al Giubileo del 2000 a Fatima e a Yamossoukro. In qualità di segretario della Congregazione per il clero, ha organizzato inoltre tutte le celebrazioni per i trent'anni della "Presbyterorum Ordinis" e per il cinquantesimo di sacerdozio di Giovanni Paolo II. Grazie a questi meriti, il 3 novembre 1997 è stato nominato segretario generale del Comitato e del Consiglio di presidenza del Giubileo del 2000. Ha dunque seguito in prima persona l'itinerario di preparazione all'Anno Santo, collaborando tra l'altro con Angelo Balducci e Guido Bertolaso, entrambi coinvolti - per parte italiana - nella preparazione del Giubileo. Il 9 aprile 2001 Giovanni Paolo II lo ha nominato prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, ex Propaganda Fide, il dicastero più ricco di tutta la Santa Sede. Poco dopo anche Balducci è diventato consultore della Congregazione.
L'EX MINISTRO LUNARDI
L'ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi è nato a Parma il 19 luglio 1939. Sposato con figli, laureato in ingegneria civile, è un esperto in materia di gallerie e sottosuolo. Professore di geotecnica del sottosuolo alla facoltà di Ingegneria dell'università di Parma e presidente della Società italiana gallerie (Sig), ha cominciato la sua esperienza nella Cogefar, per la quale ha seguito la progettazione e la realizzazione di importanti opere in Italia e nel mondo. Nel 1980 ha fondato una sua società di ingegneria, la Rocksoil. È stato diverse volte consulente del governo come "consigliere per i problemi della conservazione del suolo e grandi infrastrutture", membro della Commissione per la Valtellina, della Commissione grandi rischi della Protezione civile, consulente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, membro della commissione di super esperti nominata per valutare i danni provocati nel 1999 dall'incendio nel tunnel del monte Bianco, consulente della società Autostrade per il tunnel della variante di Valico.
GRANDI OPERE
Nel 2001, alla formazione del governo Berlusconi bis, diventa ministro per le Infrastrutture e i trasporti ed è il firmatario della legge Lunardi sulle Grandi opere. A lui è legata anche l'introduzione nel luglio 2003 della patente a punti. È stato tra i progettisti del traforo del monte Bianco e di quello del Frejus, ha realizzato tratti di metropolitane a Lione e Marsiglia, a Singapore e a Canton e anche a Roma, nel periodo dell'amministrazione Rutelli. Ha coordinato il programma delle grandi opere per la Casa delle Libertà. Alle elezioni politiche del 2006, Lunardi viene eletto per la prima volta in Parlamento, come senatore per Forza Italia nella regione Emilia-Romagna. Nell'inchiesta G8 spunta il suo nome dopo quello del ministro Scajola: secondo un testimone sarebbe stato il beneficiario di un'altra operazione targata Diego Anemone per la compravendita di un immobile di pregio.
Fonte: corriere.it
18 giu 2010
Gianluca del Gf vuole portare il cane sul Freccia Rossa: spinte e sputi al capotreno. La rabbia dei viaggiatori.
L'animale era senza gabbia protettiva. Il convoglio parte con 20 minuti di ritardo.
NAPOLI — Insulti, minacce e uno sputo in pieno volto contro un capotreno del Freccia Rossa diretto a Milano. A rendersi protagonista dell’aggressione, ieri mattina alle 7 e 30 nella stazione centrale di Napoli, è stato l’ex playboy napoletano-americano del Grande Fratello 2009 Gianluca Zito. La furia dell’ex "gieffino" si è scatenata quando il controllore, durante le fasi filtraggio dei passeggeri, gli ha segnalato che, regolamento alla mano, non poteva portare il suo cane sul convoglio senza la gabbietta d’ordinanza. A quel punto è nato l’alterco che ha ricordato quella stessa veemenza esibizionista dimostrata ai tempi del Reality show.
Secondo Zito, il ferroviere avrebbe usato le maniere forti «bloccandolo per un braccio e strattonando con le mani il guinzaglio del cane». Ed è stato proprio in quell’istante che è partito lo sputo in pieno viso davanti a decine di passeggeri sbigottiti. Non contento, Gianluca è salito repentinamente sulla sua carrozza, accompagnato da un’amica, prima di essere raggiunto dagli agenti della Polizia ferroviaria. In quel momento è iniziata una vera e propria bagarre. Un capannello di persone si è accalcato nella carrozza numero sette dove Zito si era intanto sistemato, rifiutandosi di scendere e di seguire i poliziotti.
Intanto il tira e molla ha fatto salire la tensione, soprattutto tra i pendolari diretti a Roma per lavoro, poiché il Freccia Rossa aveva già accumulato 15 minuti di ritardo. «Buffone, non sei al Grande Fratello!», «Vai a lavorare!», «Vuoi solo farti notare!» sono solo alcune delle frasi gridate dalla folla spazientita per il ritardo della partenza. A rendere il clima ancora più incandescente è stata l’ostentazione dello status di vip da parte di chi si vantava di essere uno sciupa femmine con Alessia Marcuzzi, la conduttrice dello scorso Gf. A quelli infuriati si sono aggiunti anche i curiosi, a cui è stato impedito di fotografare e filmare con i telefoni cellulari. Dopo quasi mezz’ora e solo dopo l’identificazione, Gianluca Zito si è deciso a scendere dal treno con i cani al seguito, ma non ha perso tempo per inveire ancora contro il capotreno, lasciandosi andare a improperi e minacce verbali. Ci sono voluti ben quattro poliziotti per riportarlo alla calma e l’opera di persuasione di alcuni viaggiatori L’episodio che ha coinvolto il personaggio televisivo in questione, però, è rivelatore di un fenomeno che sta diventando frequente proprio sulla tratta dell’Alta velocità Napoli-Roma. Non sono pochi, infatti, i battibecchi tra il personale di Trenitalia, quello della sala ristornate e i viaggiatori. Infatti, lo stesso capostazione aggredito ieri, originario della provincia di Napoli, si è reso più volte protagonista di diverbi più o meno accesi soprattutto nei confronti dei pendolari. «Oggi questo controllore - afferma Livia, pendolare da 2 anni - ha subito un’aggressione, ma è anche colui che spesso si rivolge in maniera arrogante contro persone che pagano un abbonamento mensile di 350 euro. In alcuni casi ha chiamato la Polfer solo per impedirci di transitare in prima classe. Mi chiedo come mai, però, quando il Freccia Rossa è sovraffollato per ritardi o disservizi il personale di bordo consente alle persone di sedersi a terra contro ogni norma di sicurezza». Ma non sono questi i problemi che riguardano il playboy palestrato mezzo napoletano e mezzo americano. Per lui, forse, si è trattato di un remake dei suoi show televisivi. Non si è reso conto che il Grande Fratello è terminato da un pezzo.
Fonte: corriere.it
NAPOLI — Insulti, minacce e uno sputo in pieno volto contro un capotreno del Freccia Rossa diretto a Milano. A rendersi protagonista dell’aggressione, ieri mattina alle 7 e 30 nella stazione centrale di Napoli, è stato l’ex playboy napoletano-americano del Grande Fratello 2009 Gianluca Zito. La furia dell’ex "gieffino" si è scatenata quando il controllore, durante le fasi filtraggio dei passeggeri, gli ha segnalato che, regolamento alla mano, non poteva portare il suo cane sul convoglio senza la gabbietta d’ordinanza. A quel punto è nato l’alterco che ha ricordato quella stessa veemenza esibizionista dimostrata ai tempi del Reality show.
Secondo Zito, il ferroviere avrebbe usato le maniere forti «bloccandolo per un braccio e strattonando con le mani il guinzaglio del cane». Ed è stato proprio in quell’istante che è partito lo sputo in pieno viso davanti a decine di passeggeri sbigottiti. Non contento, Gianluca è salito repentinamente sulla sua carrozza, accompagnato da un’amica, prima di essere raggiunto dagli agenti della Polizia ferroviaria. In quel momento è iniziata una vera e propria bagarre. Un capannello di persone si è accalcato nella carrozza numero sette dove Zito si era intanto sistemato, rifiutandosi di scendere e di seguire i poliziotti.
Intanto il tira e molla ha fatto salire la tensione, soprattutto tra i pendolari diretti a Roma per lavoro, poiché il Freccia Rossa aveva già accumulato 15 minuti di ritardo. «Buffone, non sei al Grande Fratello!», «Vai a lavorare!», «Vuoi solo farti notare!» sono solo alcune delle frasi gridate dalla folla spazientita per il ritardo della partenza. A rendere il clima ancora più incandescente è stata l’ostentazione dello status di vip da parte di chi si vantava di essere uno sciupa femmine con Alessia Marcuzzi, la conduttrice dello scorso Gf. A quelli infuriati si sono aggiunti anche i curiosi, a cui è stato impedito di fotografare e filmare con i telefoni cellulari. Dopo quasi mezz’ora e solo dopo l’identificazione, Gianluca Zito si è deciso a scendere dal treno con i cani al seguito, ma non ha perso tempo per inveire ancora contro il capotreno, lasciandosi andare a improperi e minacce verbali. Ci sono voluti ben quattro poliziotti per riportarlo alla calma e l’opera di persuasione di alcuni viaggiatori L’episodio che ha coinvolto il personaggio televisivo in questione, però, è rivelatore di un fenomeno che sta diventando frequente proprio sulla tratta dell’Alta velocità Napoli-Roma. Non sono pochi, infatti, i battibecchi tra il personale di Trenitalia, quello della sala ristornate e i viaggiatori. Infatti, lo stesso capostazione aggredito ieri, originario della provincia di Napoli, si è reso più volte protagonista di diverbi più o meno accesi soprattutto nei confronti dei pendolari. «Oggi questo controllore - afferma Livia, pendolare da 2 anni - ha subito un’aggressione, ma è anche colui che spesso si rivolge in maniera arrogante contro persone che pagano un abbonamento mensile di 350 euro. In alcuni casi ha chiamato la Polfer solo per impedirci di transitare in prima classe. Mi chiedo come mai, però, quando il Freccia Rossa è sovraffollato per ritardi o disservizi il personale di bordo consente alle persone di sedersi a terra contro ogni norma di sicurezza». Ma non sono questi i problemi che riguardano il playboy palestrato mezzo napoletano e mezzo americano. Per lui, forse, si è trattato di un remake dei suoi show televisivi. Non si è reso conto che il Grande Fratello è terminato da un pezzo.
Fonte: corriere.it
La mogli inserite nel sistema illegale di appalti e favori
Stop al primo processo per corruzione
FIRENZE — La decisione di non decidere fa tutti contenti. Accusa e difesa, che per quattro ore se le sono suonate con cordialità e determinazione, accolgono con un sospiro di sollievo la scelta del presidente del Collegio Emma Boncompagni, che rinvia il processo al 6 luglio, ritenendo necessario aspettare le motivazioni della sentenza della Cassazione, che lo scorso 11 giugno ha stabilito che gli atti dell'inchiesta sulla Scuola Marescialli di Firenze dovessero essere inviati a Roma. Per Fabio De Santis non cambia nulla. L'udienza si è aperta con l'annuncio che l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane resta in carcere. Lo ha deciso il Tribune del Riesame, con motivazioni molto pesanti. Scrive il giudice che De Santis ha mantenuto un atteggiamento «di totale chiusura» nei confronti delle ipotesi accusatorie, a dimostrazione dell'«evidente carenza di percezione della antigiuridicità del proprio comportamento», suo e degli altri, tutti personaggi che hanno «legami profondi con soggetti di livello istituzionale molto elevato».
Questa mancata «percezione della propria condotta» da parte di tutti gli indagati emergerebbe anche dal coinvolgimento dei familiari. «E in particolare delle mogli, ben inserite nel sistema, di cui conoscono i dettagli e se ne avvantaggiano in modo palese, anche se non con ruoli penalmente rilevanti». Il primo processo per corruzione alla presunta «cricca», procede a piccoli passi e con sorte sempre più incerta. L'ingorgo che si è creato con il verdetto della Suprema Corte, che si è pronunciata sull'ordinanza di custodia cautelare emessa a fine marzo nei confronti di Angelo Balducci, Fabio De Santis e Guido Cerruti, ritenendola valida ma fissando la competenza a Roma mentre intanto c'è un dibattimento in corso a Firenze, deve ancora trovare una soluzione. Ieri i pubblici ministeri toscani hanno sostenuto le loro ragioni, dicendo di essersi sempre ritenuta competente a livello territoriale. Ovviamente di tutt'altro avviso i difensori degli imputati. Il confronto è stato aspro ed è girato intorno a una sola data, un solo episodio. È la sera del 18 febbraio 2008. L'imprenditore Riccardo Fusi, patron della Baldassini Tognozzi Pontello, si incontra all'Una Hotel di Firenze con l'imprenditore Francesco De Vito Piscicelli e suo cognato, Pierfrancesco Gagliardi. Nella memoria depositata ieri dai pubblici ministeri si legge questo: «Piscicelli, supportato da Gagliardi, propone a Fusi di concludere un patto corruttivo che prevede la messa a disposizione dei funzionari ministeriali in favore della "Baldassini Tognozzi Pontello".
In particolare, Piscicelli affronta, con il Fusi, la tematica del pagamento di una somma di denaro in favore dei funzionari ministeriali Balducci e De Santis». Si tratta del «momento genetico» di una corruzione continuata, e per questo la competenza di tutta l'inchiesta si radicherebbe a Firenze. Roberto Borgogno, difensore di Balducci, ha contestato questa versione dei fatti, ironizzando sul fatto che l'incontro fiorentino sia l'unico tra i tanti, tutti avvenuti a Roma, che «non vide tra i protagonisti i pubblici ufficiali» indagati nell'inchiesta. «Sarebbe il primo caso» ha detto «di corruzione per rappresentanza». Il discrimine è sottile, questione di interpretazioni, anche delle parole. E quella delle intercettazioni che ricostruiscono l'incontro di Firenze non è univoca, anzi, la lettura che ne danno accusa e difesa è diametralmente opposta. Proprio per questo possono assumere un certo rilievo le dichiarazioni di Gagliardi, successive all'ordinanza sulla quale si è espressa la Cassazione. Interrogato lo scorso 21 maggio dai pm, il cognato di Piscicelli ammette che qualcosa, quella sera a Firenze, è davvero avvenuto, citando un «accordo verbale» nel quale sarebbero stati fissati i parametri della «gratitudine» di Fusi per i servigi resi da Piscicelli. Il 6 luglio si saprà.
Fonte: corriere.it
FIRENZE — La decisione di non decidere fa tutti contenti. Accusa e difesa, che per quattro ore se le sono suonate con cordialità e determinazione, accolgono con un sospiro di sollievo la scelta del presidente del Collegio Emma Boncompagni, che rinvia il processo al 6 luglio, ritenendo necessario aspettare le motivazioni della sentenza della Cassazione, che lo scorso 11 giugno ha stabilito che gli atti dell'inchiesta sulla Scuola Marescialli di Firenze dovessero essere inviati a Roma. Per Fabio De Santis non cambia nulla. L'udienza si è aperta con l'annuncio che l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane resta in carcere. Lo ha deciso il Tribune del Riesame, con motivazioni molto pesanti. Scrive il giudice che De Santis ha mantenuto un atteggiamento «di totale chiusura» nei confronti delle ipotesi accusatorie, a dimostrazione dell'«evidente carenza di percezione della antigiuridicità del proprio comportamento», suo e degli altri, tutti personaggi che hanno «legami profondi con soggetti di livello istituzionale molto elevato».
Questa mancata «percezione della propria condotta» da parte di tutti gli indagati emergerebbe anche dal coinvolgimento dei familiari. «E in particolare delle mogli, ben inserite nel sistema, di cui conoscono i dettagli e se ne avvantaggiano in modo palese, anche se non con ruoli penalmente rilevanti». Il primo processo per corruzione alla presunta «cricca», procede a piccoli passi e con sorte sempre più incerta. L'ingorgo che si è creato con il verdetto della Suprema Corte, che si è pronunciata sull'ordinanza di custodia cautelare emessa a fine marzo nei confronti di Angelo Balducci, Fabio De Santis e Guido Cerruti, ritenendola valida ma fissando la competenza a Roma mentre intanto c'è un dibattimento in corso a Firenze, deve ancora trovare una soluzione. Ieri i pubblici ministeri toscani hanno sostenuto le loro ragioni, dicendo di essersi sempre ritenuta competente a livello territoriale. Ovviamente di tutt'altro avviso i difensori degli imputati. Il confronto è stato aspro ed è girato intorno a una sola data, un solo episodio. È la sera del 18 febbraio 2008. L'imprenditore Riccardo Fusi, patron della Baldassini Tognozzi Pontello, si incontra all'Una Hotel di Firenze con l'imprenditore Francesco De Vito Piscicelli e suo cognato, Pierfrancesco Gagliardi. Nella memoria depositata ieri dai pubblici ministeri si legge questo: «Piscicelli, supportato da Gagliardi, propone a Fusi di concludere un patto corruttivo che prevede la messa a disposizione dei funzionari ministeriali in favore della "Baldassini Tognozzi Pontello".
In particolare, Piscicelli affronta, con il Fusi, la tematica del pagamento di una somma di denaro in favore dei funzionari ministeriali Balducci e De Santis». Si tratta del «momento genetico» di una corruzione continuata, e per questo la competenza di tutta l'inchiesta si radicherebbe a Firenze. Roberto Borgogno, difensore di Balducci, ha contestato questa versione dei fatti, ironizzando sul fatto che l'incontro fiorentino sia l'unico tra i tanti, tutti avvenuti a Roma, che «non vide tra i protagonisti i pubblici ufficiali» indagati nell'inchiesta. «Sarebbe il primo caso» ha detto «di corruzione per rappresentanza». Il discrimine è sottile, questione di interpretazioni, anche delle parole. E quella delle intercettazioni che ricostruiscono l'incontro di Firenze non è univoca, anzi, la lettura che ne danno accusa e difesa è diametralmente opposta. Proprio per questo possono assumere un certo rilievo le dichiarazioni di Gagliardi, successive all'ordinanza sulla quale si è espressa la Cassazione. Interrogato lo scorso 21 maggio dai pm, il cognato di Piscicelli ammette che qualcosa, quella sera a Firenze, è davvero avvenuto, citando un «accordo verbale» nel quale sarebbero stati fissati i parametri della «gratitudine» di Fusi per i servigi resi da Piscicelli. Il 6 luglio si saprà.
Fonte: corriere.it
13 giu 2010
Il giro di regali della «cricca» vale un milione di euro. "Matteoli chiese a Balducci di nominare commissari incompetenti"
Le carte - Stima del Ros su viaggi, orologi, prestazioni sessuali e ristrutturazioni
FIRENZE — Al netto dei decimali, e arrotondando per difetto, la cifra è di un milione tondo tondo. A tanto ammonterebbe l’importo dei regali fatti e ricevuti dalla presunta «cricca ». In un allegato dell’informativa che cerca riscontri a intercettazioni telefoniche e pedinamenti, i carabinieri del Ros fanno una stima dell’indotto generato in nome e per conto di Angelo Balducci e Diego Anemone. Non fanno valutazioni, si limitano a far di conto tra prostitute, assunzioni fittizie o immotivate, ristrutturazioni di case, orologi e viaggi-vacanza. Il risultato è una cifra a sei zeri, importo tale da fornire legna al fuoco dei pubblici ministeri, convinti che queste spese siano in realtà tangenti mascherate.
Omaggi
Il catalogo, supportato da ricevute e scontrini, propone qualche novità. Una delle signorine messe a disposizione di Fabio De Santis, provveditore alle Opere Pubbliche toscane, in realtà è una cassiera del Salaria Village, centro benessere ormai celebre. La fattura emessa dall’hotel Fenix di Roma è intestata alla ragazza. Se il sesso è una voce minore delle regalie, i posti di lavoro assegnati occupano invece un capitolo importante. La Cobar, impresa che in consorzio con una società di Anemone si aggiudica i lavori per il teatro San Carlo di Napoli e il restauro del museo di Reggio Calabria, appaltato nell’ambito delle Celebrazioni del 150˚ anniversario dell’Unità d’Italia, dal dicembre 2009 assume Valentina Sciarra, figlia di Maria Pia Pallavicini, direttore dell’Edilizia statale al ministero delle Infrastrutture. Il contratto di assunzione prevede come sede di lavoro Altamura, quartier generale della Cobar. Pur stipendiata da un privato, Valentina continua a lavorare negli uffici della Ferratella, alle dipendenze di Mauro Della Giovampaola, ex soggetto attuatore del G8 della Maddalena, arrestato il 10 febbraio. Alla voce cene si è scritto di tutto. Risulta inedita quella celebrata lo scorso 20 novembre al Bolognese, ristorante romano. A tavola, accanto ad Angelo Balducci c’erano gli immancabili De Santis, Della Giovampaola e Francesco Piscicelli. Quest’ultimo si occupa della prenotazione, per 16, e di saldare il conto, 1.870 euro in contanti. Prezzi impegnativi anche per la cena dell’11 luglio 2009 al Four Seasons di Firenze. Sala riservata e sette tavoli, per celebrare la nomina di Fabio De Santis. Totale: 22 mila euro.
Matteoli
Dopo le rivelazioni sul pranzo all’Harry’s bar di Roma in compagnia di Denis Verdini e dell’imprenditore Fusi, toscani come lui, e di un suo funzionario, il ministro per le Infrastrutture commenta così un suo possibile coinvolgimento nell’inchiesta sulle Grandi opere. «Sono sereno — dice Matteoli — non ho ricevuto un avviso di garanzia. Ho completa fiducia nella magistratura, e il fatto che io riceva qualcuno alla presenza di un funzionario è il mio modo di lavorare. Quando viene un imprenditore non lo ricevo mai da solo ma alla presenza di collaboratori».
Incompetenti
La procura fiorentina è convinta che tutto l’appalto della Scuola Marescialli sia stato truccato a spese dei contribuenti. A sostegno di questa impostazione gioca la deposizione resa dal professor Remo Calzona, che stilò il progetto strutturale dell’opera. Il 12 aprile scorso, i magistrati gli chiedono della Commissione ministeriale che nel 2009 viene incaricata di trovare una soluzione allo stallo del cantiere. «Il ministro (Matteoli, ndr) chiama Balducci perché nomini una commissione di tre persone incompetenti, lo dimostro perché... incompetenti a dare un parere sulla resistenza sismica di questi edifici. Loro girano, si arrampicano e compagnia bella, ma non riescono a dimostrare veramente nulla». La commissione è incaricata di esprimere un parere sul coefficiente sismico adatto dell’edificio, che dovrebbe essere la leva per estromettere l’azienda Astaldi titolare dei lavori e ridare il cantiere alla Baldassini Tognozzi Pontello di Riccardo Fusi. I componenti erano De Santis, Sergio Albanesi e Andrea Ferrante, che alla fine proporranno la sospensione temporanea dei lavori, propedeutica alla restituzione dell’appalto a Btp. Dice Calzone: «Ferrante è un povero funzionario amministrativo... De Santis è un miracolato, Albanesi è abilissimo nell’ambito delle procedure amministrative ma non in queste cose». Calzona definisce così l’operato della commissione: «Alla fine se ne esce con affermazioni incredibili, non vere».
Fonte: corriere.it
FIRENZE — Al netto dei decimali, e arrotondando per difetto, la cifra è di un milione tondo tondo. A tanto ammonterebbe l’importo dei regali fatti e ricevuti dalla presunta «cricca ». In un allegato dell’informativa che cerca riscontri a intercettazioni telefoniche e pedinamenti, i carabinieri del Ros fanno una stima dell’indotto generato in nome e per conto di Angelo Balducci e Diego Anemone. Non fanno valutazioni, si limitano a far di conto tra prostitute, assunzioni fittizie o immotivate, ristrutturazioni di case, orologi e viaggi-vacanza. Il risultato è una cifra a sei zeri, importo tale da fornire legna al fuoco dei pubblici ministeri, convinti che queste spese siano in realtà tangenti mascherate.
Omaggi
Il catalogo, supportato da ricevute e scontrini, propone qualche novità. Una delle signorine messe a disposizione di Fabio De Santis, provveditore alle Opere Pubbliche toscane, in realtà è una cassiera del Salaria Village, centro benessere ormai celebre. La fattura emessa dall’hotel Fenix di Roma è intestata alla ragazza. Se il sesso è una voce minore delle regalie, i posti di lavoro assegnati occupano invece un capitolo importante. La Cobar, impresa che in consorzio con una società di Anemone si aggiudica i lavori per il teatro San Carlo di Napoli e il restauro del museo di Reggio Calabria, appaltato nell’ambito delle Celebrazioni del 150˚ anniversario dell’Unità d’Italia, dal dicembre 2009 assume Valentina Sciarra, figlia di Maria Pia Pallavicini, direttore dell’Edilizia statale al ministero delle Infrastrutture. Il contratto di assunzione prevede come sede di lavoro Altamura, quartier generale della Cobar. Pur stipendiata da un privato, Valentina continua a lavorare negli uffici della Ferratella, alle dipendenze di Mauro Della Giovampaola, ex soggetto attuatore del G8 della Maddalena, arrestato il 10 febbraio. Alla voce cene si è scritto di tutto. Risulta inedita quella celebrata lo scorso 20 novembre al Bolognese, ristorante romano. A tavola, accanto ad Angelo Balducci c’erano gli immancabili De Santis, Della Giovampaola e Francesco Piscicelli. Quest’ultimo si occupa della prenotazione, per 16, e di saldare il conto, 1.870 euro in contanti. Prezzi impegnativi anche per la cena dell’11 luglio 2009 al Four Seasons di Firenze. Sala riservata e sette tavoli, per celebrare la nomina di Fabio De Santis. Totale: 22 mila euro.
Matteoli
Dopo le rivelazioni sul pranzo all’Harry’s bar di Roma in compagnia di Denis Verdini e dell’imprenditore Fusi, toscani come lui, e di un suo funzionario, il ministro per le Infrastrutture commenta così un suo possibile coinvolgimento nell’inchiesta sulle Grandi opere. «Sono sereno — dice Matteoli — non ho ricevuto un avviso di garanzia. Ho completa fiducia nella magistratura, e il fatto che io riceva qualcuno alla presenza di un funzionario è il mio modo di lavorare. Quando viene un imprenditore non lo ricevo mai da solo ma alla presenza di collaboratori».
Incompetenti
La procura fiorentina è convinta che tutto l’appalto della Scuola Marescialli sia stato truccato a spese dei contribuenti. A sostegno di questa impostazione gioca la deposizione resa dal professor Remo Calzona, che stilò il progetto strutturale dell’opera. Il 12 aprile scorso, i magistrati gli chiedono della Commissione ministeriale che nel 2009 viene incaricata di trovare una soluzione allo stallo del cantiere. «Il ministro (Matteoli, ndr) chiama Balducci perché nomini una commissione di tre persone incompetenti, lo dimostro perché... incompetenti a dare un parere sulla resistenza sismica di questi edifici. Loro girano, si arrampicano e compagnia bella, ma non riescono a dimostrare veramente nulla». La commissione è incaricata di esprimere un parere sul coefficiente sismico adatto dell’edificio, che dovrebbe essere la leva per estromettere l’azienda Astaldi titolare dei lavori e ridare il cantiere alla Baldassini Tognozzi Pontello di Riccardo Fusi. I componenti erano De Santis, Sergio Albanesi e Andrea Ferrante, che alla fine proporranno la sospensione temporanea dei lavori, propedeutica alla restituzione dell’appalto a Btp. Dice Calzone: «Ferrante è un povero funzionario amministrativo... De Santis è un miracolato, Albanesi è abilissimo nell’ambito delle procedure amministrative ma non in queste cose». Calzona definisce così l’operato della commissione: «Alla fine se ne esce con affermazioni incredibili, non vere».
Fonte: corriere.it
12 giu 2010
"Tutti all’Harry's Bar per discutere l'appalto".
Il racconto di un funzionario. «Una nota riservata da Matteoli a Fusi»
FIRENZE — La piccola West Point toscana era solo un inizio. Leggendo le nuove carte depositate dai magistrati fiorentini sulla Scuola Marescialli si capisce che secondo loro quell'appalto— considerato pilotato dall'inizio alla fine— era il grimaldello che stava portando la procura nel complesso mondo del ministero delle Infrastrutture. Gli atti integrativi di indagine, circa 3.000 pagine, sono divisi in due parti. La prima cerca di cementare le accuse già note ad Angelo Balducci e Fabio De Santis con riscontri e ammissioni. La seconda vuole dimostrare come nessuna fase di quell'appalto, spalmato in un arco temporale che va dal 2001 al 2009, sia stata fatta nell'interesse pubblico.
IL RAPPORTO
Lo scorso 7 giugno i carabinieri del Ros di Firenze depositano una ponderosa informativa nella quale elencano le «prove documentali» ovvero i riscontri a quanto desunto dalle intercettazioni. Si tratta di un lavoro certosino che va dalle ricevute e le foto degli orologi che Francesco Piscicelli e il patron della Btp Riccardo Fusi regalano sotto Natale a Fabio De Santis, un Audemars Piquet acciaio da 4.270 euro e un Chopard da 4.063 euro, fino a un verbale di gara relativo a una gara d'appalto per il G8 della Maddalena nel quale Fusi formula un'offerta assolutamente identica a quella che gli suggerisce — «dettare» è il verbo usato dai carabinieri— Piscicelli, l'intermediario di Angelo Balducci. Nelle nuove carte vi sono testimonianze considerate fondamentali, come quella di Claudio Iafolla, capo di gabinetto del ministro Altero Matteoli, che parla della nomina «pilotata» di De Santis (che non aveva i titoli) a provveditore delle Opere pubbliche toscane. Una nomina sponsorizzata da Verdini per conto dell'amico imprenditore Riccardo Fusi e considerata come un favore a Balducci, e quindi una prova di corruzione, che Iafolla racconta così: «Me lo disse il ministro, come fa di solito dice: "ci sarebbe questo De Santis, io vorrei mandarlo al provveditorato di Firenze"». E ancora: nell'informativa ci sono documenti che provano pratiche che potrebbero essere classificate alla voce «do ut des» come l'assunzione, da parte di una azienda che ha appena vinto un appalto, della figlia di Anna Maria Pallavicini, la «zarina» del ministero delle Infrastrutture.
AL MINISTERO
Gerardo Mastrandrea è il capo ufficio legislativo del ministero delle Infrastrutture. Nella sua deposizione dello scorso 17 maggio racconta «in modo leale», parole dei pubblici ministeri, il complesso iter dell'appalto della Scuola. A cominciare dai rapporti tra l'imprenditore Fusi, il suo sponsor Denis Verdini e il ministro Altero Matteoli.
«Io non vengo contattato da Verdini. Ho modo di vederlo a un pranzo... a un pranzo, che si svolge... ad ottobre, in cui mi convoca il ministro, si svolge all’Harry's Bar, intorno al 20, 25 ottobre. Dice "mi raggiunga a questo pranzo".
Io vado all'Harry's Bar e vedo lì Verdini e Fusi... e il ministro Matteoli. Non sapevo di trovarmi di fronte... Io ho avuto proprio l'impressione che volesse, in qualche modo, dimostrare a Fusi che aveva fatto un lavoro di messa in contatto (...).
Mi disse, mi disse il ministro "Mastrandrea, che cosa state facendo?". Ho detto "noi abbiamo avuto questa delibera dell'Autorità, adesso vedremo". Punto.
Poi si son messi a parlare, tra l'altro, di politica, poi un pranzo anche molto veloce, insomma».
Intorno al 24-25 novembre 2008, ricorda Mastrandrea, arriva la delibera sul cantiere da parte dell'Autorità dei Lavori Pubblici. Il funzionario viene messo in guardia dai consulenti. «Mi dicono "non prenderlo per oro colato, perché ha una visione comunque parziale del problema"». L'illegittimità del cantiere dell’Astaldi, alla quale Fusi vorrebbe fosse revocato l'appalto, non sembra così conclamata. «Mi ero un po' preoccupato perché, devo dire la verità, da giurista quella delibera l'avevo trovata, tra virgolette, un po' troppo di parte, cioè non avevo mai visto un atto in cui si prendono le ragioni di una delle due parti in causa in maniera così evidente, perciò... Però erano ragioni comunque giuridicamente sostenibili per cui alla fine... non me la sono sentita, insomma, di non dar seguito». Le pressioni per bloccare i lavori vanno avanti, dunque. Un funzionario «ribelle», Mercuri, si mette di mezzo. Verrà poi esautorato. Mastrandrea riprende coraggio: «Vado dal ministro e dico al ministro "guardi ministro non ci sono le condizioni per sospendere il cantiere, a mio avviso, perché stanno emergendo dei dati che l'Autorità dei Lavori Pubblici stranamente non sapeva, non lo so, non gliel'hanno detti, non... eccetera per cui non... a quel punto... io ministro non me la sento di farle firmare alcun atto o qualche cosa che comporti la sospensione dei lavori"». Una misura estrema, la giudica il funzionario, «del tutto spropositata». Ma inarrestabile, pare. Intanto De Santis ha ottenuto l'agognata nomina a provveditore delle Opere Pubbliche toscane. «L'ho conosciuto solo una volta che è venuto nella mia stanza assieme a Balducci. Era un appuntamento strano. Mi hanno chiesto questo appuntamento per venire da me quasi per dire... "te l'abbiamo detto"». Arriviamo nel 2009, e Mastrandrea prepara una nota riservata per il ministro, che i magistrati scoprono essere finita nelle mani dell’imprenditore Fusi. Si dimostrano molto interessati a questa fuga di notizie. Mastrandrea: «Non mi voglio sbagliare, ma quel fax è questa nota qui, che io ho dato al ministro. Non posso escludere che il ministro l'abbia data a Verdini. Verdini l'ha girata a Fusi, hanno visto che era quel contenuto e lui, Vinti (il vecchio legale di Fusi ndr), è tornato da me, o m’ha chiamato il 27 per dire “guarda che quella procedura non c’entra nulla con la cosa, perché non riguarda...", insomma era al corrente».
IL COGNATO
Pierfrancesco Gagliardi è il cognato di Piscicelli, con il quale condivide la celebre conversazione nella quale quest'ultimo «ride» davanti alle immagini del terremoto dell’Aquila. Definirlo come un pentito è forse eccessivo. Ma nell'interrogatorio del 21 maggio, il cognato ammette certe pratiche corruttive da parte della presunta «cricca». I pm chiedono se gli orologi fossero un modo per ammorbidire le persone al ministero che «non volevano dare un segnale». Risposta: «Un orologio, un regalo, a Natale, Pasqua e Capodanno come diceva e... i lavori alla villetta o se aveva preso altri accordi in termini di dazione di danaro, questo lui non me lo ha mai esplicitato (...), gli orologi erano per qualcuno lì dell’ufficio della Ferratella, per De Santis o per la dottoressa Forleo». Gagliardi, poi, conferma gli incontri del cognato con Denis Verdini. E racconta di aver consigliato a Fusi di andare a parlare con «il capo dei capi», ovvero Matteoli. Alla domanda se Gagliardi conosca davvero il ministro, la risposta è quasi una confessione di millantato credito. «Io ho preso un caffè con Altero Matteoli, una volta a giocare a calcetto, ma è questa la questione capito... la persona a cui volevamo parlare era Matteoli, ma l’avevo visto cinque minuti a pigliare un caffè in giardino lì alle Mazzette, allora... mi ero fatto bello, ecco, diciamo così...».
Fonte: corriere.it
FIRENZE — La piccola West Point toscana era solo un inizio. Leggendo le nuove carte depositate dai magistrati fiorentini sulla Scuola Marescialli si capisce che secondo loro quell'appalto— considerato pilotato dall'inizio alla fine— era il grimaldello che stava portando la procura nel complesso mondo del ministero delle Infrastrutture. Gli atti integrativi di indagine, circa 3.000 pagine, sono divisi in due parti. La prima cerca di cementare le accuse già note ad Angelo Balducci e Fabio De Santis con riscontri e ammissioni. La seconda vuole dimostrare come nessuna fase di quell'appalto, spalmato in un arco temporale che va dal 2001 al 2009, sia stata fatta nell'interesse pubblico.
IL RAPPORTO
Lo scorso 7 giugno i carabinieri del Ros di Firenze depositano una ponderosa informativa nella quale elencano le «prove documentali» ovvero i riscontri a quanto desunto dalle intercettazioni. Si tratta di un lavoro certosino che va dalle ricevute e le foto degli orologi che Francesco Piscicelli e il patron della Btp Riccardo Fusi regalano sotto Natale a Fabio De Santis, un Audemars Piquet acciaio da 4.270 euro e un Chopard da 4.063 euro, fino a un verbale di gara relativo a una gara d'appalto per il G8 della Maddalena nel quale Fusi formula un'offerta assolutamente identica a quella che gli suggerisce — «dettare» è il verbo usato dai carabinieri— Piscicelli, l'intermediario di Angelo Balducci. Nelle nuove carte vi sono testimonianze considerate fondamentali, come quella di Claudio Iafolla, capo di gabinetto del ministro Altero Matteoli, che parla della nomina «pilotata» di De Santis (che non aveva i titoli) a provveditore delle Opere pubbliche toscane. Una nomina sponsorizzata da Verdini per conto dell'amico imprenditore Riccardo Fusi e considerata come un favore a Balducci, e quindi una prova di corruzione, che Iafolla racconta così: «Me lo disse il ministro, come fa di solito dice: "ci sarebbe questo De Santis, io vorrei mandarlo al provveditorato di Firenze"». E ancora: nell'informativa ci sono documenti che provano pratiche che potrebbero essere classificate alla voce «do ut des» come l'assunzione, da parte di una azienda che ha appena vinto un appalto, della figlia di Anna Maria Pallavicini, la «zarina» del ministero delle Infrastrutture.
AL MINISTERO
Gerardo Mastrandrea è il capo ufficio legislativo del ministero delle Infrastrutture. Nella sua deposizione dello scorso 17 maggio racconta «in modo leale», parole dei pubblici ministeri, il complesso iter dell'appalto della Scuola. A cominciare dai rapporti tra l'imprenditore Fusi, il suo sponsor Denis Verdini e il ministro Altero Matteoli.
«Io non vengo contattato da Verdini. Ho modo di vederlo a un pranzo... a un pranzo, che si svolge... ad ottobre, in cui mi convoca il ministro, si svolge all’Harry's Bar, intorno al 20, 25 ottobre. Dice "mi raggiunga a questo pranzo".
Io vado all'Harry's Bar e vedo lì Verdini e Fusi... e il ministro Matteoli. Non sapevo di trovarmi di fronte... Io ho avuto proprio l'impressione che volesse, in qualche modo, dimostrare a Fusi che aveva fatto un lavoro di messa in contatto (...).
Mi disse, mi disse il ministro "Mastrandrea, che cosa state facendo?". Ho detto "noi abbiamo avuto questa delibera dell'Autorità, adesso vedremo". Punto.
Poi si son messi a parlare, tra l'altro, di politica, poi un pranzo anche molto veloce, insomma».
Intorno al 24-25 novembre 2008, ricorda Mastrandrea, arriva la delibera sul cantiere da parte dell'Autorità dei Lavori Pubblici. Il funzionario viene messo in guardia dai consulenti. «Mi dicono "non prenderlo per oro colato, perché ha una visione comunque parziale del problema"». L'illegittimità del cantiere dell’Astaldi, alla quale Fusi vorrebbe fosse revocato l'appalto, non sembra così conclamata. «Mi ero un po' preoccupato perché, devo dire la verità, da giurista quella delibera l'avevo trovata, tra virgolette, un po' troppo di parte, cioè non avevo mai visto un atto in cui si prendono le ragioni di una delle due parti in causa in maniera così evidente, perciò... Però erano ragioni comunque giuridicamente sostenibili per cui alla fine... non me la sono sentita, insomma, di non dar seguito». Le pressioni per bloccare i lavori vanno avanti, dunque. Un funzionario «ribelle», Mercuri, si mette di mezzo. Verrà poi esautorato. Mastrandrea riprende coraggio: «Vado dal ministro e dico al ministro "guardi ministro non ci sono le condizioni per sospendere il cantiere, a mio avviso, perché stanno emergendo dei dati che l'Autorità dei Lavori Pubblici stranamente non sapeva, non lo so, non gliel'hanno detti, non... eccetera per cui non... a quel punto... io ministro non me la sento di farle firmare alcun atto o qualche cosa che comporti la sospensione dei lavori"». Una misura estrema, la giudica il funzionario, «del tutto spropositata». Ma inarrestabile, pare. Intanto De Santis ha ottenuto l'agognata nomina a provveditore delle Opere Pubbliche toscane. «L'ho conosciuto solo una volta che è venuto nella mia stanza assieme a Balducci. Era un appuntamento strano. Mi hanno chiesto questo appuntamento per venire da me quasi per dire... "te l'abbiamo detto"». Arriviamo nel 2009, e Mastrandrea prepara una nota riservata per il ministro, che i magistrati scoprono essere finita nelle mani dell’imprenditore Fusi. Si dimostrano molto interessati a questa fuga di notizie. Mastrandrea: «Non mi voglio sbagliare, ma quel fax è questa nota qui, che io ho dato al ministro. Non posso escludere che il ministro l'abbia data a Verdini. Verdini l'ha girata a Fusi, hanno visto che era quel contenuto e lui, Vinti (il vecchio legale di Fusi ndr), è tornato da me, o m’ha chiamato il 27 per dire “guarda che quella procedura non c’entra nulla con la cosa, perché non riguarda...", insomma era al corrente».
IL COGNATO
Pierfrancesco Gagliardi è il cognato di Piscicelli, con il quale condivide la celebre conversazione nella quale quest'ultimo «ride» davanti alle immagini del terremoto dell’Aquila. Definirlo come un pentito è forse eccessivo. Ma nell'interrogatorio del 21 maggio, il cognato ammette certe pratiche corruttive da parte della presunta «cricca». I pm chiedono se gli orologi fossero un modo per ammorbidire le persone al ministero che «non volevano dare un segnale». Risposta: «Un orologio, un regalo, a Natale, Pasqua e Capodanno come diceva e... i lavori alla villetta o se aveva preso altri accordi in termini di dazione di danaro, questo lui non me lo ha mai esplicitato (...), gli orologi erano per qualcuno lì dell’ufficio della Ferratella, per De Santis o per la dottoressa Forleo». Gagliardi, poi, conferma gli incontri del cognato con Denis Verdini. E racconta di aver consigliato a Fusi di andare a parlare con «il capo dei capi», ovvero Matteoli. Alla domanda se Gagliardi conosca davvero il ministro, la risposta è quasi una confessione di millantato credito. «Io ho preso un caffè con Altero Matteoli, una volta a giocare a calcetto, ma è questa la questione capito... la persona a cui volevamo parlare era Matteoli, ma l’avevo visto cinque minuti a pigliare un caffè in giardino lì alle Mazzette, allora... mi ero fatto bello, ecco, diciamo così...».
Fonte: corriere.it
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