10 gen 2009

Bocciano i progetti e stiamo al gelo. Il no ai rigassificatori

Quale sia il problema è sotto gli occhi di tutti. Soprattutto in questi giorni di gelo polare e incandescenti polemiche sulla forniture di gas russo. Un problema comune a tutta l'Europa, ma per noi assai più grave. Primo, perché consumiamo tanta energia quanto Turchia, Romania, Polonia e Austria messe insieme. Secondo, perché dopo aver abbandonato il nucleare senza imboccare sul serio le strade alternative (i termo-valorizzatori no perché «sono cancro-valorizzatori», l'eolico no perché le pale sono brutte, il geotermico no perché provoca «disastri ambientali », i pannelli solari no perché «rovinano i panorami dei tetti delle nostre belle città»...) ci ritroviamo a dipendere per l'88%, direttamente o indirettamente, dall'estero. Nessun Paese occidentale dipende dal gas quanto noi: nessuno. Basterebbe un guasto o una capricciosa chiusura «politica» dei rubinetti ai tre gasdotti oggi in funzione per un totale di 81,7 miliardi di metri cubi l'anno e resteremmo al gelo, con le fabbriche bloccate, i trasporti pubblici paralizzati. Unica alternativa: importare da altri Paesi gas stoccato allo stato liquido su grandi navi (quando è così occupa infinitamente meno spazio) per poi riportare il metano allo stato gassoso, appunto, nei rigassificatori. Eppure, nonostante il quadro riassunto, abbiamo un solo impianto, a Panigaglia, nel golfo di La Spezia. Contro i quattro della Corea, i sei della Spagna, i cinque degli Usa, i 24 del Giappone. In compenso, siamo pieni zeppi di progetti per un'altra quindicina. Per uno ormai ci siamo: la piattaforma già citata alla foce del Po. Costruita in Spagna e trascinata mesi fa da enormi chiatte da Algeciras fino alle acque di Porto Tolle, potrà rigassificare in tempi brevi 8 miliardi di metri cubi di gas l'anno: un decimo del fabbisogno italiano.

Che poi, oltre al governatore Giancarlo Galan, si vantino di averlo voluto e finanziato sia i governi di destra sia i governi di sinistra importa poco. Anzi: è un bene che entrambi gli schieramenti rivendichino per una volta la scelta. Dalle altre parti, infatti, le cose vanno diversamente. E ciò che sembra sensato, col consenso dello stesso leader locale dei Verdi Gianfranco Bettin, a venti miglia da piazza San Marco, appare mostruoso e criminale agli ayatollah ecologisti toscani, che si battono da anni contro il «bombolone» di Livorno, approvato da Palazzo Chigi, dalla Regione e dai comuni, come difendessero il Santo Sepolcro dalle orde del feroce Saladino. Sentiamo già le lagne: «I soliti ambientalisti nemici del progresso!». Magari, fosse solo quello il nodo. Non è così. Basti citare la posizione «laica» di Ermete Realacci: «Come diceva Diderot "non basta fare il bene, bisogna anche farlo bene". Ma niente preclusioni: è solo questione di buonsenso». Tanto che Legambiente, in una nota, ha invocato martedì contro il nucleare proprio gli impianti invisi: «Secondo uno studio del Cesi ricerche anche costruendo 4 mega centrali Epr di terza generazione evoluta, da 1600MWciascuna, risparmieremmo appena 9 miliardi di metri cubi di gas all' anno, il contributo di un solo rigassificatore di media taglia». La verità è che, al di là delle legittime pretese di avere garanzie sulla massima sicurezza e delle giuste richieste di conoscere ogni progetto nei dettagli, mai come nel caso dei rigassificatori gioca l'effetto «nimby»: «not in my backyard», non nel mio cortile. Lo dimostra il caso spezzino, dove la decisione di raddoppiare la potenzialità dell'impianto di Panigaglia (nonostante l'impegno preso anni fa di sgombrare l'area per restituirla al turismo entro il 2013) vede fratture e mal di pancia non solo dentro la sinistra che governa il comune e la Regione, ma anche dentro la destra, nonostante il ligure Claudio Scajola, parlando in generale e non del Golfo dei Poeti, sia stato netto: «In attesa del nucleare si procederà speditamente coi rigassificatori». Lo conferma il caso di Brindisi. Dove il cantiere dell'impianto non solo è bloccato dalla magistratura che indaga sull' ex sindaco «rosso» Giovanni Antonino, ma spacca in due come una mela entrambi gli schieramenti. Nella squadra dei favorevoli si sono infatti via via arruolati i governi di destra e sinistra «romani ».

Di là, tra i contrari, con posizioni più o meno sfumate («ok, ma non lì») si sono messi tutti i «locali». Sia di destra, come il sindaco Domenico Mennitti, sia di sinistra, come il presidente provinciale Michele Errico o il governatore Nichi Vendola. Il caso più sconcertante però, è quello di Agrigento. Dove l'Enel ha cercato di spiegare che il nuovo rigassificatore per 8 miliardi di metri cubi l'anno è progettato in un'area degradata di Porto Empedocle dove oggi sorgono solo capannoni dismessi, che l'attracco con una diga foranea prevista dal 1963 (e mai realizzata) consentirà finalmente l'attracco alle navi da crociera, che i due enormi serbatoi sotterranei sporgeranno solo con due cupole più basse e meno vistose di tutte le ciminiere nei dintorni, che i criteri di sicurezza saranno i più avanzati al mondo e che nulla ma proprio nulla si vedrà dal più alto cucuzzolo agrigentino. Niente da fare: si sono schierati contro non solo la sinistra radicale, che sul manifesto ha strillato di «un mostro da 320 mila metri cubi d'acciaio in una delle aree archeologiche più belle del pianeta ». Ma anche Vittorio Sgarbi («progetto infame») e il sindaco destrorso poi sinistrorso e di nuovo destrorso di Agrigento, Marco Zambuto. Che ha presentato un allarmatissimo ricorso al Tar contro un impianto «così invasivo a ridosso della Valle dei Templi». Alla faccia perfino di un’ambientalista d.o.c. come la presidente del Fai Giulia Maria Crespi. Che dopo aver visto il posto ha scritto d'aver cambiato idea: nessun danno al paesaggio. Anzi: «Se a Porto Empedocle si bocciasse il progetto del rigassificatore sapete cosa si farebbe al suo posto? Niente di niente».

Fonte: corriere.it

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