11 ott 2007

I giudici: sulla vicenda Speciale, Visco ha mentito tre volte

E la Corte dei conti boccia il governo sul decreto con cui il generale fu sostituito

ROMA - Sostiene la Procura di Roma che Vincenzo Visco abbia mentito tre volte. Che è pur vero che è "illazione priva di riscontri" l'idea insufflata dal centrodestra che le sue mosse nell'affare Speciale siano state mosse da un interesse nella "vicenda Unipol-Bnl". Che è altrettanto vero che il comportamento del suo antagonista, l'ex Comandante generale della Guardia di Finanza, Roberto Speciale, "appare quanto meno discutibile" (si dichiara vittima di pressioni che prima asseconda e quindi, per un anno, omette di denunciare nella sede propria, una Procura della Repubblica). Ma il fatto resta. Visco non avrebbe detto il vero. E quel che è peggio - osservano il Procuratore di Roma Giovanni Ferrara e il suo sostituto Angelantonio Racanelli - a smentirlo sarebbero stati anche quei testimoni da lui indicati a sostegno della sua ricostruzione.

La lettura delle 13 pagine del provvedimento che chiede l'archiviazione delle ipotesi di abuso e minacce per il viceministro dell'Economia conferma e documenta in quale guaio sia stato nuovamente gettato. Risolto con un tratto di penna l'aspetto penale della vicenda (due pagine e mezza), i pubblici ministeri si dedicano infatti alla demolizione sistematica delle mosse di Visco e delle ragioni che le avrebbero ispirate. Il codice penale non c'entra più. I due pm affrontano prima l'aspetto amministrativo della vicenda. "La condotta tenuta - scrivono - è illegittima, perché in violazione di specifiche norme di legge che non gli conferiscono il potere di disporre o di ordinare il trasferimento di ufficiali del Corpo" (si trattava della catena di comando della Guardia di Finanza di Milano). Visco ne "aveva la consapevolezza" e "volontariamente ha tenuto comportamenti antigiuridici".

Quindi, procedono nell'indagine delle ragioni che avrebbero mosso il viceministro. Scrivono di non esserne venuti a capo - "rimane ancora oscuro il motivo per cui era interessato al trasferimento di quattro ufficiali" - ma la constatazione è propedeutica al successivo affondo. Quelle ragioni, argomentano, le avrebbe dovute o potute spiegare lo stesso Visco. Che, al contrario, "ha reso dichiarazioni non solo poco plausibili, ma completamente smentite dagli accertamenti svolti, dagli stessi testimoni da lui indicati, dalla documentazione acquisita".

Visco - censurano - non dice il vero sull'origine della storia. Perché non è vero che la decisione di trasferire i quattro ufficiali di Milano maturò dopo un incontro del 13 luglio 2006 con l'allora comandante in seconda Pappa e il capo di Stato maggiore Favaro. E' vero semmai il contrario. "In quell'incontro il viceministro si presentò già con un appunto sugli ufficiali in questione". Come è altrettanto vero che "dalla documentazione prodotta dal generale Speciale è emerso che tentativi di interferenza siano emersi anche in altre occasioni". E' - sostengono - la prima bugia di Visco. Non l'ultima.

La seconda riguarda "l'attività e professionalità dei quattro ufficiali di Milano di cui aveva ordinato il trasferimento". Non è vero che mostrassero lassismo nel contrasto all'evasione fiscale. E' vero se mai il contrario. "I quattro ufficiali godevano di giudizi lusinghieri". La terza ha a che vedere con la circostanza che i quattro "da troppo tempo fossero a Milano". Perché, scrivono i pm, è lo stesso Visco, durante il suo interrogatorio del 28 giugno, ad ammettere di "non avere la più pallida idea di cosa facessero". Di essere a conoscenza soltanto "del loro rapporto molto stretto con i vertici della Guardia di Finanza e, presumibilmente, con la precedente gestione governativa". "Dichiarazione - chiosano i due magistrati - che sicuramente confligge con i principi che nel nostro ordinamento regolano il rapporto tra autorità politica e autorità amministrativa".

Come si vede, ce ne sarebbe già abbastanza. Anche se a completare il quadro, c'è quel che cova sotto la cenere del ricorso promosso da Speciale che, il 7 novembre, il Tar discuterà nel merito (il generale chiede l'annullamento del decreto con cui è stato destituito e 5 milioni di euro di risarcimento). Nell'ingessato carteggio che lo correda, si scopre infatti che la Corte dei Conti, pur faticosamente ratificando a suo tempo le decisioni del governo, in realtà ha posto le basi perché Palazzo Chigi perda la partita.

Il 13 giugno scorso, infatti, la magistratura contabile dà semaforo verde al decreto che dispone l'avvicendamento dei generali Cosimo D'Arrigo e Roberto Speciale spalancando di fatto la porta a un futuro annullamento della decisione del Consiglio dei ministri. E lo fa così: dà atto al Governo che vi fossero "ragioni di urgenza" nel provvedere alla sostituzione di Speciale, di "dichiarata incompatibilità ambientale" prodotta dall'affare Visco. Ma, osserva, "la Costituzione fissa all'articolo 97 il principio della trasparenza dell'azione amministrativa". Il decreto di nomina di D'Arrigo non poteva dunque dare "per implicita" la sostituzione di Speciale, perché questo "non è ammissibile".

Non è un rilievo da poco. Al punto che, nel muoverlo, la magistratura contabile segnala che di quel che è accaduto, Palazzo Chigi "vorrà tenere conto per l'avvenire". Leggi: non dovrà ripetersi in futuro. La premessa è utile alla conclusione. Scrive la Corte: il decreto può essere registrato soltanto perché "si deve ritenere che i rilievi procedimentali sono in parte attenuati anche in considerazione del fatto che le motivazioni evocano ragioni di ordine prevalentemente politico, in relazioni alle quali questo ufficio si astiene da ogni valutazione". E' un passo laterale e furbo. La Corte registra il decreto, ma di fatto ne denuncia l'illegittimità amministrativa.

Fonte: repubblica.it

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