28 feb 2010

Di Girolamo pensa alla resa «È pronto a dimettersi e a parlare». I magistrati hanno deciso il sequestro di tutti i beni del parlamentare

Il colloquio con l’amico senatore De Gregorio. «Mi hanno fatto simbolo di ciò che c'è da buttare in questo Paese»

ROMA — La voce è tesa, la faccia pallida, scavata da giorni di paura e di vergogna. «Sergio, io non ce la faccio più, mi dimetto». «Fai bene, Nicola, fai bene». «Mi dimetto e parlo: collaboro». «Sì, vai dai magistrati e affronta il processo: evitati il calvario del voto in aula». Metà pomeriggio, ufficio a Palazzo Madama del senatore De Gregorio. Il giorno più lungo per Nicola Di Girolamo si consuma qui, in una trentina di minuti che pesano quanto trent'anni di vita. Lo «schiavo» di Gennaro Mokbel nelle intercettazioni telefoniche, il parafulmini della gigantesca inchiesta antiriciclaggio che fa ballare da giorni la politica italiana, l’uomo per il quale i picciotti della 'ndrangheta erano andati a raccogliere voti porta a porta fino in Germania, è pronto a gettare la spugna: «Lunedì voglio presentare le dimissioni al Senato», dice a De Gregorio, che gli è stato consigliere e amico in questi due anni. Ma già oggi la decisione potrebbe essere formalizzata, dopo una serata e una nottata a studiare le carte, mordersi le mani, imprecare, guardare la tv e le agenzie mentre il martellamento continua, mentre gli piove in casa un decreto di sequestro su tutti i beni, appartamenti, barca, automobili, conti correnti. Mentre la moglie Antonella e i ragazzi, Francesco e Alessandro, gli dicono: «Siamo con te, resisti». Almeno quello, almeno loro.

Come sta, senatore? Alle sette di sera scorrono i titoli del tg. Lui alza la testa dal tavolo dove sta leggendo la monumentale ordinanza con 56 richieste d'arresto, fa un risolino nervoso e risponde: «Non ha un'altra domanda?». Pare che non la conosca più nessuno, in Italia... Pare che lei sia sceso improvvisamente dalla luna e si sia messo in lista da solo. «Sì, sono diventato il simbolo di tutto ciò che si deve buttare via in questo Paese». Il suo avvocato, Paolo Dell'Anno, mente per difenderlo, per tenerlo lontano dall'assalto dei giornalisti: «Oggi non l'ho visto», dice al telefono, mentre il senatore gli sta davanti.

Il Pd parla di pericolo di fuga, il capogruppo democratico nella giunta per le immunità, Francesco Sanna, si rivolge al presidente della giunta, Marco Follini, perché gli venga imposto di rimanere a Roma. E' quest'idea della fuga, probabilmente, che colma la misura. «Di scappare non mi passa neanche per la testa». Dice Di Girolamo: «Adesso basta». Già da ore ha in mente un gesto che metta fine a tutta la storia. Prima di decidere, tuttavia, non può che andare da «Sergio», dal senatore De Gregorio che, in fondo, s'è assunto anche il ruolo di portavoce informale per i colleghi come lui, per la pattuglia della «legione straniera», gli eletti all'estero che ha fatto entrare nella sua fondazione, «Italiani nel Mondo».

Il caso vuole che proprio nelle stesse ore il tribunale del Riesame di Napoli respinga per la seconda volta una richiesta di arresto in una vecchia storia di riciclaggio su cui la procura napoletana continua a stare appresso a De Gregorio. Sicché sulla scrivania del senatore del Pdl arrivano i rallegramenti dei colleghi. In quei pochi metri quadrati di ufficio a Palazzo Madama lo stato d'animo dei due amici non potrebbe essere più diverso. De Gregorio è combattivo: «Hanno trasformato Nicola nel mostro nazionale. Non scapperebbe mai, ma, persino se volesse scappare, non ha più nemmeno i soldi per prendere l'autobus, gli è stato sequestrato tutto».

«Nicola» fa fatica a parlare anche con la propria immagine allo specchio. Però la decisione sembra, a questo punto, presa e condivisa. «Rincuoro la mia famiglia, leggo le carte e mi consegno alla giustizia», annuncia. «Secondo me, devi evitare la discussione in aula», gli suggerisce l'amico. Il tempo di lasciare il Senato e di spostarsi nello studio del suo legale e comincia la seconda parte di questa giornata interminabile. «Tutti hanno letto le mille e ottocento pagine dell'ordinanza tranne lui», sbuffa De Gregorio. Passano le dichiarazioni in agenzia, Berlusconi che spiega di non avere «mai conosciuto il senatore indagato»; D'Alema, dal Copasir, che chiede il rispetto per quelle leggi che «Di Girolamo ha violato». E poi Schifani e poi i colleghi, e poi gli (ex) amici di partito: se ha un merito, questo senatore compromesso e impresentabile, è avere dimostrato quanto compromessa e impresentabile sia la legge che ne ha regolato l’elezione.

Dalla prossima settimana Di Girolamo avrà da spiegare molte cose ai magistrati. C’è quella frase di Mokbel, «tu sei lo schiavo mio, ricordatelo», che è la sintesi dei suoi errori, pesa e peserà come un macigno sul resto dei suoi giorni. De Gregorio in qualche misura l’accompagna a distanza in questa terribile serata, adesso parla per lui. Dice: «A uno come Mokbel staccherei la testa a ceffoni se si permettesse di darmi dello "schiavo". Ma bisogna partire dal presupposto che Nicola è un ragazzo cresciuto nella bambagia, negli agi, e vive la politica come una fissazione. Gli si avvicina questa banda di "fetienti" e lui sta al gioco, lascia fare. Alla fine quelli gli presentano il conto». Forse l’analisi è un po’ benevola ... «D’accordo, è vero che Mokbel gli ha messo a disposizione la struttura e i mezzi, ma appena lui è stato eletto, gli ha presentato il conto. Lui ha tentato di affrancarsi ma aveva fatto un miliardo di cavolate, non c’era più verso di uscirne». Ora hanno ragione di tremare altri politici del Pdl? In fondo, in una intervista piuttosto allusiva al Sole 24 Ore lei lo ha fatto capire. «No, no. Io dico solo: attenti a consegnare durante la campagna elettorale un senatore al suo destino».

Fonte: corriere.it

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