19 nov 2008

Giappone, clan della mafia rompe le regole di convivenza. La città si ribella

I Dojinkai erano stati vicini di casa perfetti e accettati da tutti, come nella tradizione

Causa colletiva per allontanare la "famiglia" dei Dojinkai dal palazzo a sei piani che occupano a Karume

Per ventidue lunghi anni, i Dojinkai sono stati vicini di casa perfetti. Hanno seguito alla lettera tutte le regole giapponesi del buon vicinato: niente schiamazzi notturni, niente mozziconi in strada, spazzatura differenziata nel modo corretto. Ma da quando i membri di questo clan – mille affiliati, uno dei più importanti della Yakuza, la mafia giapponese – sono stati coinvolti in una guerra fratricida (sette morti in due anni), il quartiere s’è riempito di mormorii. E ora quei mormorii sono diventati la prima causa fatta, in Giappone, per sfrattare un clan.

CAUSA COLLETTIVA - Una causa firmata da 603 persone (che vivono nel raggio di 500 metri dal quartier generale dei Dojinkai, a Kurume) e appoggiata da altre 5.508, che mette in discussione il ruolo – finora incontestato – della mafia giapponese. La vicenda, che vista da occhi italiani ha del surreale, si spiega solo quando si chiarisce che in Giappone la Yakuza è un’attività tra le altre. Insomma: la mafia è legale. Il governo la tollera perché i suoi 22 clan, che danno lavoro a 85mila persone, si occupano di attività considerate “un male necessario di ogni società”: prostituzione, scommesse, racket. Così facendo, le autorità hanno pieno accesso ai conti delle “famiglie”.

DROGA - La situazione è cambiata da quando la mafia ha iniziato a occuparsi anche di traffico di droga. Spingendo lo Stato su posizioni più dure, e i cittadini alla diffidenza. Fino a pochi anni fa, tutto era più tranquillo. I Dojinkai, ad esempio, trasferirono il loro quartier generale in un palazzo di sei piani in un’area commerciale di Kurume, nell’ovest del Giappone, nel 1986. E decisero di integrarsi perfettamente nel quartiere. Le regole imposte dal capoclan erano ferree: cortesia nei saluti ai vicini. Nessuna ostentazione: vietati i doppiopetti, il parcheggio in strada delle auto di lusso (permesso solo durante la riunione della famiglia, una volta al mese). E rispetto delle autorità rionali. Quando, il 10 ottobre 1998, il 56enne signor Akemi Shigematsu (una sorta di amministratore di zona) si lamentò per “1) mancati saluti 2) telefonate a voce alta in mezzo alla strada nel cuore della notte 3) disordinata disposizione della spazzatura”, l’allora capoclan Yoshihisa Matsuo accettò le lamentele. E rimbrottò i “confratelli”.

LA ROTTURA - Due anni fa, però, il clan si è spezzato. E la nuova fazione, i Seidokai, è arrivata al punto di fare vittime (tra cui un innocente, scambiato per il leader dei Dojinkai. Il vero leader ha visitato la vedova, sparso incenso, lasciato denaro in compensazione). E ha sparato in strada. Una volta. Alle undici di notte. Troppo. “Non possiamo vivere in pace”, ha detto al New York Times Kimiyo Morita, 62 anni. C’è chi li difende (“Devono pur guadagnarsi da vivere. E poi sono così gentili, salutano sempre”, dice una signora. Ma la causa ha già spinto i Dojinkai a spostarsi. Di qualche metro più in là, in attesa di un possible verdetto. «Il nostro quartier generale è il nostro castello», spiega al NYTimes il 54enne Nobuyuki Shinozuka, comandante in capo del clan. «Sappiamo che possiamo disturbare la società. Ad esempio perché noi non sogniamo la vendetta: la attuiamo». E la causa? «Tocca allo Stato decidere. Se pensa di non aver più bisogno di noi, può mettere al bando la Yakuza. Ma se non è così, troveremo un altro modo per sopravvivere».

Fonte: corriere.it

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