16 dic 2007

Processi lenti, risarcimenti in aumento. 500 milioni all'anno, un serio rischio per l'intera finanza pubblica italiana.

ROMA — Al Tesoro fino a ieri la chiamavano «operazione aringa», perché ricontrollando da capo a fondo la loro spesa pubblica, i tedeschi avevano scoperto, scandalizzandosi alquanto, che lo Stato ancora dava i contributi decisi da Otto von Bismarck ai pescatori di aringhe nel Mare del Nord. Adesso a via XX Settembre hanno deciso di chiamarla semplicemente «revisione della spesa»: c'è poco da scherzare, perché da noi, da quando è cominciata, più che aringhe saltano fuori bombe a orologeria. Prassi, abitudini e leggi, qualche volta dimenticate, che producono o sono in grado di produrre sul bilancio pubblico effetti semplicemente «raccapriccianti» per dirla con il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa. Meccanismi perversi tipicamente italiani, come la legge Pinto varata nel 2001 dal Parlamento che per accelerare i tempi della giustizia, ed evitare che la Corte di Strasburgo fosse sommersa di ricorsi da parte dei cittadini italiani, riconosceva «un'equa riparazione» a chi subisce i tempi «non ragionevoli» di un processo. La legge rispondeva alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che dà diritto a ogni cittadino ad «un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti a un tribunale indipendente». Nell'impianto originario della legge Pinto c'erano anche delle regole che andavano alla radice del problema, cioè accelerare le procedure della macchina giudiziaria. Nel corso della lunga discussione parlamentare, però, vennero cancellate. Ed è rimasto solo il deterrente, cioè l'istituto del risarcimento. Con il risultato che negli ultimi sei anni i tempi della giustizia sono diventati ancora più lunghi, mentre i risarcimenti della legge Pinto sono diventati sempre più numerosi e costosi.

Al punto da rappresentare un altro pesante aggravio di lavoro per la già stracarica e lenta giustizia italiana, e soprattutto un serio rischio per l'intera finanza pubblica italiana. Una «bolla» da mezzo miliardo di euro l'anno, pronta a scoppiare. Basta fare due conti, come ha fatto la Commissione tecnica per la spesa pubblica, per rendersene conto. Allo stato la quasi totalità dei circa 50 mila ricorsi civili che giungono annualmente in Cassazione ha superato i cinque anni di pendenza complessiva. E questo significa che almeno 100 mila soggetti l'anno (perché il risarcimento riguarda tutte le parti in causa, quindi almeno due) hanno potenzialmente diritto all'indennizzo. Calcolando un risarcimento medio di 4 mila euro a testa e altri mille per per il rimborso delle spese di difesa, «le sole cause introdotte in un anno potrebbero determinare — scrive la Commissione — una spesa di 500 milioni di euro». Mille miliardi di vecchie lire, ed è un calcolo abbondantemente per difetto, perché anche una parte significativa dei 150 mila procedimenti che ogni anno vengono introdotti in appello scivola oltre i cinque anni. Che non è il limite della «ragionevolezza », perché la legge non lo stabilisce con precisione, ma pare che così venga interpretato dagli stessi giudici. Secondo il Tesoro si tratta di un «onere latente», ma a guardar bene mica tanto. Anche perché lo stesso Tesoro non è in grado di dire effettivamente quanto si spende già oggi per la legge Pinto. Nel 2003 i procedimenti per l'equa riparazione furono poco più di 5 mila con una spesa di 5 milioni. Poi c'è stata una crescita rapidissima, 8.907 nel 2004, 12.130 nel 2005, 20.560 nel 2006. Il carico di lavoro della magistratura è cresciuto e le risorse stanziate in bilancio per coprire le spese di riparazione si sono rivelate insufficienti. Ogni anno gli esborsi hanno superato di gran lunga gli stanziamenti di bilancio (10 milioni nel 2005, 18 nel 2006), con il risultato che «i risarcimenti che non hanno trovato copertura sono andati ad alimentare il debito sommerso» del ministero della Giustizia, scrive la Commissione sulla spesa pubblica. A quanto ammonti la spesa reale nessuno lo sa: «Importi - si dice - di difficile quantificazione». Comunque abbastanza per convincere la Commissione sulla spesa pubblica e il ministro Padoa-Schioppa che occorra far qualcosa. Ma cosa? «La riduzione della durata dei processi è un obiettivo indeclinabile per migliorare le dinamiche della spesa» dice la Commissione. Ma pur essendo «obiettivo prioritario » da tempo i risultati scarseggiano. Negli ultimi vent'anni lo stock delle cause civili arretrate è triplicato e nel 2004, tra primo e secondo grado, superava i 3 milioni di procedimenti. Nello stesso periodo i processi penali sono raddoppiati, e così la durata media: dal 1975 al 2004 la lunghezza delle cause civili è cresciuta del 90%, e per quelle di contenuto economico, addirittura, del 97% (la media attuale è di circa 2.700 giorni di durata). In Corte d'Appello, il carico di lavoro dei magistrati ha segnato solo una marginale flessione nel 2004, ma nel 2005 la crescita dell'arretrato è ripresa superando ogni record. E sarebbe continuata inesorabilmente anche nel 2006 e nell'anno in corso.

Del resto, finora nessuno ha mai messo le mani sui veri fattori che determinano le lentezze della macchina giudiziaria, alcuni dei quali sono stati messi a nudo dalla stessa Commissione sulla spesa pubblica, come la remunerazione degli avvocati (che dovrebbe essere basata su formule di forfettizzazione, invece che a prestazione) o il sottodimensionamento degli uffici giudiziari. Oggi, comunque, l'unica soluzione a portata di mano per mettere al sicuro la finanza pubblica dai danni del «processo irragionevole» sembra essere quella di riconsiderare la legge. Disinnescare la bomba, quindi. «E' opportuno e urgente una rivisitazione della legge» dice la Commissione. Perché «persistendo l'attuale situazione esiste un rischio di generalizzata duplicazione dei giudizi di merito di durata "irragionevole" con giudizi di equa riparazione, con costi elevatissimi e indebolimento ulteriore della capacità del sistema di rispondere alla domanda di giustizia».

corriere.it

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