8 ago 2007

Mercato da slegare

Sono passati esattamente trent’anni da quando uscì in Italia la traduzione di un celebre libro degli Anni 70, La crisi fiscale dello Stato, dell’economista neomarxista James O’Connor. A quei tempi le nostre società venivano da un lungo periodo di crescita economica, di espansione dell’intervento pubblico. Ma venivano soprattutto da un progressivo ampliamento del cosiddetto Stato sociale, ossia delle istituzioni preposte a garantire a tutti istruzione, salute, assistenza, e una pensione nella vecchiaia. Il libro di O’Connor, come molti altri usciti in quegli anni, prendeva atto che quel tipo di sviluppo stava irrimediabilmente tramontando: l’economia, dopo il doppio choc degli incrementi salariali (fine Anni 60) e della prima crisi del petrolio (1973), era intrappolata nella «stagflazione», miscela esplosiva di stagnazione e inflazione, mentre i quattrini che il fisco riusciva a drenare dalle tasche di famiglie e imprese non bastavano a tener dietro all’impetuosa domanda di welfare, ossia di nuovi e migliori servizi sociali.

Di qui il trilemma di tutte le economie sviluppate: aumentare le tasse, lasciar correre il debito pubblico, ridimensionare lo Stato sociale. Di qui anche - soprattutto da parte della sinistra - il giustificato timore che la risposta alla «crisi fiscale dello Stato» finisse per risolversi in un più o meno radicale ridimensionamento di quel gioiello sociale pazientemente costruito in trent’anni di pace e tenacemente difeso dalle organizzazioni dei lavoratori un po’ in tutto l’Occidente. Oggi, a tanti anni di distanza, non si può dire che quei timori fossero del tutto infondati. Almeno in due casi, quello degli Stati Uniti (Reagan) e del Regno Unito (Thatcher), la risposta principale alla crisi fiscale dello Stato fu effettivamente un ridimensionamento dello Stato sociale, talora accompagnato da drastiche riduzioni delle tasse e da bilanci pubblici in rosso, ma sempre compensato da buoni risultati in termini di crescita dell'economia. E tuttavia se guardiamo all’Europa, e in particolare all’Italia, è difficile non vedere che oggi, dopo tre decenni di vani tentativi di venire a capo di quel problema, i suoi termini si sono del tutto capovolti: chi volesse scrivere un libro sulla crisi italiana nel 2007 non potrebbe più intitolarlo La crisi fiscale dello Stato, ma dovrebbe chiamarlo, semmai, La crisi fiscale del mercato. Quel che è successo da allora, infatti, è che l’Italia ha imboccato prima - negli spensierati anni del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) - la strada della crescita senza freni del debito pubblico; poi, nei difficili anni di transizione fra la prima e la seconda Repubblica - dal primo governo Amato (1992) al primo governo Prodi (1998) - la strada del risanamento dei conti pubblici attraverso il solo aumento della pressione fiscale, ossia senza toccare lo Stato sociale; e da ultimo - nella lunga stagione che inizia con D’Alema e Amato, passa per Berlusconi e infine ritorna a Prodi - la strada del galleggiamento, con un costante deterioramento strutturale del deficit pubblico e - a partire dal 2000, ossia dall’ultimo governo di centro-sinistra prima del quinquennio berlusconiano (secondo governo Amato) - con un costante e spettacolare aumento dell’interposizione pubblica, ossia della somma di prelievo fiscale e spesa pubblica. Un aumento che, secondo le stesse stime governative, è destinato a proseguire quest'anno e, verosimilmente, anche nel 2008, anno in cui - secondo lo stesso Dpef - attendono di trovare copertura spese aggiuntive inevitabili per circa 20 miliardi di euro (oltre un punto di Pil). A trent’anni dalla stagione del «salario come variabile indipendente», ciò cui stiamo assistendo, in questi anni, è una politica economica completamente ostaggio della ricerca del consenso, una politica in cui - secondo la felice espressione di Luigi Spaventa - è la spesa pubblica l’unica «vera variabile indipendente» del sistema. La conseguenza fondamentale di questa politica, che nelle sue linee generali ha accomunato tutti i governi succeduti al primo governo Prodi del 1996-1998 (fatto cadere da Bertinotti), è stato il progressivo soffocamento del mercato, ossia delle possibilità di crescita del Paese, da parte dell’invadenza degli apparati pubblici, nella doppia veste di avidi esattori fiscali e di inefficienti erogatori di servizi. Non è forse inutile ricordare che la pressione fiscale generale in Italia è fra le più alte dell’Eurozona, ed è anzi la prima assoluta se la si calcola sui soli contribuenti onesti. Quanto alla pressione fiscale sulle imprese, siamo preceduti solo dalla Germania, ma fra pochi mesi - con la drastica riduzione delle aliquote recentemente decisa dalla Merkel - riusciremo a diventare i primi anche lì. Quest’ultimo aspetto, quello di un’insostenibile pressione fiscale sulle imprese, è particolarmente grave proprio se si pensa che sia un bene «salvare» lo Stato sociale. Contrariamente a quanto sembrano ritenere i politici della sinistra conservatrice, da Diliberto a Bertinotti, se c’è una chance di salvare lo Stato sociale essa passa sia attraverso una progressiva riduzione degli sprechi (capaci di liberare risorse per circa 40 miliardi di euro), sia - soprattutto - attraverso un sensibile aumento del tasso di crescita del Pil: da oltre un decennio, infatti, il Pil italiano cresce - chiunque sia al governo - quasi un punto in meno di quello degli altri Paesi dell’Eurozona, e tutta l’evidenza comparativa disponibile suggerisce che siano innanzitutto le nostre altissime aliquote sul reddito di impresa (oltre il 37 per cento, contro una media europea prossima al 25) a scoraggiare gli investimenti stranieri e a frenare la crescita. Passare dall’1,5 per cento al 2,5 può sembrare un cambiamento di poco conto, ma in realtà un aumento di un punto del tasso di crescita significherebbe portare ogni anno 400-500 euro in più nel bilancio familiare medio, nonché un gettito aggiuntivo di 6-7 miliardi a disposizione delle politiche pubbliche (quasi il triplo del famigerato «tesoretto»).

Da questo punto di vista non si può che accogliere con favore l’idea, ventilata in questi giorni dal ministro Visco, di tagliare gli incentivi selettivi alle imprese e usarli per una consistente e generalizzata riduzione dell’Ires e dell’Irap, ossia delle due principali imposte che gravano sui produttori. Purché, come l’esperienza degli altri Paesi insegna (e come ci ricorda Contro le tasse, il bel pamphlet appena pubblicato da Oscar Giannino), tale riduzione sia drastica e concentrata nel tempo: l’unico modo che permette al fisco di inviare segnali chiari al mercato, ponendo fine alla lunga crisi che ha reso il mercato stesso ostaggio dello Stato.

Fonte: lastampa.it

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