23 ago 2007

Il finanziamento dei partiti e la faccia tosta della politica

“Basta demagogia, facciamo sul serio”: il tesoriere dei ds, Ugo Sposetti, con la sua intervista al Giornale vuol lanciare una “battaglia democratica per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti”. L’ex ferroviere è uno che guarda al sodo, dice pane al pane e vino al vino senza farsi condizionare dagli umori della pubblica opinione. Anzi.

Del resto, chi meglio di lui (che ha praticamente ripianato i debiti dei Ds) sa quanti soldi e fatica ci vogliono per mandare avanti l’enorme baraccone dei partiti?
E così, in pieno trend “anti casta”, senza nemmeno preoccuparsi di nascondere la mano, ha lanciato il suo sasso: nello stagno della politica e anche contro chi a quella casta ha fatto i conti in tasca. Ben sapendo che si sarebbe attirato gli anatemi di molti, anche nel suo schieramento. E pur ridimensionando in parte il tono dell’intervista al Giornale (”Io non ho mai chiesto di tornare al finanziamento pubblico dei partiti così com’era prima del referendum radicale del ‘93″) ha addiritttura rilanciato sostenendo che ‘’non c’è alternativa: o si lascia spazio solo ai grandi patrimoni o alla corruzione…'’. Una sorta di minaccia all’elettore.

Ma la verità è un’altra: i partiti ricevono molti più soldi ora con il rimborso elettorale di quanti ne percepissero prima con il finanziamento pubblico.
Ecco perché questo saltare sulla sedia da parte dei politici italiani (di entrambi gli schieramenti) per il caso Sposetti è sorprendente, visto che il meccanismo del finanziamento pubblico ai partiti non è mai stato abrogato davvero. Era stato introdotto con la legge del maggio 1974 n. 195, all’indomani dello scandalo petroli, uno dei primi clamorosi casi di tangenti, in nome della trasparenza e delle pari opportunità nella competizione politica. Ma quasi venti anni dopo, sempre in piena bufera Tangentopoli era stato bocciati: la stragrande maggioranza degli italiani (più di 31 milioni, cioè il 90,3% di quelli che andarono a votare il referendum radicale) si erano espressi per la sua abrogazione nel ‘93.
Risultato? Per i quattro anni successivi i partiti italiani si sono finanziati grazie alle donazioni dei privati, al tesseramento, alle feste e ai compensi che gli eletti giravano ai loro movimenti. Troppo poco per sopravvivere. E così lo spirito referendario venne di fatto tradito con la legge 2 del gennaio ‘97, quello che i radicali definirono “il pasticcio del 4 per mille”. Cioè: non più un finanziamento decretato per legge, ma legato ai contributi volontari dei cittadini che, attraverso la destinazione ai movimenti e partiti politici del quattro per mille dell’Irpef, potevano esplicitamente dichiarare la propria volontà di finanziare l’attività politica. Ma sulle cifre che gli italiani avrebbero sottoscritto nelle loro denunce dei redditi non sono mai stati forniti dati certi. Anche perché i fondi anticipati preventivamente dallo Stato non corrispondevano mai a quelli versati volontariamente dai cittadini (qualcuno parlò di un anticipo di 110 miliardi a fronte di una ventina di miliardi volontariamente versati dai contribuenti nel ‘98).
A rimpinguare le casse ormai allo stremo dei partiti ci pensò nel 1999 una nuova legge, che introduceva il rimborso elettorale, voluta e varata dal primo governo dell’Ulivo, appena in tempo per le elezioni europee del 13 giugno e per le regionali dell’anno successivo. La norma abbassava dal 4% all’1% la soglia minima di voti per partecipare al “banchetto” delle risorse pubbliche.
Vinte le elezioni nel 2001, è stato poi il governo di centrodestra, con la nel 2002, a preoccuparsi di aumentare il rimborso elettorale, innalzandolo a 1 euro per elettore per ogni anno di durata della legislatura. E a stabilire che le somme fossero corrisposte in unica soluzione, anziché frazionate di anno in anno. Cioè: se fino ad allora era previsto un finanziamento di 4 mila lire per ogni elettore, da dividere in proporzione ai consensi ottenuti dai partiti che avessero almeno un parlamentare eletto, la nuova legge stabilisce che il contributo ammonti a un euro per ciascun elettore ma il fondo totale viene ripartito non una volta sola a legislatura, ma per ogni anno dei cinque cui la legislatura è composta (quindi, in una legislatura, è prevista una cifra di 5 euro a elettore). Inutile dire che passò a larghissima maggioranza nei due rami del Parlamento.
Tirando le somme, le forze politiche hanno intascato 125 milioni di euro nel 2002 e nel 2003 mentre negli ultimi tre anni della legislatura, dal 2004 al 2006, la cifra è salita a 153 milioni.
E a quanto ammonta il gruzzolo per le elezioni dell’aprile 2006? La prima tranche del rimborso è già stata deliberata dai presidenti delle Camere ed è una cifra strabiliante: 487.273.610 euro. Per ottenerla basta moltiplicare 1 euro per tutti i cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali della Camera e del Senato (cioè 97.454.722 di euro annui), che vanno poi moltiplicati per i 5 anni di attività parlamentare.

Un ultimo paradosso? La legge dispone che i partiti percepiscano il rimborso proporzionalmente ai voti ricevuti, ma che questo è calcolato in base all’intera platea elettorale, cioè agli aventi diritto al voto. E ciò vuol dire che i partiti prendono i soldi anche per chi, magari per protesta contro l’attuale panorama politico, rientra nel sempre più numeroso esercito degli astenuti.

Fonte: panorama.it

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