Il senatore di Forza Italia e l’incarico alla Nato: storia del politico che ha combattuto scie chimiche e signoraggio bancario (con Sara Tommasi consulente), e che definì l’omosessualità una patologia
Se uno vale uno, quanto vale Scilipoti? Il senatore di Forza Italia Domenico Scilipoti è stato nominato vicepresidente della commissione Scienze, Tecnologia e Sicurezza della Nato. Dovrà pure occuparsi di Ucraina. Proprio lui, Mimmo Scilipoti, il «re dei peones» (come recita una sua biografia), il ginecologo che definì l’omosessualità una patologia, «atti animaleschi» che possono portare all’«estinzione della razza umana».
Scilipoti e la Nato! La notizia ha fatto scalpore. Su Scilipoti esiste un’aneddotica stramba da far invidia ai grandi capolavori del Surrealismo. Un politico che ha combattuto contro scie chimiche e signoraggio bancario, con consulenti del calibro di Alfonso Luigi Marra e Sara Tommasi. Un politico che con il sodale ed ex dipietrista Antonio Razzi voleva rappresentare l’Italia nel mondo.
Un bel giorno, Mimmo si è fatto aggiungere il cognome del padre, Isgrò, quasi per uscire dalla corte dei miracoli dei peones e proporsi come aspirante statista. È fin troppo facile ora cedere allo sghignazzo, usare Scilipoti Isgrò come sinonimo di «traditore» (nel 2010 salvò il governo Berlusconi cambiando casacca), prendersela con uno cui in Parlamento urlavano «Munnizza, munnizza» («Ma io sono una risorsa per il governo», ribatteva l’interessato).
Vero, è facile, ma è anche vero, come ci ricorda il saggio, che le marionette bramano di trasformarsi in impiccati. Visto che le corde sono già lì, bell’e pronte.
Fonte: corriere.it
Obbrobri
Quello che la politica non vi racconta. Pasticciacci, ruberie e strategie.
8 gen 2017
Cgil, mail interna ai dirigenti:«Minimizzare sui voucher»
Dopo il caso dei pensionati dell’Emilia-Romagna è arrivata a tutti i dirigenti delle categorie una «nota alle strutture» della segreteria nazionale: «Meglio sarebbe stato usare maggiore attenzione. Il fenomeno va circoscritto ai pensionati»
Una «nota alle strutture» della segreteria nazionale Cgil a tutti i dirigenti delle categorie, nazionali e regionali su come affrontare mediaticamente il tema dei voucher. Dopo il caso dei pensionati dell’Emilia-Romagna, Tania Scacchetti e Nino Baseotto, membri della segreteria nazionale, hanno inviato una email informativa. «Meglio sarebbe stato — vi si ammette — usare maggiore attenzione sulla questione, specie una volta avviata la nostra campagna di raccolta firme (per il referendum abrogativo del Jobs act, ndr). Tuttavia, anche nella relazione con la stampa locale, il fenomeno va circoscritto a quello che è, un utilizzo per limitate attività meramente occasionali svolte da soli pensionati». E poi si spiega: «La Cgil non nega l’esigenza di uno strumento che possa rispondere al lavoro occasionale; nega che questo strumento siano i voucher come li conosciamo oggi». L’auspicio finale è che «questi possano essere i contenuti che saranno diffusi ad attivisti e delegati oltre che alla stampa locale interpellati sulla questione».
«Scelta di tutta la segreteria nazionale»
La «nota alle strutture», secondo quanto spiegato da Scacchetti a ilfattoquotidiano.it, «era un invito a tutti i nostri rappresentanti ad utilizzare la testa nella comunicazione pubblica, per evitare eventuali tensioni su una vicenda che, seppure non porterà ad alcun provvedimento interno, deve farci riflettere». E si tratta, comunque, «di una scelta condivisa da tutta la segreteria nazionale». Non è escluso che nei prossimi giorni sulla questione possa intervenire, questa volta rivolgendosi alla stampa e quindi al mondo esterno al sindacato, anche la segretaria Susanna Camusso.
Nel 2016 crescita del 32%
Nel 2016 l’utilizzo dei voucher, i buoni destinati al lavoro accessorio (ecco a cosa servono e chi li usa), è cresciuto del 32,3%, stando ai dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps relativi al periodo gennaio-ottobre confrontati con i primi 10 mesi del 2015. Nei primi dieci mesi del 2015 la crescita dell’utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 67,6%. Lo strumento continua a dividere il mondo del lavoro, tanto che uno dei tre referendum (sulla ui ammissibilità la Corte costituzionale si pronuncerà l’11 gennaio) chiesti dalla Cgil riguarda proprio l’abolizione del sistema dei voucher (gli altri due sono sul ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e sulle responsabilità in solido di appaltatore e appaltante). Anche sul «peso» dello strumento l’opinione pubblica è divisa: «È del tutto condivisibile — ha scritto Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro del Senato, nel blog dell’Associazione amici di Marco Biagi (www.amicimarcobiagi.com) — la rilevazione della Cgia di Mestre sul monte ore di lavoro remunerato con i voucher per cui, rappresentando solo lo 0,3% del totale, non costituisce un mercato del lavoro parallelo. Anzi, i bassi indici rilevati in Sicilia, Calabria e Campania descrivono un sommerso resistente anche a questa opportunità di emersione».
Fonte: corriere.it
Una «nota alle strutture» della segreteria nazionale Cgil a tutti i dirigenti delle categorie, nazionali e regionali su come affrontare mediaticamente il tema dei voucher. Dopo il caso dei pensionati dell’Emilia-Romagna, Tania Scacchetti e Nino Baseotto, membri della segreteria nazionale, hanno inviato una email informativa. «Meglio sarebbe stato — vi si ammette — usare maggiore attenzione sulla questione, specie una volta avviata la nostra campagna di raccolta firme (per il referendum abrogativo del Jobs act, ndr). Tuttavia, anche nella relazione con la stampa locale, il fenomeno va circoscritto a quello che è, un utilizzo per limitate attività meramente occasionali svolte da soli pensionati». E poi si spiega: «La Cgil non nega l’esigenza di uno strumento che possa rispondere al lavoro occasionale; nega che questo strumento siano i voucher come li conosciamo oggi». L’auspicio finale è che «questi possano essere i contenuti che saranno diffusi ad attivisti e delegati oltre che alla stampa locale interpellati sulla questione».
«Scelta di tutta la segreteria nazionale»
La «nota alle strutture», secondo quanto spiegato da Scacchetti a ilfattoquotidiano.it, «era un invito a tutti i nostri rappresentanti ad utilizzare la testa nella comunicazione pubblica, per evitare eventuali tensioni su una vicenda che, seppure non porterà ad alcun provvedimento interno, deve farci riflettere». E si tratta, comunque, «di una scelta condivisa da tutta la segreteria nazionale». Non è escluso che nei prossimi giorni sulla questione possa intervenire, questa volta rivolgendosi alla stampa e quindi al mondo esterno al sindacato, anche la segretaria Susanna Camusso.
Nel 2016 crescita del 32%
Nel 2016 l’utilizzo dei voucher, i buoni destinati al lavoro accessorio (ecco a cosa servono e chi li usa), è cresciuto del 32,3%, stando ai dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps relativi al periodo gennaio-ottobre confrontati con i primi 10 mesi del 2015. Nei primi dieci mesi del 2015 la crescita dell’utilizzo dei voucher, rispetto al 2014, era stata pari al 67,6%. Lo strumento continua a dividere il mondo del lavoro, tanto che uno dei tre referendum (sulla ui ammissibilità la Corte costituzionale si pronuncerà l’11 gennaio) chiesti dalla Cgil riguarda proprio l’abolizione del sistema dei voucher (gli altri due sono sul ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e sulle responsabilità in solido di appaltatore e appaltante). Anche sul «peso» dello strumento l’opinione pubblica è divisa: «È del tutto condivisibile — ha scritto Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro del Senato, nel blog dell’Associazione amici di Marco Biagi (www.amicimarcobiagi.com) — la rilevazione della Cgia di Mestre sul monte ore di lavoro remunerato con i voucher per cui, rappresentando solo lo 0,3% del totale, non costituisce un mercato del lavoro parallelo. Anzi, i bassi indici rilevati in Sicilia, Calabria e Campania descrivono un sommerso resistente anche a questa opportunità di emersione».
Fonte: corriere.it
L’imbarazzante caso dei pensionati Cgil che usano i «maledetti» voucher
I suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone. «Vogliamo abolirli, ma l’alternativa era il nero», è la difesa, che somiglia a quel che sostiene il governo
Con i suoi 640 mila pensionati iscritti, 6 mila attivisti e 300 leghe sparse sul territorio lo Spi-Cgil dell’Emilia-Romagna rappresenta il cuore del sindacalismo rosso e sicuramente una delle maggiori organizzazioni sociali dell’intera Europa. Da ieri i suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone perché, come ha scritto il Corriere di Bologna, utilizzano per il lavoro occasionale i famigerati voucher. Quelli che la Cgil vuole abolire chiamando al voto tutti gli italiani e sempre quelli che Susanna Camusso ha paragonato ai pizzini mafiosi. Il caso riguarda 50 persone che prestano servizio presso le sedi del sindacato meno di tre giorni a settimana e vengono retribuiti con i ticket del lavoro. Il segretario regionale dello Spi-Cgil, Bruno Pizzica, ieri ha spiegato che non si tratta di «occasionali» ma di pensionati attivisti dell’organizzazione che non si sarebbero potuti pagare in nessun altro modo. «Siamo per l’abolizione dei voucher, non dissentiamo dalla Cgil ma non potevano certo ricorrere a prestazioni in nero. E abbiamo usato l’unico strumento per non farlo». Ma proprio sostenendo che sono un rimedio contro il sommerso Pizzica finisce per avvalorare la posizione del governo Gentiloni che vuole riscrivere le norme per contrastare gli abusi ma intende confermare i voucher in funzione anti-evasione. Nel merito poi dei possibili emendamenti alla legge uno dei consulenti di Palazzo Chigi, Marco Leonardi, ha elencato in questi giorni sulla sua pagina Facebook almeno sette possibili soluzioni.
Campagne d’opinione e lo «sporcarsi le mani»
La vicenda rappresenta sicuramente un micidiale contropiede per la Cgil a pochi giorni dal verdetto della Consulta sull’ammissibilità dei tre referendum, di cui uno riguarda esplicitamente i ticket del lavoro. Esaurite però le polemiche il tema che emerge sullo sfondo è quello degli orientamenti di fondo del sindacato italiano. Da una parte c’è la tendenza a vivere di grandi campagne d’opinione, spalmate sul territorio e assistite da una continuità organizzativa esemplare; dall’altra la necessità in una fase contraddittoria come l’attuale di «sporcarsi le mani», di spendere la forza degli iscritti per negoziare soluzioni magari imperfette ma che in qualche maniera cercano di governare i profondi cambiamenti dell’economia e del lavoro. La scelta della Cgil finora è stata legata al primo modello e non è un caso che dalle campagne si sia passati alla raccolta delle firme per i referendum, in virtù di una sorta di radicata sfiducia sulle possibilità di ottenere risultati per altra via. Ma il rischio che il sindacalismo italiano corre adottando questa strategia è di confondersi con il grillismo, di trasformare la (legittima) protesta e il disagio sociale in rancore. Salvo poi incappare in clamorose contraddizioni quando, come nel caso dello Spi-Cgil, il sindacato è esso stesso datore di lavoro e si deve comportare con pragmatismo.
Contrattare il contrattabile
Non tutto il sindacato è però incamminato su questa strada. La Cisl, pur tra mille cautele, ha scelto la via di continuare a contrattare il contrattabile e ha avuto ragione a scommettere sul tramonto della rottamazione sindacale. Proprio ieri Tommaso Nannicini, indicato come l’estensore del prossimo programma del Pd, in un’intervista concessa alla Stampa ha indicato come obiettivo quello di re-intermediare investendo «nell’associazionismo, nei circoli, sulla rete e nel confronto con i corpi intermedi». Un secco dietrofront rispetto al primo renzismo. Accanto alla Cisl anche un altro spezzone del sindacalismo italiano, nientemeno che le tre sigle dei metalmeccanici Fiom-Fim-Uilm, ha di recente scelto di «sporcarsi le mani» firmando con la Federmeccanica un contratto che per affrontare insieme le sfide di Industria 4.0 e della valorizzazione del capitale umano individua nuove soluzioni e sceglie di affrontarle assieme. Un antidoto se non al populismo quantomeno al rancore.
Fonte: corriere.it
Con i suoi 640 mila pensionati iscritti, 6 mila attivisti e 300 leghe sparse sul territorio lo Spi-Cgil dell’Emilia-Romagna rappresenta il cuore del sindacalismo rosso e sicuramente una delle maggiori organizzazioni sociali dell’intera Europa. Da ieri i suoi dirigenti sono nell’occhio del ciclone perché, come ha scritto il Corriere di Bologna, utilizzano per il lavoro occasionale i famigerati voucher. Quelli che la Cgil vuole abolire chiamando al voto tutti gli italiani e sempre quelli che Susanna Camusso ha paragonato ai pizzini mafiosi. Il caso riguarda 50 persone che prestano servizio presso le sedi del sindacato meno di tre giorni a settimana e vengono retribuiti con i ticket del lavoro. Il segretario regionale dello Spi-Cgil, Bruno Pizzica, ieri ha spiegato che non si tratta di «occasionali» ma di pensionati attivisti dell’organizzazione che non si sarebbero potuti pagare in nessun altro modo. «Siamo per l’abolizione dei voucher, non dissentiamo dalla Cgil ma non potevano certo ricorrere a prestazioni in nero. E abbiamo usato l’unico strumento per non farlo». Ma proprio sostenendo che sono un rimedio contro il sommerso Pizzica finisce per avvalorare la posizione del governo Gentiloni che vuole riscrivere le norme per contrastare gli abusi ma intende confermare i voucher in funzione anti-evasione. Nel merito poi dei possibili emendamenti alla legge uno dei consulenti di Palazzo Chigi, Marco Leonardi, ha elencato in questi giorni sulla sua pagina Facebook almeno sette possibili soluzioni.
Campagne d’opinione e lo «sporcarsi le mani»
La vicenda rappresenta sicuramente un micidiale contropiede per la Cgil a pochi giorni dal verdetto della Consulta sull’ammissibilità dei tre referendum, di cui uno riguarda esplicitamente i ticket del lavoro. Esaurite però le polemiche il tema che emerge sullo sfondo è quello degli orientamenti di fondo del sindacato italiano. Da una parte c’è la tendenza a vivere di grandi campagne d’opinione, spalmate sul territorio e assistite da una continuità organizzativa esemplare; dall’altra la necessità in una fase contraddittoria come l’attuale di «sporcarsi le mani», di spendere la forza degli iscritti per negoziare soluzioni magari imperfette ma che in qualche maniera cercano di governare i profondi cambiamenti dell’economia e del lavoro. La scelta della Cgil finora è stata legata al primo modello e non è un caso che dalle campagne si sia passati alla raccolta delle firme per i referendum, in virtù di una sorta di radicata sfiducia sulle possibilità di ottenere risultati per altra via. Ma il rischio che il sindacalismo italiano corre adottando questa strategia è di confondersi con il grillismo, di trasformare la (legittima) protesta e il disagio sociale in rancore. Salvo poi incappare in clamorose contraddizioni quando, come nel caso dello Spi-Cgil, il sindacato è esso stesso datore di lavoro e si deve comportare con pragmatismo.
Contrattare il contrattabile
Non tutto il sindacato è però incamminato su questa strada. La Cisl, pur tra mille cautele, ha scelto la via di continuare a contrattare il contrattabile e ha avuto ragione a scommettere sul tramonto della rottamazione sindacale. Proprio ieri Tommaso Nannicini, indicato come l’estensore del prossimo programma del Pd, in un’intervista concessa alla Stampa ha indicato come obiettivo quello di re-intermediare investendo «nell’associazionismo, nei circoli, sulla rete e nel confronto con i corpi intermedi». Un secco dietrofront rispetto al primo renzismo. Accanto alla Cisl anche un altro spezzone del sindacalismo italiano, nientemeno che le tre sigle dei metalmeccanici Fiom-Fim-Uilm, ha di recente scelto di «sporcarsi le mani» firmando con la Federmeccanica un contratto che per affrontare insieme le sfide di Industria 4.0 e della valorizzazione del capitale umano individua nuove soluzioni e sceglie di affrontarle assieme. Un antidoto se non al populismo quantomeno al rancore.
Fonte: corriere.it
18 dic 2016
Fedeli: «Il diploma di laurea? Una leggerezza, ma troppa aggressività»
La ministra all’Istruzione e il curriculum corretto: «Se volevo truffare non avrei mai messo diploma di laurea ma solo laurea». Dal premier Gentiloni «piena fiducia»
Al termine di un’altra giornata segnata dagli attacchi delle opposizioni e dall’ironia sui social network, Valeria Fedeli, neoministro all’Istruzione, si rifugia nel suo nuovo ufficio. E si sfoga. «Perché posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato». È affranta, ma a mollare non ha mai pensato. «Scherziamo? Io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta».
LA MODIFICA ONLINE
Il caso è fin troppo noto. Denunciato con un messaggio inviato due giorni fa al sito Dagospia dall’ex deputato Pd Mario Adinolfi, diventato adesso uno dei leader del popolo del Family day. «La ministra — aveva evidenziato Adinolfi spalleggiato da Massimo Gandolfini, che del Family day è inventore e promotore — sostiene di avere un diploma di laurea in assistente sociale, ma mente. Quello è soltanto un diploma. Quindi deve dimettersi». Ieri la scheda ufficiale sul sito personale della ministra è stata modificata in modo, hanno spiegato i suoi collaboratori, «da evitare ogni ambiguità».
LA FIDUCIA DEL PREMIER
Il confronto avuto con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni l’ha rassicurata, perché le è stata espressa «piena fiducia». I messaggi di solidarietà sono stati moltissimi. Ma certo gli attacchi bruciano «soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l’ho mai usato, non mi è mai servito. Nel 1987 c’è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa».
LE POLEMICHE
Fedeli ha un temperamento forte, un carattere deciso. La sua chioma rosso fuoco è diventata famosa dentro e fuori il Parlamento. Convinta sostenitrice del Sì al referendum sulle riforme era intervenuta qualche giorno prima della consultazione a L’Aria che tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, per assicurare che avrebbe lasciato la poltrona. E anche per questo adesso è finita al centro delle polemiche che infuriano contro tutti coloro — Renzi e Boschi in testa — che avevano preso l’impegno pubblico di «abbandonare la politica in caso di sconfitta». Fedeli è consapevole che la bufera non passerà in tempi rapidi, ma non si scoraggia. «Io vivevo a Milano e facevo la maestra d’asilo. Poi ho frequentato la Unsas, scuola laica per diventare assistente sociale, ma è un mestiere che non ho mai fatto. Sono andata a lavorare al Comune di Milano entrando al 7° livello e andando via allo stesso livello. Io sono sempre stata sindacalista. E non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta. Capisco e comprendo tutto, ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività».
LA DIFESA
Due giorni fa, appena la vicenda era diventata pubblica aveva espresso la convinzione che fosse «un caso montato ad arte». Perché, aveva argomentato «guarda caso sono stati quelli del Family day a tirare fuori questa storia. Loro mi detestano per essermi schierata contro, per aver difeso la teoria del gender ed evidentemente non possono accettare che mi occupi di scuola. Eppure per me parla la mia storia politica, io sono sempre stata seria e coerente nell’affrontare i problemi. E lo farò anche adesso, senza farmi intimidire». Una posizione ribadita ieri: «Spero di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione». In attesa che la bufera passi davvero.
Fonte: corriere.it
Al termine di un’altra giornata segnata dagli attacchi delle opposizioni e dall’ironia sui social network, Valeria Fedeli, neoministro all’Istruzione, si rifugia nel suo nuovo ufficio. E si sfoga. «Perché posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato». È affranta, ma a mollare non ha mai pensato. «Scherziamo? Io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta».
LA MODIFICA ONLINE
Il caso è fin troppo noto. Denunciato con un messaggio inviato due giorni fa al sito Dagospia dall’ex deputato Pd Mario Adinolfi, diventato adesso uno dei leader del popolo del Family day. «La ministra — aveva evidenziato Adinolfi spalleggiato da Massimo Gandolfini, che del Family day è inventore e promotore — sostiene di avere un diploma di laurea in assistente sociale, ma mente. Quello è soltanto un diploma. Quindi deve dimettersi». Ieri la scheda ufficiale sul sito personale della ministra è stata modificata in modo, hanno spiegato i suoi collaboratori, «da evitare ogni ambiguità».
LA FIDUCIA DEL PREMIER
Il confronto avuto con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni l’ha rassicurata, perché le è stata espressa «piena fiducia». I messaggi di solidarietà sono stati moltissimi. Ma certo gli attacchi bruciano «soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l’ho mai usato, non mi è mai servito. Nel 1987 c’è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa».
LE POLEMICHE
Fedeli ha un temperamento forte, un carattere deciso. La sua chioma rosso fuoco è diventata famosa dentro e fuori il Parlamento. Convinta sostenitrice del Sì al referendum sulle riforme era intervenuta qualche giorno prima della consultazione a L’Aria che tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, per assicurare che avrebbe lasciato la poltrona. E anche per questo adesso è finita al centro delle polemiche che infuriano contro tutti coloro — Renzi e Boschi in testa — che avevano preso l’impegno pubblico di «abbandonare la politica in caso di sconfitta». Fedeli è consapevole che la bufera non passerà in tempi rapidi, ma non si scoraggia. «Io vivevo a Milano e facevo la maestra d’asilo. Poi ho frequentato la Unsas, scuola laica per diventare assistente sociale, ma è un mestiere che non ho mai fatto. Sono andata a lavorare al Comune di Milano entrando al 7° livello e andando via allo stesso livello. Io sono sempre stata sindacalista. E non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta. Capisco e comprendo tutto, ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività».
LA DIFESA
Due giorni fa, appena la vicenda era diventata pubblica aveva espresso la convinzione che fosse «un caso montato ad arte». Perché, aveva argomentato «guarda caso sono stati quelli del Family day a tirare fuori questa storia. Loro mi detestano per essermi schierata contro, per aver difeso la teoria del gender ed evidentemente non possono accettare che mi occupi di scuola. Eppure per me parla la mia storia politica, io sono sempre stata seria e coerente nell’affrontare i problemi. E lo farò anche adesso, senza farmi intimidire». Una posizione ribadita ieri: «Spero di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione». In attesa che la bufera passi davvero.
Fonte: corriere.it
28 nov 2016
I gettoni d’oro e i 5 grammi mancanti
La moneta con cui vengono pagate le vincite dei concorsi a premi della Rai Prosegue l’inchiesta di Report: il fornitore è sempre banca Etruria
C’è una storia che forse meglio di ogni altra fa capire quali vette di ipocrisia può raggiungere il nostro ottuso apparato burocratico. È quella dei gettoni d’oro con cui vengono pagate le vincite dei concorsi a premi della Rai, a cominciare dal popolarissimo format televisivo Affari tuoi. L’ha scoperta la scorsa primavera Sigfrido Ranucci, giornalista della trasmissione Report di Milena Gabanelli che stasera racconta cos’è accaduto da allora, fra indagini giudiziarie e terremoti aziendali.
La denuncia
Tutto comincia quando la vincitrice di uno di quei concorsi denuncia che l’oro di cui è fatto un gettone recapitatogli dalla Zecca (il Poligrafico dello stato è titolare del contratto con la Rai per la fornitura di quei gettoni) non è purissimo come invece previsto dai regolamenti. Mancano infatti 5 grammi per chilo. Fatto già abbastanza grave di per sé, ma durante l’inchiesta di Report viene pure alla luce il meccanismo demenziale che regola da decenni il rapporto fra la tivù pubblica e i vincitori dei concorsi. Secondo le norme vigenti, infatti, i premi non possono essere corrisposti in denaro: ecco perché i gettoni d’oro. Ma ai vincitori è concesso comunque di avere soldi contanti anziché il metallo prezioso, purché si completi un insensato circolo vizioso. Formalmente il vincitore riceve i gettoni coniati, del valore della vincita detratte le tasse, l’Iva, il costo del conio e la perdita fisiologica della fusione: a quel punto li rivende alla Zecca allo stesso prezzo, da cui però viene detratta una seconda volta la perdita fisiologica e il costo della fusione. Piccolo particolare, il vincitore quei gettoni non li vede neppure. Una follia in piena regola. Anche perché nessuno è in grado di dire se siano stati effettivamente coniati, e successivamente fusi.
Le polemiche
Le rivelazioni di Report scatenano un putiferio. Salta pure fuori che l’oro è stato per decenni acquistato senza fare le gare, ma con semplici indagini di mercato. I nuovi vertici del Poligrafico presentano allora un esposto alla magistratura perché accerti i fatti e avviano una verifica interna. Che a quanto pare evidenzia una serie di problemi e falle nelle procedure. Di sicuro il rapporto di lavoro con Marco Cerù, che per vent’anni è stato a capo della direzione finanziaria del Poligrafico, viene risolto. Consensualmente, tengono a precisare alla Zecca. Ma qualcosa vorrà dire.
Il fornitore
Dal canto suo la magistratura continua a indagare. Ricorda Milena Gabanelli: «L’ipotesi è frode in pubblica fornitura. Dal 2012 alla data della messa in onda della nostra puntata, cioè aprile scorso, si sarebbe fatta pagare dalla Rai 20 milioni di euro per prestazioni mai effettuate e oltre 700 mila euro da quei vincitori che hanno optato per il controvalore in denaro». Una vicenda assurda, generata da un sistema assurdo che nessuno ha mai voluto correggere, e mette due aziende dello Stato una contro l’altra. Per inciso, contrariamente al passato gli attuali amministratori del Poligrafico hanno deciso di comprare l’oro facendo una gara pubblica. Che però ha vinto lo stesso fornitore di sempre: Banca Etruria.
Fonte: corriere.it
C’è una storia che forse meglio di ogni altra fa capire quali vette di ipocrisia può raggiungere il nostro ottuso apparato burocratico. È quella dei gettoni d’oro con cui vengono pagate le vincite dei concorsi a premi della Rai, a cominciare dal popolarissimo format televisivo Affari tuoi. L’ha scoperta la scorsa primavera Sigfrido Ranucci, giornalista della trasmissione Report di Milena Gabanelli che stasera racconta cos’è accaduto da allora, fra indagini giudiziarie e terremoti aziendali.
La denuncia
Tutto comincia quando la vincitrice di uno di quei concorsi denuncia che l’oro di cui è fatto un gettone recapitatogli dalla Zecca (il Poligrafico dello stato è titolare del contratto con la Rai per la fornitura di quei gettoni) non è purissimo come invece previsto dai regolamenti. Mancano infatti 5 grammi per chilo. Fatto già abbastanza grave di per sé, ma durante l’inchiesta di Report viene pure alla luce il meccanismo demenziale che regola da decenni il rapporto fra la tivù pubblica e i vincitori dei concorsi. Secondo le norme vigenti, infatti, i premi non possono essere corrisposti in denaro: ecco perché i gettoni d’oro. Ma ai vincitori è concesso comunque di avere soldi contanti anziché il metallo prezioso, purché si completi un insensato circolo vizioso. Formalmente il vincitore riceve i gettoni coniati, del valore della vincita detratte le tasse, l’Iva, il costo del conio e la perdita fisiologica della fusione: a quel punto li rivende alla Zecca allo stesso prezzo, da cui però viene detratta una seconda volta la perdita fisiologica e il costo della fusione. Piccolo particolare, il vincitore quei gettoni non li vede neppure. Una follia in piena regola. Anche perché nessuno è in grado di dire se siano stati effettivamente coniati, e successivamente fusi.
Le polemiche
Le rivelazioni di Report scatenano un putiferio. Salta pure fuori che l’oro è stato per decenni acquistato senza fare le gare, ma con semplici indagini di mercato. I nuovi vertici del Poligrafico presentano allora un esposto alla magistratura perché accerti i fatti e avviano una verifica interna. Che a quanto pare evidenzia una serie di problemi e falle nelle procedure. Di sicuro il rapporto di lavoro con Marco Cerù, che per vent’anni è stato a capo della direzione finanziaria del Poligrafico, viene risolto. Consensualmente, tengono a precisare alla Zecca. Ma qualcosa vorrà dire.
Il fornitore
Dal canto suo la magistratura continua a indagare. Ricorda Milena Gabanelli: «L’ipotesi è frode in pubblica fornitura. Dal 2012 alla data della messa in onda della nostra puntata, cioè aprile scorso, si sarebbe fatta pagare dalla Rai 20 milioni di euro per prestazioni mai effettuate e oltre 700 mila euro da quei vincitori che hanno optato per il controvalore in denaro». Una vicenda assurda, generata da un sistema assurdo che nessuno ha mai voluto correggere, e mette due aziende dello Stato una contro l’altra. Per inciso, contrariamente al passato gli attuali amministratori del Poligrafico hanno deciso di comprare l’oro facendo una gara pubblica. Che però ha vinto lo stesso fornitore di sempre: Banca Etruria.
Fonte: corriere.it
2 ott 2016
Sicilia, Regione degli inamovibili: tremila fanno i sindacalisti e 2.800 assistono parenti malati
Il governatore Crocetta: "Adesso basta, chi si oppone al trasferimento sarà licenziato". Numeri impressionanti: su 15 mila dipendenti, in 6 mila hanno permessi sindacali e tutele da legge 104
La Regione dei dipendenti inamovibili per legge. Su 15 mila addetti, 6 mila non possono essere trasferiti da un ufficio a un altro. Proprio così: quasi la metà dei regionali è “intoccabile”, perché dentro la pancia del mostro pubblico ci sono quasi 3 mila dipendenti che usufruiscono dei permessi della “legge 104” per disabilità o per assistere un familiare, e altri 3 mila sono dirigenti sindacali. Così, al di là degli annunci, delle norme approvate al grido di «basta privilegi», delle circolari e degli atti d’imperio di qualche dirigente, alla fine il personale non si riesce a trasferire dove serve perché il lavoro nell’Isola del tesoro lo si vuole non solo nella stessa città dove si vive, ma anche sotto casa. «Adesso questa storia deve finire », dice il governatore Rosario Crocetta dopo i flop dei trasferimenti al dipartimento Formazione o alle Attività produttive, strutture nelle quali c’è un forte bisogno di funzionari.
I numeri sono impressionanti e dimostrano che davvero qualcosa non va. La Sicilia, tra i suoi 15 mila dipendenti, ha 2.838 addetti che «risultano al 31 dicembre 2015 titolari di permessi per legge 104», si legge nella relazione che ogni anno Palazzo d’Orleans, come le altre Regioni, deve inviare allo Stato e rendere pubblica. Conti alla mano, il 18 per cento dei dipendenti regionali ha una disabilità oppure deve assistere un familiare. Tradotto: ha diritto a usufruire di tre giorni di permesso retribuito al mese e non può essere trasferito senza il suo consenso. Ma sul fronte dell’inamovibilità, ai titolari della legge 104 vanno aggiunti anche i dirigenti sindacali in servizio. E anche qui la Regione siciliana ha numeri di tutto rispetto: i sindacalisti censiti al 2015 sono 2.487, ma a questi se ne aggiungono 836 che hanno usufruito di permessi sindacali. Adesso la Funzione pubblica sta incrociando i dati per capire se questi ultimi permessi siano stati dati a chi soltanto recentemente è diventato dirigente sindacale, magari proprio dopo una notifica di trasferimento. Crocetta non ha dubbi: «Qualcuno vuole fare il furbo, ma adesso basta — dice — chi usufruisce della legge 104 è vero che non può essere trasferito da una città a un’altra, ma può essere spostato da un assessorato a un altro. Inoltre va trasferito anche il dipendente che è diventato dirigente sindacale soltanto negli ultimi mesi per evitare di cambiare ufficio. Voglio essere chiaro: chi si oppone al trasferimento sarà licenziato».
La Cisl ribatte a Crocetta. “Il presidente Crocetta ha lanciato accuse che non ci toccano. Non crediamo che voglia o possa confutare lo Statuto dei Lavoratori e la legge 104 e se teme che ci siano meccanismi poco chiari saremo ben lieti, come sempre, di fornire nomi e date per fugare qualsiasi dubbio. Le procedure per la mobilità, volute da questo governo e per le quali abbiamo a lungo trattato evidenziandone gli aspetti che avrebbero causato difficoltà applicative, sono invece il vero ostacolo ai trasferimenti. Non obbediscono a nessun criterio oggettivo e funzionale per un miglioramento dell'amministrazione. I trasferimenti che devono essere deliberati dalla giunta di governo significa allungare i tempi e soprattutto affidare
ai giochi politici e ai veti incrociati l’efficienza della macchina regionale. Questo è effettivamente accaduto in questi mesi, non si dia ora la colpa ai sindacati”. Il segretario generale della Cisl Funzione pubblica Sicilia Gigi Caracausi e il segretario regionale Paolo Montera replicano alle accuse del presidente della Regione, Rosario Crocetta, in merito alle procedure di mobilità interna.
Fonte: http://palermo.repubblica.it/politica/2016/10/01/news/la_regione_degli_inamovibili_tremila_fanno_i_sindacalisti_e_2_800_assistono_parenti_malati-148884670/
La Regione dei dipendenti inamovibili per legge. Su 15 mila addetti, 6 mila non possono essere trasferiti da un ufficio a un altro. Proprio così: quasi la metà dei regionali è “intoccabile”, perché dentro la pancia del mostro pubblico ci sono quasi 3 mila dipendenti che usufruiscono dei permessi della “legge 104” per disabilità o per assistere un familiare, e altri 3 mila sono dirigenti sindacali. Così, al di là degli annunci, delle norme approvate al grido di «basta privilegi», delle circolari e degli atti d’imperio di qualche dirigente, alla fine il personale non si riesce a trasferire dove serve perché il lavoro nell’Isola del tesoro lo si vuole non solo nella stessa città dove si vive, ma anche sotto casa. «Adesso questa storia deve finire », dice il governatore Rosario Crocetta dopo i flop dei trasferimenti al dipartimento Formazione o alle Attività produttive, strutture nelle quali c’è un forte bisogno di funzionari.
I numeri sono impressionanti e dimostrano che davvero qualcosa non va. La Sicilia, tra i suoi 15 mila dipendenti, ha 2.838 addetti che «risultano al 31 dicembre 2015 titolari di permessi per legge 104», si legge nella relazione che ogni anno Palazzo d’Orleans, come le altre Regioni, deve inviare allo Stato e rendere pubblica. Conti alla mano, il 18 per cento dei dipendenti regionali ha una disabilità oppure deve assistere un familiare. Tradotto: ha diritto a usufruire di tre giorni di permesso retribuito al mese e non può essere trasferito senza il suo consenso. Ma sul fronte dell’inamovibilità, ai titolari della legge 104 vanno aggiunti anche i dirigenti sindacali in servizio. E anche qui la Regione siciliana ha numeri di tutto rispetto: i sindacalisti censiti al 2015 sono 2.487, ma a questi se ne aggiungono 836 che hanno usufruito di permessi sindacali. Adesso la Funzione pubblica sta incrociando i dati per capire se questi ultimi permessi siano stati dati a chi soltanto recentemente è diventato dirigente sindacale, magari proprio dopo una notifica di trasferimento. Crocetta non ha dubbi: «Qualcuno vuole fare il furbo, ma adesso basta — dice — chi usufruisce della legge 104 è vero che non può essere trasferito da una città a un’altra, ma può essere spostato da un assessorato a un altro. Inoltre va trasferito anche il dipendente che è diventato dirigente sindacale soltanto negli ultimi mesi per evitare di cambiare ufficio. Voglio essere chiaro: chi si oppone al trasferimento sarà licenziato».
La Cisl ribatte a Crocetta. “Il presidente Crocetta ha lanciato accuse che non ci toccano. Non crediamo che voglia o possa confutare lo Statuto dei Lavoratori e la legge 104 e se teme che ci siano meccanismi poco chiari saremo ben lieti, come sempre, di fornire nomi e date per fugare qualsiasi dubbio. Le procedure per la mobilità, volute da questo governo e per le quali abbiamo a lungo trattato evidenziandone gli aspetti che avrebbero causato difficoltà applicative, sono invece il vero ostacolo ai trasferimenti. Non obbediscono a nessun criterio oggettivo e funzionale per un miglioramento dell'amministrazione. I trasferimenti che devono essere deliberati dalla giunta di governo significa allungare i tempi e soprattutto affidare
ai giochi politici e ai veti incrociati l’efficienza della macchina regionale. Questo è effettivamente accaduto in questi mesi, non si dia ora la colpa ai sindacati”. Il segretario generale della Cisl Funzione pubblica Sicilia Gigi Caracausi e il segretario regionale Paolo Montera replicano alle accuse del presidente della Regione, Rosario Crocetta, in merito alle procedure di mobilità interna.
Fonte: http://palermo.repubblica.it/politica/2016/10/01/news/la_regione_degli_inamovibili_tremila_fanno_i_sindacalisti_e_2_800_assistono_parenti_malati-148884670/
25 ott 2015
Lo scandalo gay nei Carmelitani: "Le mie notti di sesso con il prete a Villa Borghese e nei sottopassaggi"
Parla il gigolò: «Era il 2004, fu lui a offrirmi una sigaretta. Venni a sapere che era un sacerdote importante a un funerale. Usava droghe, di sera usciva di nascosto. Tutti nella Curia generalizia sapevano. Firmerò una dichiarazione al cardinale vicario»
Il congedo di padre Angelo e padre Alessandro, trasferiti per mettere a tacere lo scandalo gay provocato da un loro confratello. L’appello a papa Francesco sul sagrato (e non in chiesa, dove non è stato accordato il permesso) da parte del gruppo di parrocchiani che invoca «trasparenza e il coraggio della verità». Lo scontro sulle scale della parrocchia con altri fedeli molto agitati, preoccupati dal «disonore». E ancora, del tutta inattesa, una nuova ondata di rivelazioni. É stata una domenica che, all’ordine dei carmelitani scalzi, non dimenticheranno facilmente. Anche perché, dopo la messa delle 10.30, nel corso della quale il parroco uscente padre Angelo aveva chiamato in causa «il demonio scatenato contro di noi», palese allusione ai cittadini «moralizzatori», si è presentato a sorpresa Sebastiano F., l’uomo del sesso proibito con l’alto prelato: «Vi racconto le mie notti con il prete a Villa Borghese». Immediatamente l’uomo è stato circondato da curiosi. Sul marciapiede di Santa Teresa d’Avila, ad ascoltare l’equivoco personaggio, senza fissa dimora da sempre, per molto tempo sostenuto dalla stessa parrocchia, c’era anche un drappello di cronisti, tra i quali un incredulo reporter del Times, catapultato dalle brume londinesi ai bollenti incontri omosex nella Roma dei «marchettari». Un dialogo registrato. Materia utile, forse, per l’inchiesta aperta dalla Procura.
Come è nato l’incontro con «l’alto esponente» della Curia generalizia?
«L’ho conosciuto nel 2004 a Villa Borghese, mi offrì una sigaretta. Era lui, il superiore dei carmelitani... Poi un giorno, a un funerale, l’ho riconosciuto mentre si vestiva in sacrestia. Padre Alessandro mi chiese: “Lo conosci?” Saltai su: “Azz... Se lo conosco...!” L’avevo visto due ore prima, in un sottopasso qui dietro, per un rapporto, ma senza ricevere soldi... Non sapevo che era un prete».
Lei ha presentato una dichiarazione al cardinale vicario Agostino Vallini?
«Sì, a giugno andai con la mia deposizione al Vicariato, da Di Tora (il vescovo del settore Nord, ndr) e dal cardinale Vallini. E’ uscito don Nicola e mi ha detto: “No, no...”. Ora, invece, sono pronto a firmarla».
Dopo che la storia venne alla luce, cosa è accaduto?
«Era il 2004-2005. Io vivevo qui, in uno sgabuzzino, facevo il servizio Caritas, partecipavo d’estate alla festa di Santa Teresa... Quando ho detto ‘sta cosa a padre Alessandro, lui non mi credeva, ma poi l’abbiamo pedinato: usciva all’una di notte dalla strada di dietro».
Quanto durò la relazione?
«Più di un anno, l’ho conosciuto abbastanza... Lui usa il popps (popper, la cosiddetta droga dei gay, ndr), una sostanza che metti nel naso, non è cocaina, la vendono in Francia, dove è legale».
Incontri segreti, dove?
«Solo a Villa Borghese, in posti chiusi no. E tutti sapevano! Don Agostino, il vecchio parroco, sapeva. A padre Gabriele l’ho detto in confessionale e mi ha risposto che voleva tenersi fuori... Lo sapeva pure don Giuseppe, il parroco di San Nicola a via dei Prefetti. Con lui e la gioventù una volta andai al ritiro spirituale a Palestrina».
Tutti tacevano?
«Certo! Ci sono voluti dieci anni per far venire a a galla la storia. Ma adesso non fate di tutta la parrocchia un fascio. A essere coinvolta è solo una persona... Ho cercato di andare alla Curia per sistemare la faccenda, lì ci sono le telecamere all’ingresso, mi conoscevano bene, anche il padre generale, però hanno sempre tappato tutto, la colpa è anche loro».
Cosa farà adesso?
«Parlo, dico tutto. Basta».
All’inizio però, per essere intervistato, lei al sottoscritto ha chiesto ripetutamente dei soldi.
«Perché sono disperato, dormo per strada. Ma ci ho ripensato, non voglio nulla. Ho deciso di fare la dichiarazione firmata per rispetto a padre Alessandro, che è una persona pulita. Con lui andavo anche a benedire le case, però alla fine mi hanno messo fuori con la calunnia che sono un poco di buono. E anche a padre Alessandro hanno fatto di tutto per buttargli la zappa sui piedi».
Lei una notte di dicembre 2006 fu aggredito. Perché?
«Mi ero alzato dalla panchina per fare la pipì, quando mi attaccarono 5-6 persone. Mi hanno spruzzato una cosa negli occhi e massacrato di botte. Ho perso l’occhio, mi hanno spaccato la mandibola. Il prete, lui, l’avevo visto un’ora prima in zona. Non so altro. Ma ora che si è aperta un’inchiesta spero di avere giustizia».
Fonte: corriere.it
Il congedo di padre Angelo e padre Alessandro, trasferiti per mettere a tacere lo scandalo gay provocato da un loro confratello. L’appello a papa Francesco sul sagrato (e non in chiesa, dove non è stato accordato il permesso) da parte del gruppo di parrocchiani che invoca «trasparenza e il coraggio della verità». Lo scontro sulle scale della parrocchia con altri fedeli molto agitati, preoccupati dal «disonore». E ancora, del tutta inattesa, una nuova ondata di rivelazioni. É stata una domenica che, all’ordine dei carmelitani scalzi, non dimenticheranno facilmente. Anche perché, dopo la messa delle 10.30, nel corso della quale il parroco uscente padre Angelo aveva chiamato in causa «il demonio scatenato contro di noi», palese allusione ai cittadini «moralizzatori», si è presentato a sorpresa Sebastiano F., l’uomo del sesso proibito con l’alto prelato: «Vi racconto le mie notti con il prete a Villa Borghese». Immediatamente l’uomo è stato circondato da curiosi. Sul marciapiede di Santa Teresa d’Avila, ad ascoltare l’equivoco personaggio, senza fissa dimora da sempre, per molto tempo sostenuto dalla stessa parrocchia, c’era anche un drappello di cronisti, tra i quali un incredulo reporter del Times, catapultato dalle brume londinesi ai bollenti incontri omosex nella Roma dei «marchettari». Un dialogo registrato. Materia utile, forse, per l’inchiesta aperta dalla Procura.
Come è nato l’incontro con «l’alto esponente» della Curia generalizia?
«L’ho conosciuto nel 2004 a Villa Borghese, mi offrì una sigaretta. Era lui, il superiore dei carmelitani... Poi un giorno, a un funerale, l’ho riconosciuto mentre si vestiva in sacrestia. Padre Alessandro mi chiese: “Lo conosci?” Saltai su: “Azz... Se lo conosco...!” L’avevo visto due ore prima, in un sottopasso qui dietro, per un rapporto, ma senza ricevere soldi... Non sapevo che era un prete».
Lei ha presentato una dichiarazione al cardinale vicario Agostino Vallini?
«Sì, a giugno andai con la mia deposizione al Vicariato, da Di Tora (il vescovo del settore Nord, ndr) e dal cardinale Vallini. E’ uscito don Nicola e mi ha detto: “No, no...”. Ora, invece, sono pronto a firmarla».
Dopo che la storia venne alla luce, cosa è accaduto?
«Era il 2004-2005. Io vivevo qui, in uno sgabuzzino, facevo il servizio Caritas, partecipavo d’estate alla festa di Santa Teresa... Quando ho detto ‘sta cosa a padre Alessandro, lui non mi credeva, ma poi l’abbiamo pedinato: usciva all’una di notte dalla strada di dietro».
Quanto durò la relazione?
«Più di un anno, l’ho conosciuto abbastanza... Lui usa il popps (popper, la cosiddetta droga dei gay, ndr), una sostanza che metti nel naso, non è cocaina, la vendono in Francia, dove è legale».
Incontri segreti, dove?
«Solo a Villa Borghese, in posti chiusi no. E tutti sapevano! Don Agostino, il vecchio parroco, sapeva. A padre Gabriele l’ho detto in confessionale e mi ha risposto che voleva tenersi fuori... Lo sapeva pure don Giuseppe, il parroco di San Nicola a via dei Prefetti. Con lui e la gioventù una volta andai al ritiro spirituale a Palestrina».
Tutti tacevano?
«Certo! Ci sono voluti dieci anni per far venire a a galla la storia. Ma adesso non fate di tutta la parrocchia un fascio. A essere coinvolta è solo una persona... Ho cercato di andare alla Curia per sistemare la faccenda, lì ci sono le telecamere all’ingresso, mi conoscevano bene, anche il padre generale, però hanno sempre tappato tutto, la colpa è anche loro».
Cosa farà adesso?
«Parlo, dico tutto. Basta».
All’inizio però, per essere intervistato, lei al sottoscritto ha chiesto ripetutamente dei soldi.
«Perché sono disperato, dormo per strada. Ma ci ho ripensato, non voglio nulla. Ho deciso di fare la dichiarazione firmata per rispetto a padre Alessandro, che è una persona pulita. Con lui andavo anche a benedire le case, però alla fine mi hanno messo fuori con la calunnia che sono un poco di buono. E anche a padre Alessandro hanno fatto di tutto per buttargli la zappa sui piedi».
Lei una notte di dicembre 2006 fu aggredito. Perché?
«Mi ero alzato dalla panchina per fare la pipì, quando mi attaccarono 5-6 persone. Mi hanno spruzzato una cosa negli occhi e massacrato di botte. Ho perso l’occhio, mi hanno spaccato la mandibola. Il prete, lui, l’avevo visto un’ora prima in zona. Non so altro. Ma ora che si è aperta un’inchiesta spero di avere giustizia».
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