8 nov 2008

I ricercatori in panchina che battono Usa e Francia. Tra scarsi investimenti e concorsi falsati

Geniali ma con pochi soldi

A calciatori sì, siamo messi bene. Benissimo. Nel campo della ricerca scientifica, però, non trovi uno straccio di Ronaldinho, di Ibrahimovic o di Beckham che voglia venire a giocare nel campionato italiano. Peggio: i nostri futuri Toni, Del Piero, Totti sono già all'estero, si preparano ad andare all'estero o sognano l'estero. Troppa panchina, da noi. Troppi brocchi schierati perché figli dell'allenatore. Troppi vecchi strapagati che non vogliono saperne di cedere la maglia. Eppure ce li avremmo, i giovani fuoriclasse.
E mai come oggi, giornata di mobilitazione promossa dall'Associazione italiana ricerca sul cancro, fa rabbia vedere il panorama che emerge dalle statistiche internazionali. Il professor Ugo Amaldi, che lavora al Cern di Ginevra e ha fortissimamente voluto il Centro nazionale di adroterapia oncologica che aprirà l'anno prossimo a Pavia (una struttura d'avanguardia, seconda in Europa, che ha come cuore un sincrotrone di 25 metri di diametro grazie al quale gli ioni carbonio, nuclei di atomi di carbonio privati dei loro sei elettroni, sono sparati come proiettili contro il tumore senza toccare i tessuti sani circostanti) dice di essere furibondo, con le classifiche internazionali. Sono bugiarde, spiega. «Perché non viene fuori un dato fondamentale. E cioè che nella ricerca di punta noi italiani restiamo forti. Fortissimi, in certi settori».

TERZI AL MONDO - La prova? In rapporto al loro numero, i nostri ricercatori sono i terzi al mondo dopo i britannici, che svettano con 3,27 citazioni sulle maggiori riviste scientifiche internazionali, e dopo i canadesi, che seguono a quota 2,44. Ma con il nostro 2,28 noi ci piazziamo davanti agli Stati Uniti (2,06), alla Francia (1,67), alla Germania (1,62) e al Giappone, che chiude il pacchetto di testa con 0,41. Un tasso di «genialità», se vogliamo chiamarlo così, sei volte più basso del nostro. Insomma: basterebbe avere il coraggio di investire più soldi nella ricerca e l'orticello della scienza italiana potrebbe dare frutti fantastici. Ma questo è il problema: le nostre eccellenze non riescono a reggere da sole la sfida con la massa di denaro, di laboratori, di addetti schierati dai Paesi che più di noi puntano sul futuro. E il confronto è perdente non solo con gli Usa, che hanno un numero di ricercatori quasi 17 volte più alto grazie a un investimento pari quasi al 2 per cento del loro Pil contro il nostro miserello 0,53 e sfornano ogni anno circa 45 mila dottorati contro i nostri 4 mila.

IL CONFRONTO CON LA FRANCIA - Il confronto è umiliante anche con Paesi come la Francia, che con una popolazione pari alla nostra investe sulla ricerca quasi l'1,38% del Pil (anzi: Nicolas Sarkozy ha appena deciso di prendere di petto la crisi aumentando gli stanziamenti del 50%) e ha poco meno di 90 mila addetti in più. O col Canada, che con poco più della metà dei nostri abitanti ha proporzionalmente il doppio dei ricercatori rispetto al numero degli occupati. E lì torniamo: che senso avrebbe andare orgogliosi della Ferrari se il panorama industriale intorno fosse in difficoltà nella sfida quotidiana contro i giganti economici mondiali? I dati raccolti nell'«Annuario Scienza e Società 2008» curato tra gli altri da Massimiliano Bucchi fanno spesso cadere le braccia. A partire proprio dalla incapacità della nostra Università di attrarre i potenziali fuoriclasse stranieri fin da quando sono studenti. Com'è possibile, se come dice Berlusconi abbiamo il 72% del patrimonio culturale europeo, un sole splendente, città magnifiche, buona cucina e bellissime ragazze, che i dottorandi stranieri siano da noi solo il 4,3% e cioè poco più di un terzo della media Ue e meno di un quarto della media Ocse? Che ci ritroviamo con un decimo dei dottorandi della Gran Bretagna o della Svizzera? Che ci piazziamo dietro perfino alla Slovenia e davanti soltanto alla Polonia e alla Turchia? Quanto agli studenti universitari (dottorandi compresi) i dati sono ancora più umilianti: nei nostri atenei quelli che hanno scelto di venire a studiare da altri Paesi sono il 2,2%. Quasi un quindicesimo di quanti affollano gli atenei della Nuova Zelanda.

MERCATO BLOCCATO - E perché dovrebbero venire? Per ritrovarsi poi in un mercato bloccato dove il 58% dei docenti universitari (ordinari più associati più ricercatori) ha più di 50 anni e solo il 4,7 ne ha meno di 35? Dove i concorsi sono spesso così fasulli che c'è chi scrive ai giornali per annunciare che nel concorso tale vincerà la signorina tale e quasi sempre indovina? Dove i dieci ricercatori che ruotano intorno all'università di Pisa e hanno costruito il super-telescopio messo in orbita dalla Nasa arrivano a guadagnare, quando va bene, 1.700 euro al mese senza alcuna certezza per il futuro e dove il governo si «dimentica» di mettere la firma al rinnovo (già finanziato) del programma messo su per iniziativa di Ignazio Marino che finanziava un piccolo numero di ricercatori dopo una selezione europea strappandoli al ricatto dei baroni? Dove il bilancio dell'ultima distribuzione dei finanziamenti ai progetti di ricerca operata dal Consiglio europeo delle ricerche (Erc), come ha scritto il direttore della Normale, Salvatore Settis, è «disastroso» perché «prima per numero di domande (cioè per potenzialità), l'Italia è ultima in Europa per capacità di attrarre studiosi da fuori, ma anche di trattenere i propri cittadini»? Di tutti i dati, però, quelli che più spiccano e fanno sospirare chi si batte perché l'Italia non slitti nelle posizioni di coda sono due. Il primo è il 16° posto che abbiamo nella classifica dei Paesi che hanno ottenuto più finanziamenti europei dal 2002 al 2006: ne abbiamo rastrellato (vergogna...) la metà del Belgio e meno perfino della Slovacchia. Il secondo (al di là dei contributi del 5 per mille a organizzazioni come l'Airc, che secondo le ultime statistiche, ha la fiducia di oltre un milione di italiani: ma questa è un'altra faccenda) è l'avarizia del mondo imprenditoriale, bancario, finanziario. Lo Stato, per quanto sparagnino sia, la sua parte un po' la fa. Anzi, il nostro è quello che mette proporzionalmente la fetta più grossa di tutti i Paesi europei tranne quelli che facevano parte del blocco sovietico. I privati, però, fanno cadere le braccia: mettono nella ricerca lo 0,6% del Pil. Vale a dire, spiegano i dati Ocse del 2007, la metà della media europea. Un terzo della media Ocse. Un quarto di quanto mettono i privati coreani, giapponesi, finlandesi. Un quinto di quanto investono gli svedesi. Difficile, in queste condizioni, tenere il passo degli altri. Difficile combattere il cancro.

Fonte: corriere.it

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