3 apr 2009

Portaborse, 6 su 10 in «nero». Fini e Schifani: prassi inaccettabile.

L’Italia non imita l’Europa
Disattesi gli impegni presi nella scorsa legislatura. Il presidente del Senato giura: soluzione in arrivo

Evidenziare tutto, copia­re, incollare. Ecco cosa dovrebbero fare, Camera e Se­nato, per dare una prova di se­rietà sui portaborse: prende­re le nuove regole dell'Ue e adottarle uguali identiche. L'immagine offerta ancora una volta in questi giorni, con centinaia di assistenti sot­topagati che lavorano in nero dentro i «templi della demo­crazia », infatti, non fa onore ai nostri rappresentanti. I quali, in questa faccen­da, sono recidivi.

Ricordate cosa assicurava­no le notizie di agenzia del 13 marzo 2007, dopo lo scop­pio dello scandalo dovuto ai servizi delle «Iene» che ave­vano dimostrato come dei 683 collaboratori accreditati alla Camera solo 54 avessero un contratto regolare? Te­stuale: «La Presidenza della Camera ha approvato sta­mattina la delibera che met­te fine all’anarchica situazio­ne dei collaboratori parla­mentari. L’impegno a sana­re i numerosi casi dei 'porta­borse in nero' era stato pre­so dai presidenti delle due Camere, Fausto Bertinotti e Franco Marini». Tutto già fatto, pareva: «I deputati hanno due mesi di tempo per conformarsi alla nuova procedura: dovranno, cioè, consegnare una copia del contratto stipulato e appro­vato da un consulente del la­voro. Il contratto potrà esse­re stipulato anche con quei collaboratori che abbiano già un rapporto di lavoro con un soggetto terzo legato a sua volta al deputato, al partito o al gruppo parla­mentare di riferimento».

Chiacchiere. Promesse fat­te per guadagnare tempo aspettando che l’indignazio­ne dei cittadini si placasse. Esattamente come era già successo con l’intimazione ai deputati di due anni pri­ma: «I rapporti di collabora­zione a titolo oneroso do­vranno essere attestati, al momento della richiesta di accredito, mediante la conse­gna agli uffici di copia del re­lativo contratto». Pochi me­si e come previsto, nel luglio 2007, arrivò infatti l’aggiu­statina: oltre a quelli con re­golare contratto avrebbero potuto avere il tesserino di accesso ai palazzi della politi­ca anche «persone che svol­gano attività di tirocinio for­mativo» e poi «soggetti tito­lari di reddito da pensione» e poi «dipendenti di enti pubblici o privati che dichia­rino di svolgere attività di collaborazione a titolo non oneroso in favore del deputa­to... ». Insomma: tutti.

Il servizio di Marco Occhi­pinti e Filippo Roma per il programma di Italia Uno è sferzante. Spiega che certo, ci sono diverse eccezioni. Come quella dell’assisten­te di Santo Versace, che si chiama Massimo Migliosi e dice che sì, è vero, lui è in regola: «Ma sono uno dei pochi». E gli altri? La mag­gior parte lavora in nero. Guadagnando dai tre ai set­tecento euro. Su 516 porta­borse accreditati, solo 194 hanno un contratto e quin­di uno stipendio Gli altri 322, cioè il 62 %, non hanno un contratto e quindi niente stipendio.

Proprio come due anni fa. Quando, per esempio, il na­zional- alleato Carlo Ciccioli spiegava romanescamente: «La politica ha dei grossi co­sti. Quindi ognuno s’aran­gia ». Cioè? Rispose che lui «s’arangiava» allungando ai collaboratori qualche bi­gliettone: «Quattro o cin­quecento euro ar mese pe’ fa ’na cosa. Quattro o cin­quecento pe’ fanne ’n’an­tra... ». Eppure, in aggiunta all’indennità e a tutte le al­tre voci, i parlamentari pren­dono ogni mese 4.678 euro al Senato e 4.190 alla Came­ra proprio perché paghino dignitosamente i collabora­tori. Il guaio è che, di fatto, nessuno chiede loro di di­mostrare che girano effetti­vamente quei soldi agli assistenti. Tanto che il senatore di An An­tonio Paravia, avendo chiesto lu­mi al segretario generale di Palaz­zo Madama An­tonio Malaschi­ni, si era visto ri­spondere che «il contributo per il supporto di attività e compiti degli onore­voli senatori connessi con lo svolgimento del mandato parlamentare, ero­gato mensilmente, non ha alcun vincolo di destinazio­ne rispetto a eventuali pre­stazioni lavorative rese da terzi o a possibili configura­zioni contrattuali». Tradu­zione: la scelta di come com­portarsi spettava solo al par­lamentare.

Le cose, da allora, sono ri­maste sostanzialmente intat­te. L’unica vera differenza è che questa volta, quando si sono trovati sotto il naso il microfono delle «Iene» (che mandano in onda le intervi­ste stasera) i presidenti del­la Camera e del Senato han­no almeno evitato di manife­stare lo stupore che due an­ni fa mostrò Fausto Berti­notti dicendo: «Non lo sape­vo». Loro sì, ammettono di saper bene qual è l’andazzo. Gianfranco Fini, dopo aver riconosciuto che «da un punto di vista morale è un comportamento poco onore­vole, una formula molto di­plomatica per dire che è un comportamento inaccettabi­le», dice che occorre «verifi­care che chi entra alla Came­ra, dichiarando di essere col­laboratore di quel tal depu­tato, abbia un contratto di lavoro» perché «non devo­no esserci volontari. O me­glio... in molti casi il volon­tario è un lavoratore in nero e questo è inaccettabile». Quanto a Renato Schifani, giura che proprio «in questi giorni» stanno «discutendo in commissione» una legge da far approvare in commis­sione «senza che passi dal­l’aula, quindi in tempi mol­to brevi», per regolamenta­re la faccenda «una volta per tutte». Magari introdu­cendo un «albo» dei porta­borse e imponendo final­mente un «contratto di tem­po determinato e di lavoro subordinato» con «diritti e doveri e funzioni» e «regole contrattuali», limiti di ora­rio, retribuzione minima e massima...

Auguri. Manca però, pare di capire, un punto centrale. Quello adottato dall’Euro­pa. Dopo varie polemiche, come sui casi di Giles Chi­chester (il capogruppo dei conservatori inglesi costret­to a dimettersi perché aveva trovato il modo di passare i soldi a una società di paren­ti) o di Umberto Bossi (che aveva fatto assumere da due eurodeputati leghisti suo fratello Franco e suo fi­glio Riccardo), l’Europarla­mento ha infatti deciso di svoltare. E se già il sistema era più rigido che in Italia vi­sto che l’europarlamentare doveva presentare le pezze d’appoggio (tipo un contrat­to di assunzione o di consu­lenza) per avere i soldi desti­nati agli assistenti, da giu­gno sarà ancora più difficile da aggirare.

Il parlamento Ue ricono­sce che chi viene eletto a Strasburgo ha diritto a sce­gliersi dei collaboratori di fi­ducia. Non sempre il deputa­to sa le lingue, non sempre è padrone dei regolamenti d’aula, non sempre conosce le diverse materie. Ed è giu­sto che si porti dietro qual­cuno di cui si fida. Di più: l’Europa, sapendo quanto sono costosi i viaggi e gli af­fitti a Strasburgo e tutto il re­sto, è generosa. E arriva a dare 17 mila euro al mese (uno sproposito, se fossero dati a Roma) per lo staff di ogni deputato. Ma, ecco il nodo, il parlamentare quei soldi non li vedrà più nean­che in transito. Le persone di fiducia da assumere con un contratto a tempo legato al mandato dell’eurodeputa­to dovranno avere la laurea (o almeno il diploma e una buona esperienza), verran­no inquadrate con stipendi stabiliti in base a 19 diversi livelli di professionalità. Ma soprattutto saranno pagate direttamente dal Parlamen­to. Risultato, per il parla­mentare rispettoso delle re­gole non cambierà nulla ma quello furbo non potrà più giocare: i soldi per i collabo­ratori devono andare ai col­laboratori.

Sono anni che gli assisten­ti parlamentari italiani chie­dono esattamente questo. E su questo si vedrebbe davve­ro una svolta anche a Roma. Ma quanti, al di là delle pa­role, vorrebbero davvero darsi queste regole europee rinunciando a quella voce che di fatto, per tanti, è vi­sta come un benefit in più in busta paga?

Fonte: corriere.it

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