9 nov 2008

Colpito l’impero dei Gionta, 88 in manette

Città sotto scacco. Sotto estorsioni e tangenti; spaccio e ricatti. Sotto paura, alleanze e segreti. Camorra, colletti bianchi, boss, gregari, affiliati, pusher. Migliaia di persone, una fitta rete di collegamenti con la mafia, affari milionari. Il muro dei silenzi è stato rotto l’altra notte dal tintinnio delle manette. Assediato dalla polizia il quartiere «sequestrato» dalle cosche criminali: i Gionta, prima di tutto. Un blitz dai grandi numeri: più di cinquecento agenti per fronteggiare la reazione dei residenti di palazzo Fienga, avamposto del Quadrilatero delle Carceri. Ottantotto ordinanze di custodia cautelare per ripulire il territorio dalla camorra, 28 per esponenti della holding già detenuti. Settantasei arresti, per assicurare alla giustizia i personaggi più attivi della criminalità organizzata di Torre Annunziata. Tre i ricercati. L’irruzione degli agenti del commissariato diretti dal vicequestore Attilio Nappi e quelli del reparto Mobile, coordinati dal procuratore della Repubblica, Giovandomenico Lepore e dal responsabile della Direzione distrettuale antimafia Franco Roberti, tra deboli tentativi di resistenza da parte di numerosi abitanti del quartiere. Un’operazione che secondo gli inquirenti è la più imponente degli ultimi dieci anni messa a segno contro la storica cosca oplontina. Tra i primi destinatari dell’ordinanza, Gemma Donnarumma, moglie del boss Valentino Gionta, detenuto come il figlio Aldo, e Gennaro Longobardi (anche lui detenuto), cugino della donna e boss di Pozzuoli, un tempo legato al clan Nuvoletta, referente di Cosa Nostra in Campania. Manette anche a Teresa Gionta, la figlia del boss, e a un personaggio alla ribalta delle cronache per l’omicidio del giornalista del Mattino Giancarlo Siani: Alfonso Agnello, il primo arrestato ma poco dopo scagionato, finito in carcere poi per altri reati. Con l’esercito dei settanta e più, tra parenti, affiliati e gregari anche delle cosche Gallo-Cavalieri, in carcere decine di pusher appena maggiorenni. Per tutti, accuse di associazione per delinquere di stampo camorristico, omicidio, estorsione, traffico di stupefacenti e altri reati. L’operazione che ha coinvolto anche le questure di Milano, Catania e Pistoia con i relativi reparti di prevenzione crimine, conclusa ieri con una conferenza stampa alla Procura di Napoli, è cominciata alcuni mesi fa quando la polizia ha installato microcimici nel Quadrilatero delle Carceri. Un intervento che all’epoca non ha destato sospetti tra i componenti dei clan abituati a sentirsi protetti nel proprio quartiere. Emergono così bilanci e meccanismi finora soltanto ipotizzabili. Oltre 170mila euro al giorno il guadagno delle cosche per lo spaccio di droga; una serie di intrecci commerciali che ha consentito al clan di acquistare beni mobili e immobili, quote societarie e conti correnti per un valore complessivo di circa 80 milioni di euro. L’attività investigativa ha inoltre consentito di accertare anche mandanti e responsabili degli omicidi di Vincenzo Carotenuto, ucciso a Torre del Greco il 28 gennaio del ’99; di Giovanni Mennella, anch’egli eliminato a Torre del Greco il 17 marzo ’99; di Alfonso Nasto, fratello del collaboratore di giustizia, Aniello, ucciso il 9 dicembre 2007. Secondo gli investigatori, con quel delitto per eliminare il testimone scomodo, il clan Gionta mostrò la propria forza ma anche la propria debolezza. L’ascolto delle intercettazioni ha poi consentito alla polizia di ricostruire le fasi successive il duplice omicidio di Antonio de Angelis e Paolo Genovese, avvenuto a Torre Annunziata nel 2007. Ampio anche il capitolo dell’inchiesta sul versante estorsioni. Un meccanismo «bipartisan» che imponeva ai commercianti di pagare tangenti a tutti i clan della zona «aumentando i prezzi». Ma non solo. In tanti oltre a pagare il pizzo erano costretti a fornire generi alimentari e di abbigliamento ai componenti delle cosche e ai loro familiari. Forte anche il fascicolo relativo alle assunzioni al cimitero di gragari delle cosche e non solo. Ma tra gli elementi che hanno inquietato perfino gli inquirenti, le raccomandazioni chieste ai Gionta per essere assunti come pusher. «Con il controllo delle piazze di spaccio la cosca dei valentini e gli altri gruppi criminali torresi - coltivano e alimentavano la propria area di consenso sociale; ciò che consente allo stesso, in quei contesti di marginalità, di porsi drammaticamente in alternativa ai valori ed alle leggi dello Stato», ha sottolineato ieri il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovandomenico Lepore. Una sorta di richiamo alle istituzioni locali e centrali perché rendano vivibile il territorio anche sul piano occupazionale.

Per un posto di pusher si ricorre alle raccomandazioni

Clan sgominati, traffici illeciti interrotti, 88 ordinanze di custodia. La città si libera da un incubo, i commercianti forse torneranno a lavorare più serenamente, ma resta la sconfortante realtà sociale. «Attraverso la gestione e il controllo delle piazze di spaccio il clan Gionta - così come gli altri gruppi torresi - alimentava la propria area di consenso sociale; ciò che consente allo stesso, in quei contesti di marginalità, di porsi drammaticamente in alternativa ai valori e alle leggi dello Stato», ha detto durante la conferenza stampa di ieri il procuratore della Repubblica di Napoli, Giovandomenico Lepore. Le stesse conversazioni ambientali intercettate presso le abitazioni di Carmine Savino, gestore di uno dei principali luoghi di vendita al dettaglio della droga, «dimostrano in maniera inconfutabile come i gestori di tali piazze siano costantemente sollecitati ad assunzioni di persone in funzione di vedette o pusher». L’antistato a Torre Annunziata risolve, dunque, disagi sociali storici. A cominciare appunto, dalla disoccupazione che continua a emarginare e a rendere impossibile la sopravvivenza di numerose fasce sociali.

Il capo della Mobile: dialetto comprensibile solo a chi è del luogo

I complimenti del capo del reparto Mobile di Napoli, agli agenti di Torre Annunziata. Non soltanto perché per mesi hanno seguito le mosse di centinaia di affiliati e gregari dei clan Gionta e Gallo-Cavalieri, «ma anche perché - ha spiegato il vicequestore Vittorio Pisani - senza di loro non sarebbe stato possibile comprendere il senso dei dialoghi tra affiliati, gregari e pusher: il dialetto stretto di Torre Annunziata è incomprensibile». Le cimici, installate negli androni, nei garage, nei cunicoli che collegano tra loro i numerosi vicoli del Quadrilatero delle Carceri oltre alle voci hanno infatti registrato molti rumori esterni: difficile, dunque, comprendere i discorsi in dialetto. «Torre Annunziata si conferma una città difficile da molti punti di vista - hanno aggiunto gli inquirenti - La complessità dell’operazione è stata infatti legata anche a un ambiente umano dove regnano profonda e diffusa ignoranza, sottocultura e controllo ferrato degli esponenti dell’antistato. Una condizione culturale che alla fine rende complici di un sistema criminale anche quei cittadini che in realtà restano al di fuori dei meccanismi malavitosi». Omertà e silenzi, coprono delitti commessi sotto gli occhi di centinaia di testimoni.

Lezione al figlio: impara a sparare e attento alle microspie

Poche righe, che spiegano come le cosche criminali allevano i propri figli. «È una lettera - ha detto il procuratore aggiunto e coordinatore della Dda Franco Roberti - agghiacciante sotto certi aspetti e interessantissima dal punto di vista criminologico». Un episodio che evidenzia anche le incongruenze del regime che regola il carcere duro: «I detenuti spesso riescono a inviare ordini all’esterno anche attraverso i propri avvocati che loro malgrado vengono individuati come veicoli di informazione. la corrispondenza con il proprio difensore non è infatti censurabile», ha chiarito Roberti. «Caro figlio, non permetterti più di fare qualcosa senza il mio permesso». È l’incipit perentorio della lettera che Aldo Gionta intendeva trasmettere al proprio figlio Valentino jr approfittando dei colloqui con i familiari nel carcere milanese di Opera. La lettera sequestrata dalla polizia penitenziaria il 13 febbraio scorso è un significativo vademecum criminale, dove si raccomanda soprattutto di imparare a sparare con il kalashnikov, di stare alla larga dagli «sbirri», di essere estremamente prudente nel parlare perché le parole potrebbero essere intercettate dalle microspie, e di raccogliere i soldi necessari a pagare gli avvocati.

Le manager della camorra tra famiglia e affari fuorilegge

Con Valentino e Aldo Gionta in carcere, il comando dell’attività criminale era da tempo affidato alle donne del clan. La prima manager della cosca era Gemma Donnarumma, moglie del capo. Le signore custodivano armi e droga, si occupavano della gestione della manovalanza, della riscuossione dei proventi del racket delle estorsioni e di tutti gli affari illeciti. È uno degli spaccati dell’inchiesta della Dda di Napoli. All’alba di ieri, quando gli agenti hanno suonato alla porta dell’abitazione del boss, Gemma Donnarumma ha prima accennato a un malore, poi ha tentato un debole tentativo di ostacolare l’arresto. Infine, si è lasciata ammanettare dagli uomini del vicequestore Attilio Nappi. Secondo gli investigatori la moglie del capoclan, è stata sempre molto accorta, la più attenta nel quartiere. Nonostante come gli altri, la donna non sapesse di essere intercettata, non ha mai parlato troppo apertamente degli affari della cosca, ha sempre usato sinonimi, e falsi nomi per indicare fatti e personaggi. Lei, come la figlia Teresa, e come le altre donne del clan (di cui nove arrestate ieri), secondo l’accusa, oltre a custodire armi e droga di proprietà della cosca, concorrevano nella stessa elaborazione delle linee strategiche dell’organizzazione criminale. «Il ruolo delle donne del clan - ha detto Franco Roberti, coordinatore della Dda - è sempre importante, quando i capi sono detenuti diventano dirigenti vicari». «Partecipavano - ha aggiunto Vittorio Pisani, capo della Mobile di Napoli - a qualsiasi attività illecita che riguardasse il clan senza alcuna diminutio rispetto agli uomini».

Carichi di coca divisi per cosche, la holding criminale come una Spa

Una holding con un sistema di quote e partecipazioni come una società per azioni. Quando i carichi di droga erano troppo costosi, il clan Gionta consentiva agli altri gruppi, in qualche caso anche stranieri, di contribuire all’approvvigionamento. Le indagini condotte dalle questure di diverse città italiane hanno infatti evidenziato che la cosca torrese avesse legami anche con malavitosi di Napoli e con cosche siciliane, toscane, lombarde e marchigiane, attraverso la presenza di un contabile sul posto. Nelle fila del clan Gionta anche personaggi legati ai Nuvoletta, referenti di Cosa Nostra nel Napoletano: è il caso di Gennaro Longobardi, per esempio, già detenuto a L’Aquila al regime di 41 bis, dove il capoclan dell’area flegrea ha stretto un patto con i Sarno di Ponticelli. Longobardi è cugino di Gemma Donnarumma. Secondo gli investigatori, la droga veniva importata dal clan attraverso canali e strutture logistiche fornite dall’azienda di trasporti di Carmine Romeo e Francesca Cipriano.

Ma il Droga-market non chiude mai

Torre Annunziata. Sia sincero, Lei ci va nel Quadrilatero? «Ogni volta che voglio». Davvero? «Parlo con tutti. Ma so che da sindaco rischio anche di essere trattato male». Ci accompagna a casa Gionta? «Stamattina non è il caso. C’è rabbia dopo gli arresti. E non gradiscono fotografie». Torre Annunziata, dove lo Stato «ci sta». Però non sempre. Né ovunque. Qui capita che per entrare nei rioni disgraziati ci sia bisogno della scorta delle Volanti. E capita che a volte anche gli agenti diano la sensazione di aver bisogno di qualcun altro (ma chi?) che li protegga. Non fermatevi, per piacere. Né rallentate. Non attardatevi, per carità. E non dite parola. Vicoli proibiti. A libertà vigilata (ma per gli onesti). Case diroccate, covi di latitanti. Emergenza barbarie. Dove chi è normale ubbidisce. E chi è criminale comanda. E fa soldi a palate. «Spero che tra gli arrestati ci sia qualcuno disposto a raccontare quel che accadde la notte di Capodanno scorso, quando dai vicoli del Quadrilatero delle Carceri qualcuno sparò in alto, contro il balcone di casa mia, e colpì a morte il mio Giuseppe che giocava a carte in salotto». Carmela Sermino, vedova Veropalumbo e mamma di Ludovica, due anni, non abita più nell’appartamento al nono piano dell’edificio che sta di fronte al rione maledetto, quello dove le forze dell’ordine fanno fatica a entrare, quello in cui comandano i Gionta, quello da cui ogni sera esce droga a vangate da vendere in città sotto gli occhi di tutti, forze dell’ordine comprese. «Ho cambiato casa, non ce la facevo più a guardare quelle facce cattive ridere e sfottere a due passi da me», sussurra la donna che ancora aspetta briciole di verità su quella morte così ingiusta e atroce. «Quadrilatero», il giorno dopo. «La gente? Sembra un animale ferito che si rifugia in tana aspettando che il sangue si coaguli», dice il sindaco Giosuè Starita, avvocato e osservatore intelligente. C’è aria di attesa, nei vicoli a libertà negata. Per vedere l’effetto che fa. «Hanno fatto un po’ di pulizia», sussurra scettica una donna che esce dal bar. «Contano su alleati potenti. Investono a Milano e a Catania, sono nemici di casa nostra», commenta un giovane di corsa. «Gemma Donnarumma è una che conta. Ma la ragnatela dei pusher è a prova di bomba. Sbaglia chi pensa che il colpo sia mortale», osserva un vecchio che sorride strano. Quarantottomila anime. Ma diminuiscono ogni giorno di più. Da Torre Annunziata la gente scappa. Infastidita. Inorridita. Nauseata. Dai pedofili di rione Poverelli, da tutto questo sangue, da tutta questa droga, dai morti ammazzati, dalla prepotenza dei boss. «Bisogna vincere la rassegnazione», invoca chi si rende conto dell’immenso dramma comunitario in atto. Qui sta per nascere il nuovo «Gruppo» carabinieri. Vuol dire più uomini, più autonomia, più operatività. Si spera. Ma Torre resta luogo anomalo. Dove è necessario affidare la gestione degli appalti da 500mila euro in su al provveditorato opere pubbliche. E comunicare a carabinieri e polizia ogni nuova aggiudicazione di appalto. Misure straordinarie. Contro una malavita straordinaria. Sotto tiro finisce perfino la festa della Madonna della Neve, patrona dei pescatori: fa scalpore la decisione (coraggiosa) del Comune di affidare a trattativa privata l’installazione delle luminarie ai titolari (sotto scorta) della ditta, la Roger di Mercato San Severino, che l’anno scorso aveva denunciato richieste di pizzo sia da parte sia del clan Gionta sia del clan Gallo. Quadrilatero, Belvedere, rione Murattiano: la zona sud è feudo di camorra che sniffa, ammazza, avvelena. Che ragiona poco. E male. Il sindaco Starita: «È al via il progetto zona franca-urbana: in una vasta area del centro antico sarà possibile investire e aprire botteghe senza pagare le tasse per cinque anni». Artigiani al posto dei pusher. Nella casbah di Bilbao, Spagna, la scommessa è già stata vinta. Qui è al via la videosorveglianza. Sperando che non rubino le telecamere. Dice Ciro Alfieri, assessore alle politiche sociali: «In un anno, meno di 100mila euro. Per noi e altri tre Comuni. Abbiamo coinvolto 150 ragazzi a rischio. Pochi, rispetto allo sfascio». È quasi sera qui nel vicolo fabbrica-sogni. Il giovane smilzo va trascinando i piedi. Ha viso funebre. Presto, presto. Chè i clienti mica aspettano. Ecco, riapre Droga-market. Perché, che credevate?

Fonte: SdG News

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