Leoni, vendette e «onore» la legge del bandito Popeye
CÓMBITA (Colombia) — Ha trascorso il diciottesimo Natale e festeggerà per la diciottesima volta l’anno nuovo nel carcere di massima sicurezza di Cómbita, regione di Boyacá, in Colombia. Sta scontando una condanna a 20 anni per una fitta serie di omicidi commessi personalmente o dall’organizzazione criminale in cui è cresciuto fino a diventarne il capo. Centinaia di delitti, ettolitri di sangue rovesciati sulle strade di Bogotá, Medellín, Cali, Antiochia. Ma il conteggio esatto non è ancora possibile.
Si chiama John Velásquez, ma è passato alla Storia col nome di «Popeye». Vive solo in una delle minuscole venti celle schierate attorno a un cortiletto appena oltre l’ingresso del carcere, le altre diciannove sono vuote: e qui abbiamo avuto il raro privilegio d’incontrarlo. L’intervista è fissata per le 11 e dura esattamente un’ora. Quando usciamo, a mezzogiorno, sulle nostre spalle grava il fardello di una storia di vita e di morte senza eguali. Ma nelle parole del commiato c’è la speranza: «Si Dios quiere, se Dio vuole — dice a bassa voce — fra tre anni torno in libertà».
Quarantasette anni, il fisico per nulla fiaccato dai disagi della clausura, Popeye ama parlare di sé, si sente ancora un protagonista. È stato per anni il braccio destro di Pablo Escobar, riconosciuto nel mondo come il più grande, l’invitto narcotrafficante della Colombia amato dalla plebe come una specie di Robin Hood e «abbattuto» in uno scontro a fuoco con la polizia il 2 dicembre del ’93. Aveva 54 anni. Ai suoi funerali una folla di 20 mila persone.
«Quando l’assassinarono — ricorda Popeye — io ero rinchiuso nel carcere modello di Bogotá. La mia reazione? È stato come t’avessero ammazzato la mamma cento volte. Pablo Escobar era un leader forte e buono. Era un leone. Uomo del popolo, non rinnegò mai le proprie origini campesine. Se uccideva o ordinava di uccidere, non lo faceva mai per futili motivi. Lo faceva per la causa: e la Causa era combattere lo Stato per conseguire la riforma della Costituzione e porre fine, una volta per tutte, all’estradizione dei colombiani verso gli Stati Uniti d’America. E questa, a sedici anni di distanza, è ancora oggi la nostra Causa».
La presenza di due italiani stuzzica l’interesse del detenuto di Cómbita che introduce di colpo l’argomento mafia, curioso forse di capire se il fenomeno abbia le stesse caratteristiche in due Paesi così diversi. Ma stabilisce subito che, per lui, la mafia colombiana è mucho más fuerte, molto più forte dell’italiana. E ce lo spiega: «Fecero tanto chiasso in Italia quando il bandito Giuliano ammazzò 3 carabinieri. Noialtri, in Colombia, ne ammazzammo 540. Ne ferimmo 800 e mille disertarono per paura le file della polizia. Eravamo un esercito di straccioni ma guidati da un leone, Escobar». Se mai venisse in Italia, aggiunge, «la mia meta sarebbe la Sicilia, perché mi sono identificato col bandito Giuliano, anche se io sono molto più forte ed efficiente di lui». È al colmo dell’esaltazione e nella foga dell’entusiasmo mi abbraccia frantumando la mia senilità e non oso confessargli che non ho fatto il militare e sono solo un piemontese.
Ripercorrendo la sua carriera «eroica», sostiene di non essere cinico quando afferma di essere stato «un assassino professionista», e di aver ucciso per «rispettare un contratto». Agiva nello spirito della nuova Costituzione, promulgata nel 1991. Risultato? «Noi, duemila banditi in lotta contro lo Stato siamo riusciti a travolgerlo e sconfiggerlo in sette anni: ciò che non ha potuto fare in 40 anni la guerriglia, benché le Forze Rivoluzionarie Farc avessero a disposizione quarantamila uomini, bene addestrati e armati di tutto punto».
Non è stata un’esistenza facile, la sua: vissuta, fin dall’adolescenza, in un clima di violenza estrema che grava tuttora sulla Colombia. «La mia prima vittima— racconta— fu l’autista di un autobus. Avevo 17 anni. Mi pagarono 2 mila dollari. Gli sparai in testa con un revolver 38. Due soli proiettili, gli altri 4 li tenni in canna per la fuga. Lo feci fuori come fanno i sicari di prima classe, conficcandogli due pallottole dal sopracciglio in su: solo i burini, gli incapaci, sparano dal sopracciglio in giù. Cosa provai? Niente. Avevo il fegato per farlo, l’istinto per ammazzare. L’ultimo colpo l’ho sparato nel ’92, al Castello di Medellín, per difendere Pablo Escobar».
In un mondo che pullula di assassini, quasi non riesce a comprendere, Popeye, l’accanimento di tanta gente che invoca contro di lui la massima pena, e la butta in politica: «Sembra che tutti mi vogliano morto o quanto meno condannato all’ergastolo— sbotta —. Ma io non vedo alcuna differenza tra una mia bomba e quelle sganciate dai Nordamericani sull’Iraq o sull’Afghanistan. Siamo tutti e due dei banditi. Perché allora non chiedere la pena di morte per George Bush o per il Nobel della Pace señor Barack Obama, che ha inviato a Kabul altri 30 mila soldati. Non sono essi 30 mila assassini? Invece, al ritorno a casa sono ricevuti alla Casa Bianca dalla banda presidenziale e gli danno pure la medaglia».
Quando gli chiedi se ci fu mai un momento di contrasto o di conflitto col grande capo, la risposta — negativa — è come avvolta in un sorriso agrodolce: «Devo tornare ai ricordi di gioventù — risponde Popeye — quand’ero molto forte e molto pazzo e avevo molto potere emolta adrenalina nel sangue. No, nessuno di noi ha mai tradito Escobar, benché ci fosse su di lui una taglia di 5 mila dollari da parte del governo nordamericano e di 10 milioni da parte dei suoi nemici. Però c’è di vero che l’abbiamo lasciato solo in un momento difficile, siamo stati dei gran vigliacchi e questo è imperdonabile».
Come prevedibile, l’emozione più grande scaturisce verso la fine del colloquio quando Popeye si rassegna ad affrontare, per l’ennesima volta, il capitolo dell’uccisione di Wendy Echavarría Gil, sua moglie, voluta, decisa e ordinata dal genio del male Pablo Escobar. Un dramma di dimensioni bibliche ma realmente accaduto solo qualche anno fa e di cui il solitario ospite della cella numero 17 è stato l’unico autore e testimone. Da come parla e pronuncia il nome di Wendy si capisce che Popeye ne è ancora innamorato. La descrive «esageratamente bella, alta 1,90, mora, i capelli sciolti sulla schiena fino alla cintura». Però alla fine confessa di averla fatta uccidere. La sua voce è metallica e non tradisce emozioni quando racconta succintamente il triste epilogo: «Wendy era stata l’amante di Pablo, che l’aveva poi lasciata e che lei alla fine odiava perché l’aveva costretta ad abortire. Ma quando io la vidi persi in un attimo la testa e il cuore. Ero inoltre orgoglioso di avere con me la donna che era stata tra le braccia del Capo, anche se mi accorsi che lei era attratta solo dal mio denaro. Poi le cose cambiarono. Il Patrón mi fece sapere che Wendy faceva il doppio gioco e che non solo mi tradiva ma filtrava informazioni ai narcotrafficanti suoi rivali e nemici. Emi ordinò di ammazzarla. Io però non ebbi il coraggio di farlo e affidai l’incarico ai miei sicari». Che la eliminarono a colpi di revolver, sparandole in testa.
Gli ho chiesto se prova rimorso per quel che ha fatto, se è pentito. «Certo che lo sono — ammette senza alcuna esitazione —. Sono un uomo che dice le cose con franchezza. Sono un vero antiocano, vengo da una terra forte, che ha dato alla luce i più grandi banditi della Colombia, come Pablo Escobar o Carlos Castaño Gil. Sono pentito e sto cercando un’altra vita, lontano dal crimine. Non ho più voglia di ammazzare nessuno...». E quali sono i progetti del redento señor John Jairo Velásquez? «Voglio farmi dei nuovi amici. Voglio camminare per strada. Voglio mangiarmi un gelato, addentare una mela. Voglio andare al cinema. Voglio andare in chiesa. Voglio andare in Sicilia. Voglio fare tutte le cose che ho fatto prima di finire dietro a queste sbarre. Però non mi pento di essermi messo in questa situazione perché volevo l’avventura e me la son gustata tutta. La mia nuova avventura, quando fra tre anni uscirò, sarà quella di agire con coraggio e disciplina per non farmi ammazzare».
Sarà un po’ dura, con tutta la gente che l’aspetta... «Non ho paura. Io sono molto forte e so come e dove nascondermi».
Nei suoi buoni propositi, c’è di chiedere perdono alla valanga di genitori, figli, parenti, amici di centinaia di famiglie gettate nel lutto negli anni «eroici», quando combatteva per la Causa. Comprese quelle che piangono i 107 morti del Boeing 727 dell’Avianca, esploso in volo il 27 novembre 1989. «Proprio ieri— afferma indignato Popeye, che respinge ogni coinvolgimento nell’attentato — era qui, seduto con me, il figlio di una delle vittime».
Durante la detenzione è sopravvissuto a sette attentati, tutti sventati contro «i peggiori assassini del mondo, sicari e narcotrafficanti». Ma nemica ancora peggiore è stata la solitudine. Nessuno ha mai fatto visita a La Catedral, soprannominata il «carcere a 5 stelle». Non la seconda moglie che dopo la separazione si è trasferita a New York dove vive tuttora; non il figlio che ha ora 14 anni e che vide l’ultima volta quando di anni ne aveva 7; e neanche l’ultima, occasionale morosa.
Secondo Popeye anche il mondo del narcotraffico è cambiato, anche «se tutti giocano a far Pablo Escobar» e «tutti si stanno ammazzando senza rendersi conto che questa è una Colombia nuova, non quella degli anni Ottanta, che le istituzioni si sono rafforzate e che la malavita si trova di fronte una macchina della polizia "più" poderosa che in passato». Sembra improbabile, nelle attuali condizioni, che «possa riemergere una struttura come quella di El Cartel de Medellín, nata grazie al carisma del suo Capo, «che aveva rapporti con tutti i Paesi dell’America Latina».
Lontani i tempi in cui i Baroni della droga colombiana gestivano a Villa Lorena, nella periferia di Cali, uno zoo in cui tigri e leoni avevano una spiccata predilezione per la carne umana: cibo cui provvedevano i Narcotrafficanti in lotta fra loro. Si favoleggia che una di queste belve, il leone Rumbero, fosse allevato con una dieta a base di cocaina, ecstasy e marijuana, e che Pablo Escobar pianse il decesso di uno dei suoi ippopotami, abbattuto per vendetta a fucilate.
C’è poi la storia, reperibile sui ritagli di vecchi giornali inglesi, di un insolito traffico di stupefacenti effettuato attraverso i rettili: quantità di eroina e cannabis inserita nei serpenti (vivi) e spedita senza controllo oltreoceano. A Miami sono stati confiscati grossi carichi degli stessi rettili che avevano sottopelle (si fa per dire) cocaina per il valore di 26 milioni di dollari.
Fonte: corriere.it
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