30 ott 2009

L’ingegnere e la mamma in coda per il metadone. La Milano «normale» al Sert: «Le ville? Vendute per la cocaina»

Anestesisti, televenditori, coppie sposate. Sono 90 i pazienti passati in 5 ore dalla struttura del centro

MILANO - «Una mia amica era incinta e continuava a pippare. 'Sei matta, non ci pensi al bambino?' domandavo. Rispondeva: 'Tran­quilla. Al massimo esce più picco­lo'. Quando ho saputo di aspettare la mia Ale, ho smesso. Ha nove me­si. Dico, giurano, che è nata sanissi­ma. Però ho usato cocaina per cin­que anni... Ogni dieci minuti, spe­cie la notte, la ispeziono. La visito, proprio come fossi un medico. Ho paura di trovare arti spostati, gli oc­chi che non si aprono, i riflessi spenti. Una ossessione. Io ho 29 an­ni».

«Mi guardi. Si vede che, insom­ma, vivo bene, una vita di un certo livello. Mi ci vede a finire dai ma­rocchini in stazione Centrale a cer­care l’eroina? Ci andavo ogni sera. Avevo schifo. E le parla uno che è ingegnere, ha cinquant’anni, ha passato una vita a costruire di tutto in Africa, conosce gente di livello, mia sorella, per dirle, lavora a... e io giravo a comprare l’eroina».

La mamma di Ale è una, l’inge­gnere è un altro, e siamo appena a due. Ieri mattina, al Sert di via Con­ca del Naviglio, il Centro servizi per le tossicodipendenze che serve il centro città, a ritirare il metadone sono passati in novanta. In cinque ore. Dalle 7.30 alle 12.30. Il Sert, che a Milano qualcheduno del Co­mune vorrebbe chiudere, ancora si porta dietro il ricordo e le immagi­ni dei decenni passati. Code di sche­letri spolpati dall’eroina; chi sveni­va, chi vomitava, chi cadeva a terra e ci rimaneva.

Nel primo semestre dell’anno il Sert ha seguito 3.466 persone. Si so­no visti un marito e una giornalista che si bombardavano di coca per ri­trovare l’intesa sessuale. È transita­to un tipo comparso nelle televen­dite. Si è fermato un anestesista che ogni giorno ha in mano i desti­ni di tanti di noi (l’ospedale è tra i più importanti). E si sono moltipli­cati i distinti signori che, invitati ad andare in bagno per il prelievo dell’urina, dalla tasca della giacca hanno tirato fuori un campione di pipì di un amico. Per camuffare l’al­ta concentrazione di droga. A ri­prenderli, la telecamera interna al­la toilette. Lo sanno che esiste, ci mancherebbe, vengono avvisati, è per la legge sulla privacy. La teleca­mera l’hanno messa per evitare che si imbrogli.

Il Sert, diretto dalla dottoressa Paola Sacchi, cura malati, e ci tiene che in giro si sappia. Non è un an­golo buio di reietti; piuttosto, è uno dei salotti di Milano. Dentro, si affollano gli invitati, insospettabili prigionieri di un male che la città ha diagnosticato eppure trascura­to. Per vergogna o per superbia.

Riccardo Gatti studia la tossicodi­pendenza da sempre. È stato a New York nel biennio ’89-’90: la droga invadeva le classi agiate. «Qui l’in­vasione», dice, «è già iniziata. Qua­si nessuno sembra volersene accor­gere. Anzi, chi denuncia questi pro­blemi dà fastidio. Noi proviamo a leggere cosa avverrà in futuro. In­crociamo i dati, studiamo. Sta tor­nando l’eroina. Cresceranno i con­sumatori. Si abbasserà l’età media. Mi chiede se ci sarà una presa di co­scienza? Non lo so. Mi domanda se devono scapparci i morti? Ma se si muore ogni giorno! Quanti giova­nissimi sono colpiti da infarto?».

Un 17enne di un liceo scientifico del centro è stato beccato dalla poli­zia che comprava cocaina. È finito al Sert. Ha confidato alla dottoressa che l’ha seguito: «Questa vicenda è stata un’occasione. Mamma e papà si sono accorti di me. Sono final­mente riuscito a spiegare loro per­ché da bambino avevo rifiutato quel corso sportivo che insistevano a farmi frequentare».

Al Sert, il grosso dei pazienti ha tra i 35 e i 40 anni; poi vengono i trentenni e i ragazzini. Cocaina, hashish, acidi, pasticche, e l’eroina, inalata o fumata.

L’ingegnere che emigrava in sta­zione Centrale dice: «Avevo dolori muscolari cronici. Il medico mi pre­scrive un farmaco. Divento dipen­dente. Fin quando esce dal merca­to. Cerco sostituti. Non funziona­no. Provo l’eroina. Funziona. E allo­ra continuo. Non mi crede?».

La mamma della piccola Ale è fi­glia di un imprenditore (marchio noto); i suoi divorziarono, lei andò a vivere da sola; posto in banca, no­ia, voglia di cambiare, e così disco­teche e locali (i soliti noti nomi) per fare la ballerina e la barista. «Al bancone mi pagavano un cocktail direttamente con una dose».

In certe feste, a casa sua, «girava­no i vassoi, quelli delle tartine, pie­ni di strisce di polvere. Ho iniziato perché volevo provare. Tanto smet­to appena voglio, mi dicevo. Ho avuto amici che per la coca hanno venduto tutto: uno aveva una villa spaziale non lontano da quella di Jo­vanotti e ora fa il barbone. Vivevo per la coca, pensavo alla coca. Io e le mie amiche. Due, brasiliane, alle feste si prostituivano, servivano soldi. Affittavo una delle mie stan­ze, in salotto si ballava, di là si face­va sesso. Un’altra amica era incin­ta ». Le è morto il bambino e «se l’è tenuto dentro per una settimana. Non voleva andare in ospedale. Aveva paura che la ricoverassero in­sieme ai tossici. Io sono stata una tossica. Sono finita in comunità. Ho bisogno di un lavoro. Ti lascio il curriculum, posso? Guarda che fac­cio anche le pulizie».

Fonte: corriere.it

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