29 set 2009

Così noi Sarno vendiamo le case popolari di Ponticelli. Parla Giuseppe, il capoclan pentito.

NAPOLI — Sono case popolari e apparten­gono al Comune, che dovrebbe assegnarle in base a pubbliche graduatorie. Invece gli allog­gi di Ponticelli vengono comprati e venduti col beneplacito del clan Sarno, che ne ricava un guadagno sostanzioso: lo conferma il boss Giuseppe Sarno, che da alcuni mesi è di­venuto collaboratore di giustizia. Al pm della dda Vincenzo D’Onofrio, il capoclan ha rac­contato il 14 luglio scorso, nel carcere di Re­bibbia, i dettagli di questo mercato immobi­liare clandestino. «Mio fratello Carmine ha anche altri introiti che gli derivano dall’attivi­tà di compravendita degli appartamenti po­polari, nel senso che sia il venditore sia l’ac­quirente di quegli immobili (che in realtà non si potrebbero vendere perché di proprie­tà del Comune) sono costretti a corrisponder­gli una certa somma, che si aggira intorno ai 1500 — 2000 euro. Devo precisare che li pre­tende da tutti, anche dalle persone che gli ho detto essere nostri amici».

Il verbale è stato depositato ieri, lunedì, dal pm nel corso del processo contro il clan Sarno che si sta svolgendo da­vanti alla terza Corte di assise. Contempora­neamente, l’accusa ha prodotto anche i verba­li di altri affiliati che hanno fatto la stessa scel­ta di Giuseppe Sarno: si tratta di dichiarazio­ni su numerosi omicidi, tentativi di omicidio e collusioni che consentono di ricostruire le attività della potente famiglia di Ponticelli fi­no a pochissimo tempo fa. Sia il capoclan sia gli affiliati raccontano come ci fosse una cas­sa comune per pagare le famiglie dei detenu­ti e le loro spese legali. «Per quanto riguarda l’assistenza legale — spiega Giuseppe Sarno — noi vertici del clan avevamo dato disposi­zioni a tutti gli affiliati che in caso di arresto per azioni legate agli interessi del clan avreb­bero dovuto nominare uno degli avvocati che noi indicavamo, a seconda della gravità della contestazione un avvocato più o meno importante. È evidente che ognuno, se vole­va, poteva anche nominare professori di dirit­to, ma in questo caso l’onorario anziché esse­re pagato con i soldi della cassa comune dove­va essere pagato dal singolo affiliato. Ciò na­turalmente non valeva nel caso di reati molto gravi, come per esempio l’omicidio commes­so negli interessi del clan. In questo caso l’af­filiato ha la facoltà di nominare anche il più importante avvocato, che sarà ricompensato con i soldi della cassa comune.

Gli avvocati vengono ricompensati non per singolo pro­cesso o per singolo imputato, ma a cadenze temporali. Di volta in volta gli inviamo una somma di denaro per le difese che hanno as­sunto nel corso di quel periodo. Vi sono inve­ce alcuni avvocati che vengono pagati per ogni singola difesa e ogni singolo processo». In un interrogatorio successivo il boss preci­sa: «Agli affiliati vengono anche indicati alcu­ni avvocati di fiducia che si devono nomina­re in caso di arresto, ma essi sono anche libe­ri di scegliersi un loro avvocato purché sia dello stesso livello economico di quelli indi­cati da noi. Con significative eccezioni: è evi­dente che se venivamo arrestati qualcuno di noi fratelli eravamo liberi di sceglierci il me­glio dell’avvocatura». La cassa comune, d’altra parte, serviva an­che a fronteggiare le spese impreviste che i familiari degli affiliati dovevano sostenere: «Spesso capita — chiarisce il boss pentito— che dalle casse comuni venga prelevato dena­ro anche per acquisto di elettrodomestici del tipo televisori o altri di cui hanno bisogno i familiari dei detenuti». È l’altro collaboratore Carmine Caniello a rivelare, invece, i dettagli di un orribile omici­dio avvenuto nell’ottobre del 2005 ad Acerra. La vittima si chiamava Filomena De Cicco, aveva 46 anni ed era madre di quattro figlie. La donna era sospettata da Andrea Mauri di aver fatto da «specchietto» in occasione del­l’assassino di suo fratello, Vincenzo Mauri. «Mauri — racconta Caniello — decise di ven­dicarsi uccidendo la De Cicco a colpi di caz­zottiera. Si fece portare la vittima da una per­sona con cui questa aveva una relazione senti­mentale. Mi spiegò come l’aveva uccisa a fu­ria di percosse e come si era fatto aiutare dal ragazzo anche per il trasporto del cadavere».

Fonte: corrieredelmezzogiorno.it

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